martedì 18 febbraio 2025

Scanzi e Roberto

 

Benigni, l’ex giullare che si è consacrato al cerchiobottismo
di Andrea Scanzi
Roberto Benigni è stato ospite venerdì scorso a Sanremo, ed è andata come molti temevano: il nulla ammantato di iperboli e retorica. Se è lecito nascere incendiari e morire pompieri, Benigni è purtroppo andato molto oltre: è nato Robertaccio ed è diventato disinnescato. Un ex satirico che ormai si compiace del suo equilibrismo infarcito di culturame citazionistico. Stringe il cuore vedere Benigni che, quando finge di fare “satira”, non va volontariamente oltre un livello da Bagaglino democristiano: “Carlo hai paralizzato l’Italia con Sanremo, dovresti fare il ministro dei Trasporti!”. E poi: “Ho detto Bella ciao a Marcella Bella ed è successo un casino, per par condicio ho dovuto salutare i Neri per caso”. Battute da asilo nido, prevedibili e pigre: un mesto timbrare il cartellino di un fu giullare oggi stanco cerchiobottista. Pure la celebratio agiografica e costantemente eccessiva di Mattarella era più prevedibile di un intervento di Bocchino. Ormai Benigni non parla, ma sermoneggia e idolatra. È tutto bello, tutto fantastico, tutto meraviglioso: una sorta di “buonismo d’essai”, che Benigni contrappone ostentatamente alle brutture del mondo. La sua voglia di smussare gli angoli e glorificare tutto ciò che è bipartisan (e dunque non divisivo), lo porta oltretutto a non pochi deragliamenti. Uno tra tutti proprio a Sanremo, quando ha detto che dalla bocca del nostro presidente della Repubblica escono solo parole di pace: neanche ha fatto in tempo ad affermarlo, che per poco Mattarella non ci ha fatto entrare in guerra con la Russia.
Non si capisce bene cosa sia accaduto a Benigni, ma è come se il guitto di un tempo si fosse sedato da solo. Forse per stanchezza, forse per quieto vivere, forse per un malessere esistenziale che lo corrode e gli ha tolto ogni slancio. L’uomo è oltremodo colto e intelligente, come dimostra la sua apprezzabile carriera da divulgatore. È però innegabile che, dopo la geniale intuizione de La vita è bella (film meritorio, a parte il finale orrendamente antistorico in cui Auschwitz lo liberavano gli americani e non i russi), il funambolo Roberto sia evaporato. Gli ultimi due film da regista sono orrendi, non dirige una pellicola da vent’anni e dopo La tigre e la neve (2005) ha recitato in appena due opere. Al cinema non esiste da due decenni e in tivù torna solo per recitare messe laiche iper-ecumeniche e puntualmente cerchiobottiste. Capisco che non potesse essere in eterno irriverente come il Cioni Mario, ma anche questa cosa che invecchiare significhi implodere è una solenne bischerata: i Rolling Stones fanno ancora rock, Guccini è ancora Guccini e Roger Waters è più incazzato oggi di quarant’anni fa. Benigni non è stato spento dall’età: si è spento da solo.
Nel 2016 ebbi la fortuna di intervistare Dario Fo, un altro rimasto vigile e arrabbiato sino alla fine. Mi disse: “Per Benigni ho avuto sempre un grosso affetto e stima, ma ultimamente si è messo in una condizione di non poterlo più seguire. Si adatta in base a ciò che può ricavare”. Proprio quell’anno, dopo aver ripetuto in ogni salsa che la nostra era la Costituzione più bella del mondo, Benigni divenne un supporter sfegatato del suo amicone Renzi e votò convintamente “sì” alla proposta di sventrare la Costituzione: un voltafaccia che molti mai gli perdoneranno. Tra il Benigni di Televacca e quello degli ultimi anni c’è la stessa differenza che passa tra i Metallica e Rkomi. Del resto, se nel 1983 prendevi in braccio Berlinguer e 24 anni dopo ti fai prendere in braccio da Mastella, vuol dire che qualcosa (di grosso) è successo. Qualcuno dice che il cambiamento dipenda dalla moglie Nicoletta Braschi, altri dal desiderio di uscirne “vivi” dopo il successo planetario di La vita è bella. Sia come sia, parafrasando il capolavoro di Giuseppe Bertolucci: “Benigni ti voglio bene”. Ma è davvero troppo tempo che, purtroppo, non ti riconosco più.

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