mercoledì 31 maggio 2023

Pagliaccio

 


Dove siete?

 


Ah ma allora...!

 


Lucidissimo Robecchi!

 

Populismo Giorgia attacca il “pizzo di Stato” (che serve a sanità e scuola)
di Alessandro Robecchi
Un caro pensiero va a tutti gli italiani che in questi giorni o settimane saranno sollecitati da un’associazione chiamata Agenzia delle Entrate a pagare il “pizzo di Stato”, come ha detto in un comizio a Catania il/la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Un vero e accorato appello contro un’organizzazione che vessa e deruba i cittadini, cercando di far pagare le tasse o di recuperare quelle non pagate. Tasse che poi dovrebbero servire a non chiarissimi scopi come per esempio sanità, scuole, servizi, insomma tutte cose di cui potremmo fare allegramente a meno tornando a curarci con erbe e radici, oppure pagando sanità, scuole e servizi privati (cosa che peraltro facciamo sempre più spesso). Potremmo ovviare a questa richiesta estorsiva anche prendendoci a colpi di clava e facendoci giustizia da soli, invece di chiamare carabinieri, magistrati e altri membri della stessa organizzazione che chiede il pizzo.
Fa parte dell’imperdonabile distrazione di questi tempi allegri che nessuno abbia usato a proposito delle esternazioni meloniane sul “pizzo di Stato” l’abusata parola “populismo”. Davvero strano: per anni e anni si è accusato di “populismo” chiunque avesse una visione del mondo appena un po’ discosta da quella consigliata e autorizzata dall’autorità costituita. Era “populista” aiutare i poveri, per esempio, mentre invece correre in soccorso di chi non paga le tasse, perdipiù durante una campagna elettorale, colpo di scena, non è “populista”. Bizzarro.
E ancor più populista, se possibile, è l’ottima intuizione del/della presidente del Consiglio, secondo cui la lotta all’evasione fiscale va fatta contro multinazionali e banche, e non contro il piccolo commerciante. Vero, sacrosanto, nemmeno da dire, ma anche un po’ comodo, visto che le multinazionali e le banche non votano per il sindaco di Catania, mentre invece molti piccoli commercianti sì.
A parte le considerazioni semantiche, però, c’è questo piccolo dettaglio che non è vero. Cioè, non è vero che l’evasione fiscale in Italia è in gran parte un’evasione di necessità (che pure esiste, data la crisi perenne, l’inflazione e altri doni del sistema economico vigente). Solo il venti per cento, infatti, è “evasione da versamento”, cioè dichiari le tue entrate e poi non hai i soldi per pagare il dovuto. L’80 per cento deriva invece da omesse dichiarazioni o dichiarazioni infedeli, cioè, diciamo così, da eroici resistenti al “pizzo di Stato” che si portano avanti col lavoro già in fase di dichiarazione dei redditi.
Esiste una cosa che si chiama “tax gap” e che misura la differenza tra le tasse che lo Stato si aspetta e quelle che arrivano veramente. Le cifre non sono sbandierate da picciotti con il rigonfiamento sotto la giacca, ma rese note dal ministero dell’Economia e delle Finanze e il tax gap per il 2020, per esempio, era di 89,8 miliardi. Non proprio noccioline: più di 28 miliardi di Irpef, più di 25 di Iva, 9 miliardi di Ires (questi sarebbero a carico delle imprese), oltre 5 miliardi tra Imu e Tasi (questi sarebbero i proprietari di immobili), più 4 miliardi e mezzo di Irap e poi giù per li rami con cifre meno eclatanti ma che, sommate, pesano quanto peserebbero tre o quattro manovre economiche all’anno. Tutte cose che però, in un comizio per sostenere un sindaco valgono poco e niente. Meglio il messaggio squillante, diretto e cristallino: se le tasse sono un pizzo e se a richiederle è un “intollerante sistema di potere”, come ha detto Meloni, si risolve così: non pagatelo. Niente male, per non essere “populismo”.

Post sconfitta

 

Oh sìììì ancoraaaa!
di Marco Travaglio
Leggendo le dotte analisi degli esperti sulla sconfitta del Pd stavamo per precipitare nel sonno dei giusti, quando ci ha destati e trafitti un’illuminazione: l’incipit di un tweet di Giorgio Gori, sindaco renziano di Bergamo. Che recita testuale: “Con la vittoria di Giacomo Possamai (a Vicenza, ndr) si completa l’asse che lungo l’A4 vede tutti i capoluoghi, da Milano a Padova, governati dal centrosinistra. E così lungo l’A1 da Milano a Bologna”. Ecco perché il Pd ha perso tutti i capoluoghi tranne Vicenza: perché gli altri non stavano sull’A4 né sull’A1. È tutta una questione autostradale: non sono i programmi e le alleanze a mobilitare gli elettori, ma il profumo dell’asfalto e dei panini Camogli. Resta da spiegare perché Gori tronchi l’A4 a Padova anziché a Trieste (dove c’è un sindaco di destra, Di Piazza, al quarto mandato), e l’A1 a Bologna anziché a Napoli (forse perché in mezzo c’è una decina di capoluoghi di destra). Ma, dettagli a parte, il ragionamento fila. A saperlo prima, si potevano abolire le elezioni in tutti i comuni non attraversati dalle due suddette arterie, e la vittoria era assicurata. Nell’attesa, commuovono altre ficcanti analisi, di cui la più originale è che “si vince al centro con più riformismo”. Infatti ha vinto l’estrema destra di cui non si ricordano riforme a memoria d’uomo.
Molto gettonato anche l’invito alla Schlein a essere “meno radicale” (senza spiegare quale delle sue supercazzole lo fosse) e “puntare su temi più vicini ai bisogni della gente”. Che, detto da un marziano, sarebbe anche un consiglio utile, visto che gli strilli su temi importanti ma minoritari come Ius soli, Ong, fascismo, sovranismo e Lgbtq+ non hanno calamitato gli elettori. Ma l’invito viene da chi ha retto il Pd nei suoi primi 15 anni e dai giornaloni che gli han consigliato come perdere tutte le elezioni (con tassi di successo che rasentano l’infallibilità). L’idea è di ingolosire gli elettori riesumando i cavalli di battaglia acchiappa-voti di Renzi, Gentiloni e Letta: il sempre arrapante Mes, l’appassionante flessibilità sul mercato del lavoro (possibilmente fino ai 90 gradi), l’elettrizzante aumento della produttività, le eccitanti grandi opere (con sblocca-cantieri), l’esaltante diritto alla prescrizione, l’emozionante lotta garantista al giustizialismo, i trascinanti sgravi fiscali alle imprese, le coinvolgenti riforme istituzionali e, dulcis in fundo, l’agognato riarmo al 2% del Pil in nome dell’euroatlantismo e della terza guerra mondiale possibilmente nucleare con la Russia e, se tutto va bene, pure con la Cina. Casomai non bastasse ancora, c’è sempre l’arma segreta che tanta fortuna già portò a Letta, Renzi, Calenda e Di Maio: la stimolante Agenda Draghi, che potrebbe emergere da un momento all’altro dai nuovi scavi di Pompei.

martedì 30 maggio 2023

Si scherza!

 



D'accordo

 

In Ucraina. L’unico interesse dell’Italia è difendere la pace, non inviare armi
di Alessandro Orsini
Il fine delle mie analisi è difendere l’interesse nazionale dell’Italia che coincide con la difesa della pace giacché le guerre danneggiano l’interesse nazionale dell’Italia sempre a causa della struttura delle relazioni internazionali sorta dopo la Seconda guerra mondiale.
Scoppiata la guerra, enunciai la seguente regolarità: “Per ogni proiettile della Nato che l’Ucraina lancerà contro la Russia, la Russia lancerà dieci proiettili contro l’Ucraina”. Detto più semplicemente, per ogni passo avanti, l’Ucraina farà due passi indietro. L’osservazione distaccata della realtà mostra che questa regolarità ha trovato continue conferme e induce a ritenere che continuerà a trovarle nel prossimo futuro portando la guerra verso esiti più tragici. Data la complessità della materia, presenterò le prove che dimostrano la correttezza della mia intuizione per concludere con un monito sull’escalation nucleare. Quanto alle prove, la Russia ha cercato una mediazione prima dell’invasione e dopo lo sfondamento del fronte. Prima dell’invasione, il blocco occidentale ha respinto le richieste del Cremlino. Dopo lo sfondamento, Biden e Johnson, come sappiamo dall’ex premier israeliano Bennett, hanno minato le trattative tra Zelensky e Putin nel marzo 2022. Biden è contrario persino a un cessate il fuoco mediato dalla Cina che John Kirby ha definito “inaccettabile”, il 17 marzo 2023. La guerra si è aggravata. L’Ucraina ha terminato la controffensiva nella regione di Kharkiv a settembre 2022 (un passo avanti) e la Russia ha mobilitato nuovi soldati e annesso quattro regioni (due passi indietro). L’Ucraina ha colpito il ponte di Crimea nell’ottobre 2022 (un passo avanti) e la Russia ha reagito con una spaventosa campagna missilistica contro l’Ucraina (due passi indietro). L’Ucraina ha ripreso Kherson nel novembre 2022 (un passo avanti) e la Russia ha spostato i soldati in Donbass conquistando Soledar e Bakhmut, la battaglia più importante della guerra (due passi indietro). L’Ucraina ha ottenuto i carri Leopard (un passo avanti) e la Russia ha annunciato il trasferimento delle testate nucleari in Bielorussia (due passi indietro). Quando Biden ha detto sì all’addestramento degli ucraini agli F-16 (un passo avanti), Putin ha trasferito le sue testate nucleari in Bielorussia (due passi indietro).
Vengo al pericolo dell’escalation nucleare. Putin userà le armi nucleari se rischia di perdere la guerra. Questo impone al governo Meloni di soppesare l’apparato militare. In caso di guerra con la Russia, Meloni sarebbe in grave difficoltà nel difendere il Paese con le proprie forze a causa dell’enorme debolezza del suo apparato bellico, sprovvisto persino di carri armati e con una flotta debolissima rispetto all’impresa che si configura all’orizzonte. Che cosa fare?
Se il governo Meloni opta per l’aggravamento della guerra, deve armare la Marina militare con urgenza per proteggere il fianco Mediterraneo e, quindi, deve spostare le risorse dall’Ucraina verso la Sicilia tenendo per sé le poche armi di cui dispone e producendone di nuove da trattenere sul territorio nazionale. Deve inoltre valutare la possibilità di tornare alla leva obbligatoria giacché il passaggio all’esercito professionale escludeva la possibilità di una guerra con la Russia. Il governo Meloni dovrebbe sganciarsi dalla linea di Biden e assumere la guida della diplomazia in seno all’Unione europea. Tuttavia, se Guido Crosetto vuole alimentare la guerra, allora sta sbagliando tutto. La Russia sta combattendo una guerra esistenziale e noi stiamo procedendo verso l’escalation nucleare.

Focus elezioni


Ehi, c’è nessuno?

di Marco Travaglio

Non c’è bisogno dell’armocromista per intonare i colori vincenti nei ballottaggi: il nero di FdI, il verde della Lega e l’azzurro di quel che resta di FI. Chi vaneggiava di un pareggio o di uno stop all’onda destroide delle Politiche o assume sostanze psicotrope o confonde i desideri con la realtà. FdI ha smesso di crescere. Ma s’è assestato poco sotto il 30%, 4 punti sopra le Politiche, con Lega e FI stabili. Chi dovrebbe interrogarsi con angoscia, a parte il fu Sesto Polo, sono Pd e M5S, sconfitti anche alle Comunali e senza neppure l’alibi delle mancate alleanze: anche là dov’erano divisi al primo turno si sono uniti al secondo. Ma l’effetto ballottaggio non è scattato, salvo Vicenza. O non è bastato. Nei migliori dei casi, Pd e M5S han perso per 2 punti (gliene sarebbe bastato uno in più), nei peggiori per 8-10 (ne sarebbero bastati 4-5). Questo vuol dire che la partita non è disperata: nell’Italia divisa in due basta poco per ribaltare l’equilibrio. Purché si capisca dov’è il problema e si inizi a risolverlo.

Le Comunali dimostrano che la soluzione non è partire da alleanze stabili o unioni più strette, ma lasciar liberi Schlein e Conte di marcare le proprie identità per recuperare astenuti e delusi (da loro e dalle destre). Tantopiù che il prossimo appuntamento elettorale, le Europee del 2024 col proporzionale, impone corse solitarie, non coalizioni. Ma i due leader devono domandarsi come mai, con tutte le porcate e i flop collezionati dal governo nei primi 8 mesi, i loro partiti siano inchiodati ai numeri del 25 settembre. Le risposte sono diverse, anzi opposte, per Pd e M5S. Conte ha dato al M5S un’identità forte – pacifismo, diritti sociali, ambientalismo e legalitarismo radicali – e gode di un robusto consenso personale per il buon ricordo lasciato da premier, ma non ha classe dirigente sui territori ed è troppo lento nel costruirla. Schlein di classe dirigente ne ha fin troppa, ma non è la sua (gli iscritti volevano Bonaccini); ha un gran consenso solo sui media, che la pompano da tre mesi, ma non fra i cittadini, che non hanno ancora capito cosa dice né cosa vuole, persa com’è nell’eterna mediazione fra le correnti e costretta a supercazzole incomprensibili, astruse, elitarie, lontanissime dalla vita della gente. In cima ai pensieri degli italiani ci sono welfare e guerra. Sulla guerra il Pd ha la stessa posizione della Meloni; quanto al welfare, i suoi pigolii su precariato, salario minimo, Rdc, extraprofitti, Pnrr e Superbonus non si sentono, coperti dagli strilli su questioni di cui non frega niente a nessuno: dalle pippe sull’Agenda Draghi il Pd è passato all’Aventino sul caso Cospito-Donzelli- Delmastro e alle barricate per gli auto-martiri Fazio e Annunziata. Dal “non ci hanno visti arrivare” al “perché, è arrivato qualcuno?”.

L'Amaca

 

Diteci tutto di zio Hohenzollern
DI MICHELE SERRA
Faccio i più affettuosi auguri al nuovo tag REALI, che si aggiunge ai tantissimi contenuti offerti dal sito di Repubblica. Conto di essere assente giustificato qualora mancassi, da lettore nonché da anziano collaboratore, a ogni singolo appuntamento della festosa rassegna di matrimoni e fidanzamenti di principi regnanti dell’intero pianeta, con ricca descrizione dei cerimoniali, dei vestiti, dei menù, delle acconciature, degli strascichi, degli anelli, dei diademi, delle corone; e della appassionante trama di parentele tra royal families di ogni latitudine; e come erano vestiti la cugina Wilma, il cognato Cirillo, lo zio Hohenzollern.
Il problema (mio eh, per carità, non voglio generalizzare) è che a un’antica indifferenza si è sommata, lungo gli anni, una nuova insofferenza ai troppi ghingheri, troppi privilegi, troppi inchini. Per quanto la mitezza mi pervada, inesorabile, fin dall’infanzia, al decimo resoconto di come si è inchinata la valletta, e quali fiorellini reggeva tra le candide dita, mi viene voglia di leggere una biografia di Gaetano Bresci, ammesso che ancora si sappia, nel terzo millennio, chi fu costui.
Anzi no, ripensandoci, scusate: facciamo conto che Bresci non sia mai esistito, altrimenti il rischio è che su qualche giornale ci si domandi come era vestito, l’anarchico regicida, quando sparò al Savoia. Potrebbe nascerne una “tendenza Bresci”, con influencer devoti e relativo dibattito social, con moltitudini che si scannano sul quesito: era più elegante Bresci con la pistola o la sua vittima con la sciabola? Poi ci sarebbe la politica: ma chi se ne frega, suvvia, della politica. Diteci come si pettinano le principesse, il resto è appena una parentesi.

lunedì 29 maggio 2023

Perché, perché?

 

Capita di rado, ed è successo oggi, che la compagine governativa al potere stracci nelle elezioni comunali l'opposizione; normalmente infatti si assiste ad una ripresa dei partiti che non stanno in tolda, e questo avviene generalmente perché alle promesse non si riscontrano effettive azioni. 

Non in questo frangente politico. Il centrodestra infatti ha vinto alla grande i ballottaggi, lasciando all'opposizione solo Vicenza. 

Perché? 

La risposta viene da lontano, da molto lontano: il rimescolamento improvvido, il torbido fasciante ogni angolo del potere e dell'opposizione hanno generato miasmi e scioccheria in grandi quantità; la perdita di identità del maggiore partito di sinistra ha provocato una specie di rimbambimento globale, sfociante nel "tanto sono tutti uguali!"

Le cause sono dettate da pressapochismo, inefficienza, clientelismo, inchino a chicchessia per ottenere le ambite poltrone, la trasformazione della politica in lavoro remunerato principescamente. Il politico di mestiere è l'oppio degli arzigogolanti, le partecipate il salvagente per tutti coloro che usciti dal cerchio magico continuano a tettare soldi pubblici per il mantenimento di privilegi insalubri voluti da tutti lor signori. 

Manca totalmente la serietà che l'incarico pretenderebbe, sono scomparse le lotte a difesa dei deboli, il connubio con il mondo imprenditoriale è in ogni dove granitico. 

Come poter vedere nel partito democratico uno spiraglio di giustizia e di lotta contro le eclatanti disparità sociali? 

Chi ancora crede alle parole oramai abusate che questi signori ancor oggi spargono nell'aere a titolo quasi commediografo? 

E il Movimento 5 Stelle sta intorbidendosi anch'esso, andandogli a ruota, lontano mille miglia da una seria opposizione. 

E i giornali, vedasi in primis Repubblica, che gracchiano alla luna contro il melonismo, con quale grado di serietà vengono accolti dagli impavidi lettori se risultano di proprietà di un famiglia che ha pensato bene di portare i propri tesori in Olanda per non pagar le tasse? 

Il partito democratico deve ripulirsi al suo interno, completamente. Deve presentare nuovi e giovani politici, deve tranciare di netto i suoi interessi nell'imprenditorialità, nella finanza, nel commercio. Per tornare ad essere faro la strada è solo questa. I chiacchiericci oramai lasciano il tempo che trovano. Occorre schierarsi nettamente contro l'invio di armi da attacco in Ucraina, cercare la pace nel dialogo, non solo a parole ma nei fatti, combattere le ingiustizie seriamente e non recitando, fare opposizione seria, dura, intransigente, dando pure visibilità a rinunce a stipendi e privilegi di casta; occorre che le forze d'opposizione s'uniscano seriamente senza se e senza ma, dando evidenza che quando scade un mandato non si rientra dalla finestra in qualche municipalizzata ad infiascare aria fritta con lauta ricompensa. 

Occorrono segnali, seri e forti. Precisi ed indefessi. Altrimenti il nero perdi sempre modificherà la Costituzione, rimpiombando nella malefica dottrina dell'uomo forte. 

Date segnali di cambiamento, concreti e precisi, lasciando stare banche e tristi realtà affondanti il senso comune della solidarietà. 

Solo così si potrà sperare in un cambiamento, in una conversione di ideali spazzanti questa forma di malcelato fascismo, che molti gonzi scambiano per democrazia.     

Quisigode!

 


Tomaso e il Don!

 

Don Milani, gigante eretico annacquato nella retorica
IL CENTENARIO DELLA NASCITA - Straniero. Oggi lo sarebbe come allora. Chiamava i ricchi “padroni” e sosteneva che non esistesse “un guerra giusta né per la Chiesa né per la Costituzione”
DI TOMASO MONTANARI
In una pagina mirabile, il gesuita Michel de Certeau ha ricordato che “la Chiesa è sempre tentata di contraddire ciò che afferma, di difendersi, di obbedire alla legge che esclude, di identificare la verità con ciò che essa ne dice, di censire i ‘buoni’ in base ai suoi membri visibili … La storia dimostra che la tentazione è reale … ma l’esperienza cristiana rifiuta radicalmente la riduzione alla legge del gruppo. Ciò si traduce in un movimento di superamento incessante. Potremmo dire che la Chiesa è una setta che non accetta mai di esserlo. È costantemente attratta fuori di sé da quegli ‘stranieri’ che le sottraggono i suoi beni, che prendono sempre di sorpresa le elaborazioni e le istituzioni faticosamente acquisite, e nei quali la fede vivente riconosce, poco a poco, il Ladro – colui che viene”. Una Chiesa, insomma, sempre tentata di lasciare la profezia per essere una società chiusa di ortodossi: e però sempre provvidenzialmente “sconquassata” da “stranieri” (cioè non allineati, non omologati, non conformisti) che in un primo tempo avversa, per poi riconoscere in essi Dio stesso, che disse di sé: “Ecco, io vengo come un ladro” (Ap. 16, 15).
Don Lorenzo Milani, che sabato scorso avrebbe compiuto cento anni, è stato uno di quegli stranieri, di quei ladri: uno dei più grandi, dei più duri, dei più teneri. La sua storia è stata scritta una volta per tutte da Dostoevskij, alla fine dei Karamazov: quando Gesù torna sulla terra il Grande Inquisitore, cioè la Chiesa del potere, gli rimprovera di aver voluto lasciare gli uomini liberi, di averli amati quando avrebbe dovuto dominarli. È quello che la Chiesa rimprovera ad ogni profeta: troppo amore! Trattato in vita dalla gerarchia ecclesiastica come un eretico (lui che era invece scrupolosamente ortodosso da un punto di vista dogmatico, e attratto dai sacramenti in modo quasi mistico), Milani oggi viene celebrato con fiumi di retorica: e il rischio è che non si rammenti più che era uno straniero e un ladro, cioè un profeta incendiario. Nato ricco e colto, Lorenzo Milani segue nudo il Cristo nudo, nei suoi poveri, con due stelle polari: il Vangelo per primo, e la Costituzione per seconda. Egli consuma la sua vita per dare ai poveri quella parola, quella lingua, quella dignità che possano permettere loro di non essere più schiavi dei “padroni”: come chiamava, senza reticenze, i ricchi e gli imprenditori. “Ci ho messo venticinque anni a sortire dalla classe sociale che scrive e legge l’Espresso e Il Mondo – scrive – Non mi devo far ricattare nemmeno per un solo giorno. Mi devono snobbare, dire che sono un ingenuo e un demagogo, non mi devono onorare come uno di loro, perché non sono di loro”. Ascoltiamo lui, allora, quest’anno: rileggiamo i libri suoi (in realtà sempre libri collettivi, scritti con il suo popolo, con i suoi ragazzi) e quelli dei testimoni più stretti e fedeli (Michele Gesualdi, Adele Corradi). Capiremo che don Milani è solo dei suoi poveri, non dei potenti che sabato hanno invaso Barbiana: “Reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri”.
La statura politica del Priore di Barbiana è assodata da tempo. Diceva Tullio De Mauro: “Capiamo meglio oggi Gramsci grazie alla grande luce, alla grande protesta, alla forza intellettuale di penetrazione nelle cose sprigionata da don Milani”. E la sua più ardente eredità politica è racchiusa proprio nelle ultime parole che dice al suo Michele: la scuola non serve a “produrre una nuova classe dirigente, ma una massa cosciente”. Oggi, al tempo del ministero dell’Istruzione e del merito, la situazione è anche peggiore di quella che Milani combatteva. La scuola è stata messa al servizio dello stato delle cose, non del suo scardinamento. Serve a trasformare i ragazzi in capitale umano, in merce nel mercato del lavoro, in pezzi di ricambio per il mondo così com’è. Fa ancora parti eguali fra diseguali: e lo chiama ‘merito’. Manda ancora via i malati, e cura i sani: e la chiama “selezione”. E la stessa democrazia è ormai a gravissimo rischio, tra astensionismo e ritorno del fascismo: Milani scrive che, in una classe, “ventotto apolitici più 3 fascisti eguale 31 fascisti”.
Non fosse morto prima, sarebbe stato condannato per apologia di reato: l’obiezione di coscienza, che difende con tutta la sua forza. Perché nell’età atomica, scrive, “non esiste più una ‘guerra giusta’ né per la Chiesa né per la Costituzione”. Insegnava ai suoi ragazzi che “se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura. … Poi forse qualche generale troverà̀ ugualmente il meschino che obbedisce, e così non riusciremo a salvare l’umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima”. Quanto ci manca, oggi: nell’Italia senz’anima che, celebrandolo, lo tradisce.

domenica 28 maggio 2023

adieu!

 


Ingratitudine



Ma guarda questi giovani che non vogliono accettare le proposte del nobilissimo mondo imprenditoriale! Come si fa a rinunciare a contratti stagionali dove devi impegnarti solo dodici ore al giorno, senza festività naturalmente perché nelle feste si lavora di più, magari con qualcosa in busta e il rimanente in nero - ah il nero che va così tanto di moda oggi - senza nessun progettualità nel futuro, senza possibilità d’impostarti la vita? Scansafatiche vengono etichettati dai nobili marchesi arruffoni impegnati a introitare il più possibile alla faccia loro! In questa forma deturpata di capitalismo i giovani pare non accettino lo sfruttamento, una subdola forma di schiavitù 2.0, abbellita, edulcorata da frasi ad minchiam tipo “alla vostra età io lavoravo ventisette ore al giorno!”, frase fuori dal tempo, da questo tempo dove rapidità, istantaneità la fanno da padroni. Ci fosse qualcuno che sommessamente proponga eticamente di vietare che un cameriere possa non aver possibilità di vivere da libero almeno un weekend al mese, lavorando non più di nove al giorno! Certo una proposta del genere comporterebbe più spese per l’imprenditore e meno guadagno, cosa inaudita in questi tempi di tecno-rapto-pluto capitalismo. Tranquilli, non c’è nessuno in giro a difendervi cari giovani! Soprattutto nella zona politica che storicamente lo dovrebbe fare. Se non fosse uguale all’altra.

Anniversario

 


Il giocattolino

 

“Dal traffico all’impatto: ecco perché è inutile e impagabile”
LA “TASSA” DEL PONTE - I 14,6 miliardi di spesa non aiutano commercio, pendolari e turisti, creano poco lavoro e violano la Costituzione
DI MARCO FRANCHI
I flussi di traffico? Risibili, senza impatti effettivi sul turismo, sul pendolarismo. Le ricadute occupazionali? Solo a breve termine. I costi? Una tassa per il Paese. La procedura di Valutazione di impatto ambientale? Illegittima, come pure l’affidamento senza gara. Il ponte sullo stretto di Messina è un’opera che sfida la legge, la logica e il buon senso, che deturpa il paesaggio, ferisce l’ecosistema, viola le leggi e le norme, che non crea sviluppo “buono” né crescita duratura. Eppure il governo Meloni lo vuole tanto da averlo inserito nella Legge di Bilancio 2023. Di più: con il decreto legge n. 35 del 2023 non si è limitato alla revoca della liquidazione della Stretto di Messina SpA, trasformandola in società concessionaria in house con le “funzioni” di realizzazione e gestione dell’opera, ma ha addirittura riesumato il rapporto con il contraente generale Eurolink, sospendendo a colpi di articoli di legge i giudizi civili pendenti, e ha dato nuova vita pure al progetto definitivo redatto dalla stessa Eurolink e approvato dalla Stretto di Messina il 29 luglio 2011. Sono questi i passaggi salienti delle durissime critiche contenute nel dossier di esperti ambientalisti “Lo Stretto di Messina e le ombre sul rilancio del ponte” pubblicato nei giorni scorsi da un pool di esperti di Kyoto Club, Lipu e Wwf, con il contributo di numerose associazioni ambientaliste e della società civile, tra le quali il Coordinamento Invece del ponte – cittadini per lo sviluppo sostenibile dello Stretto.
L’elenco delle principali criticità dell’ecomostro che Salvini e Meloni vogliono erigere su uno dei punti più sismici d’Italia e d’Europa è lungo. Si va da quelli giuridici, con i profili di illegittimità e incostituzionalità delle norme per realizzare il ponte sullo Stretto di Messina, specie quel fronte delle valutazioni ambientali in conflitto con l’articolo 9 della Costituzione e la pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistica, a quelli tecnico-ingegneristici sulla fattibilità stessa e sull’esigenza di riprogettare il ponte sospeso sino a suoi impatti ambientali ed ecologici.
Ma dove l’analisi demolisce dalle fondamenta il piano del governo è sul fronte dell’economia. Dati alla mano, l’opera è insostenibile finanziariamente, i vantaggi economici inesistenti, evanescenti i presunti benefici per trasporti, turismo, mobilità e occupazione. I problemi scattano già per il traffico marittimo: un ponte con una luce di 65 metri, com’è nel progetto attuale, bloccherebbe il transito delle navi portacontainer maggiori in rotta verso Gioia Tauro, il più importante scalo italiano di transhipment, mentre i cargo da Genova, Napoli, Livorno e Salerno per il canale di Suez dovrebbero circumnavigare la Sicilia, con aggravi di costi e tempi. Se poi si volesse alzare l’impalcato di 15 metri (per avere la certificazione del “franco navigabile”) l’opera andrebbe riprogettata integralmente.
Secondo gli ambientalisti, in base alle norme nazionali ed europee non si può poi riattivare l’intesa con il general contractor Eurolink, sciolta per legge nel 2013, ma occorre rifare la gara. Dal valore originario di 3,9 miliardi del 2003, il costo di riferimento sale oggi a 6,065 miliardi e il tetto entro può crescere senza gara (in base al Codice degli Appalti e alla direttiva 24 del 2014) è poco più di 9, molto sotto i 14,6 (quasi un punto di Pil) indicati dal governo. Le carenze di analisi del governo fanno sì che i privati non siano disponibili a partecipare all’opera, tanto che il piano economico e finanziario pone a totale carico pubblico il rischio finanziario sia dell’investimento che della gestione. Lo stesso gruppo di lavoro del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sostiene che i pedaggi non consentono il project financing. Come i ricavi, così anche i dati sull’occupazione indicati dal Governo sono sovradimensionati. Secondo il costruttore Webuild il monte ore totale per costruire il ponte sarebbe 85.131, con un’occupazione media mensile di non più di 507 addetti: altro che i 100mila stimati, anche nell’indotto, che peraltro sarebbero tutti a termine.
Infine, i flussi di traffico non ripagano l’opera. Secondo il MiMS il 76,2% degli spostamenti su nave sono di passeggeri senza auto ma i pendolari quotidiani sono 4.500, molto pochi. Quanto al trasporto su ferro il canone di uso della ferrovia sarà determinato, secondo il decreto, per perseguire la sostenibilità ambientale del ponte, costituendo una vera e propria tassa sul trasporto ferroviario. Il traffico su gomma previsto è di 11,6 milioni di auto l’anno, a fronte di una capacità di 105 milioni nei due sensi: una saturazione di appena l’11% del ponte, troppo bassa per giustificare l’opera. Ragione e logica dicono no al Ponte, ma al governo pare non importare.

sabato 27 maggio 2023

Fini e il male

 

Solo in Italia il divino B. poteva sfangarla così
DI MASSIMO FINI
Il redivivo Silvio Berlusconi è tornato all’onor del mondo e delle cronache anche per definire meglio quale sia l’identità di Forza Italia di cui è il capo indiscusso. Dice Berlusconi: “Siamo gli unici davvero liberali, cristiani, garantisti, europeisti, atlantisti”. Berlusconi oltre a essere capace di tutto (ma non “buono a nulla”, questo no) è in grado di interpretare tutte le parti in commedia. Cristianesimo e massoneria sono agli antipodi perché i massoni sono atei, ma lui riesce essere contemporaneamente cristiano e massone. Fregi massonici ha fatto mettere sulla tomba di famiglia ad Arcore. Quando il Psi fu travolto dalle inchieste di Mani Pulite quasi tutti i socialisti accorsero nelle file berlusconiane, contraddizione in termini perché un socialista può essere alleato di chiunque, anche dei nazionalsocialisti, ma non di un turbocapitalista. Parlando a quella platea di sbandati, Berlusconi disse: “In fondo io sono anche un po’ socialista”, provocando un fremito di stupore e anche di terrore perché quelli socialisti non erano più. Berlusconi è stato poi, di volta in volta, operaio, musicista, calciatore, allenatore, pianista, studente alla Sorbona e forse anche magazziniere.
Berlusconi aggiunge poi il suo eterno leitmotiv: “Sul piano dei consensi siamo stati penalizzati dagli effetti di una persecuzione giudiziaria nei miei confronti basata sul nulla e conclusa con una serie di assoluzioni”. Ora è vero che Berlusconi è stato più volte assolto soprattutto grazie a una serie di prescrizioni (nove), ma in un caso è stato condannato in via definitiva, per una colossale frode fiscale (360 milioni di dollari in tutto, anche se in gran parte corrosi dalla prescrizione), nell’estate del 2013 dalla Cassazione che fece proprie le motivazioni della sentenza di appello che definiva l’incredibile caratura “criminale” di Berlusconi. Ora se non vale la sentenza di condanna, come sostiene Berlusconi, per logica non valgono nemmeno le sue assoluzioni. E se non vale una sentenza di condanna definitiva della magistratura perché ritenuta una “persecuzione”, allora, per coerenza, bisogna aprire tutte le carceri perché chiunque può essere stato oggetto di una “persecuzione” (in verità nel mondo berlusconiano quando non si tratta di ‘colletti bianchi’, ma di stracci, vale il principio espresso da madama Santanchè: “In galera subito e buttare via le chiavi”).
Buona parte della legislazione di Berlusconi è stata indirizzata contro la magistratura, per delegittimarla o comunque per toglierle gli strumenti per agire. Adesso ministro della Giustizia è Carlo Nordio, ex magistrato livido verso gli altri magistrati, soprattutto milanesi perché mentre costoro scoperchiavano il letamaio di Tangentopoli, lui a Venezia non brillava granché e sulle coop rosse fece un clamoroso buco nell’acqua. Pur essendo formalmente di Fratelli d’Italia, Nordio è un berlusconiano honoris causa. Adesso vuole abolire il reato di abuso d’ufficio perché sostiene che solo l’1 per cento delle denunce di questi reati porta a una condanna definitiva (sfido io: quel reato è stato modificato e svuotato una mezza dozzina di volte in 30 anni). Allora aboliamo anche il reato di furto perché pure nel reato di furto non tutte le denunce finiscono in una condanna; per gli stessi motivi aboliamo i reati di stupro, di assassinio e soprattutto, cosa che sta particolarmente a cuore a lor signori, quelli di concussione e corruzione che sono i reati tipici dei ‘colletti bianchi’.
Tutta la stagione berlusconiana è stata segnata dalla emanazione di una serie infinita di leggi cosiddette “garantiste” che appesantendo i già pesanti Codici penali e di procedura penale, impediscono, di fatto, di arrivare alla conclusione di un processo perché scatta inevitabilmente la mannaia, graditissima dai furfanti, della prescrizione. In Francia l’ex presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy è stato condannato dalla Corte d’appello a tre anni di carcere, di cui uno senza condizionale, per corruzione. Non finirà in carcere ma agli arresti domiciliari con l’obbligo di braccialetto elettronico. In Francia, in Germania, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti sono poste regole precise per evitare che un parlamentare, approfittando della sua posizione, si dedichi ad attività di lobbying. Da noi Matteo Renzi, quando al cittadino comune era proibito allontanarsi di più di 200 metri dalla sua casa, trasvolava paesi, mari, continenti per fare consulenze, ben pagate, al principe saudita e “rinascimentale” Bin Salman.
In Italia regna la più grande confusione. Il 23 maggio a Palermo si commemorava Falcone tra l’altro con il “Silenzio d’ordinanza”, ma la banda aveva appena finito di intonare il “Silenzio” che subito è scoppiato l’applauso. Noi non siamo più in grado di sopportare il silenzio perché viviamo in un perenne baccano. E in quel baccano gli anti-mafiosi si confondevano con i mafiosi o quantomeno con simpatizzanti della mafia.
È nella confusione e nella mancanza di leggi certe, ma sempre aggirabili a proprio uso e consumo, nel baccano, in cui ha sempre vissuto, che Silvio Berlusconi ha potuto prosperare e adesso è sempre e ancora lì, emana, come il Dio di Plotino, la sua influenza su tutto il Paese ed è determinante per la tenuta del governo. In qualsiasi altro Paese del mondo avrebbe almeno un “braccialetto elettronico”.

Precisazioni

 

Logica e armocromia
di Marco Travaglio
Riceviamo dal Comitato per la Tutela della Logica e volentieri pubblichiamo.
I giornaloni dedicano ritratti encomiastici a Henry Kissinger per i suoi 100 anni. Corriere: “Il cervello di Kissinger: come fa, a 100 anni, a essere così lucido (e qualche dritta per fare lo stesso)”. Riotta su Rep: “Il secolo lungo di Kissinger… lo statista”. Messaggero: “Kissinger, la lezione della realpolitik anche per la crisi ucraina”. Siccome Kissinger ripete da 15 mesi che la guerra non è solo colpa di Putin ma anche della Nato, va negoziato un compromesso fra Mosca e Kiev e il conflitto con la Cina è una follia, cioè l’opposto dei giornaloni che lo celebrano mentre danno del “putiniano” e del “pacifinto” a chi la pensa come lui, la domanda è semplice: se lui è lucido, loro sono rincoglioniti?
La Annunziata lascia la Rai perché “non condivido nulla di questo governo”. Calcolando che ha lavorato per la Rai, come conduttrice, direttrice del Tg3 e persino presidente, quasi ininterrottamente dal 1995 all’altroieri, ciò significa che condivideva tutto dei governi Dini, Prodi 1, D’Alema 1 e 2, Amato 2, Berlusconi 2, Prodi 2, Berlusconi 3, Monti, Renzi, Gentiloni, Conte 1, Conte 2 e Draghi? E, nel caso, come faceva?
Leggiamo ovunque che la presidente Rai Marinella Soldi, renziana (sì, il Sesto Pelo ha la presidenza Rai), ha votato contro le “nomine maschiliste e sovraniste” della destra. Poi scopriamo da Dagospia che ha bocciato solo i direttori di Tg1 e Tg2, mentre ha approvato gli altri 25, quasi tutti maschi e lottizzati fra tutti i partiti, soprattutto il Pd (9 contro 7 alla Lega, 5 a FdI, 3 a FI e M5S). Quindi tutti quei maschi diventano femmine, o sono solo fluidi?
Apprendiamo del voto contrario e degli alti lai del Pd contro la Rai “monocolore di destra, senza donne né pluralismo” e domandiamo: ma le 9 direzioni (su 27) vinte dal Pd di che colore sono?
Scopriamo che il Pd è furibondo perché i 5Stelle si sono astenuti in Cda, dove l’astensione equivale al voto contrario, e li accusano di averla barattata con tre succulente direzioni: Rai Parlamento, Cinema e Serie tv, RaiCom (per un soffio hanno perso RaiGulp). Domani rivela addirittura che “Schlein boccia Orfeo e Ammirati”, cioè i suoi direttori di Tg3 e Raifiction, ma anche le altre sue 7 pedine imposte al Pd contro la sua volontà dalla perfida destra per metterlo in cattiva luce. Quindi immaginiamo che ora i dem cederanno le 9 poltrone che tanto schifano a qualcun altro, magari il Tg3 al M5S, che è il terzo partito d’Italia ma non ha tg. Altrimenti qualcuno potrebbe sospettare che i dem abbiano partecipato allegramente all’orrenda spartizione “monocolore di destra, senza donne né pluralismo”: non sarebbe da loro e bisognerebbe affidarli a un bravo armocromista.

Funzionamento ridotto

 


In una serata profumante di estate t'imbatti in questa busta bianca, confezionata con buona carta, quasi profumata; il destinatario è un tuo parente, in alto a sinistra s'apre il baratro: Agenzia delle Entrate-Riscossioni! Parte la musica in cuore, di per sé già in alterazione ritmica; le note che rimbombano alimentando dubbi e psicosi, sono tipiche della tragedia greca; i pensieri corrono come bisonti incazzati nella prateria, le opzioni iniziano ad emergere, spaventose, annichilenti. 

L'apertura della lettera ti lascia basito, pensieroso: hanno, per così dire, scovato un arzigogolo risalente al 2017 nel pagamento dell'Irpef di uno che fa una vitaccia per arrivare ad avere uno stipendio dignitoso. Al 2017 e chiedono per questo ben 330 euro. 

Ti verrebbe da dire: " cavolo lavorano proprio bene! Ammesso che sia giusto il riscontro, quei signori han scoperto un'imperfezione nel 730 del 2017 di un operaio.. ne consegue quindi che stan raggiungendo la perfezione e finalmente... finalmente..." 

E invece no! Sai benissimo che queste sono palesi ed incontrovertibili prese per il culo! Sei certo che sia così altrimenti, altrimenti, di chi kazzo sono i centoventi miliardi che annualmente evaporano per la complicità di un sistema manigoldo che premia evasori e briganti? 

La solerzia degli addetti alla riscossione è indubbia: fanno il loro mestiere. Il risentimento non è da meno, se pensi che molti in questo momento, avendola sfangata, si stan godendo il bottino in qualche amena località, attorniati da schiavi proni alle loro esigenze. 

Ti girano in pratica i coglioni, scusate il francesismo. Avverti sullo sfondo gli sfottò dei balordi incuranti della socialità che godono nel lasciare a te stipendiato fisso, l'onere di mandare avanti scuole, ospedali, illuminazione delle strade; noti che il governo attuale addirittura sta depotenziando le pene, solo sulla carta visto che negli anni precedenti ha pagato veramente lo 0,75% dei grandi evasori, allontanando lo spettro del carcere per chi sfanculerà balzelli; ti viene alla memoria pure l'innalzamento della soglia di omissione voluta da quel Bimbominkia che molti credettero fosse un politico. 

Ti girano i coglioni. Ci stanno da tempo immemore prendendo per il culo; ad ogni nuovo governo tra i punti presentati nel discorso d'insediamento c'è sempre la lotta all'evasione. Una fetecchia insulsa, uno sberleffo altisonante verso chi ancora crede nello stato democratico. No, non siamo tutti uguali in queste lande! Soprattutto in campo fiscale. La solerzia e la pignoleria, sacrosante, sono solo riservate a chi contribuisce col proprio lavoro al bene comune. E sono sempre meno. 

venerdì 26 maggio 2023

Chiarimento




Osho

 


Non sarà che...

 



Interessante

 

Chi guarda il TG1, cosa che non faccio da almeno vent'anni, è un Gasparri!
Chiocci, il segugio che insufflò la patacca di Telekom Serbia
IL PERSONAGGIO - Il nuovo direttore e le bufale di Igor Marini. È legato a Bisignani e agli Angelucci
DI TOMMASO RODANO
Per sapere di cosa parliamo quando parliamo di Gian Marco Chiocci, nuovo direttore del Tg1, conviene partire da un’altra storia e un altro nome: Igor Marini. Figura leggendaria, che pare uscita dalla penna degli sceneggiatori di Boris: vantava sangue blu (ex conte), si spacciava per broker finanziario, s’accreditava un trascorso da stuntman e flirt da cronaca rosa. Più modestamente, aveva lavorato da facchino al mercato ortofrutticolo di Brescia. Attorno al faccendiere Marini è stato costruito uno dei più clamorosi falsi della recente storia d’Italia: la fantasmagorica patacca dello scandalo Telekom Serbia, gonfiata come un palloncino dal Giornale di Silvio Berlusconi e Maurizio Belpietro; un caso di corruzione internazionale che avrebbe coinvolto Romano Prodi, Piero Fassino e Lamberto Dini.
Correva l’anno 2003, Marini era il testimone chiave, quello a cui era stata affidata la responsabilità di denunciare, con documenti farlocchi, il pagamento di 120 milioni di tangenti sui conti inesistenti di “Mortadella” (Prodi), “Cicogna” (Fassino) e “Ranocchio” (Dini). Una campagna immaginifica, sposata per mesi dai parlamentari berlusconiani in un’apposita commissione d’inchiesta e rilanciata con ben trentadue (32) titoli in prima pagina sul Giornale di B. Chi sono i giornalisti che hanno intervistato Igor Marini e raccolto, infiocchettato e propagato le sue menzogne? Le firme erano sempre le stesse tre: Mario Sechi, Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica. Il primo è capoufficio stampa di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, il secondo è stato piazzato a dirigere il più importante Tg della Rai.
Chiocci non è solo questo. I suoi mandati alla guida del Tempo (dal 2013) e di AdnKronos (dal 2018) sono considerati un successo. Ha rilanciato lo storico quotidiano della destra romana, che pareva decotto, grazie a una linea editoriale vivace e aggressiva (con le vignette di Osho diventate un marchio riconoscibile). Alla direzione dell’agenzia di stampa di Pippo Marra ha coltivato rapporti trasversali, con un occhio privilegiato alle vicende dei Cinque Stelle di governo. Una copertura che gli ha garantito un rapporto assiduo e certo non ostile con Giuseppe Conte.
Da cronista aveva messo la firma su inchieste pesanti, come quella su “Affittopoli” – che tra le altre cose fece “sloggiare” Massimo D’Alema dall’appartamento di Trastevere, per il quale pagava un canone irrisorio a un ente previdenziale – e soprattutto sulla famigerata “casa di Montecarlo” che ha disintegrato la carriera politica di Gianfranco Fini, poco dopo la rottura con Berlusconi.
È giornalista vero, il nuovo direttore del Tg1, ma pure uomo di relazioni, con una conoscenza profonda del mondo dei servizi segreti e legami solidissimi con la destra di sopra e “di mezzo”. È amico di Denis Verdini, come del re delle cliniche private (e dell’editoria destrorsa), Antonio Angelucci. Nota anche la frequentazione con Luigi Bisignani: ai pm di Napoli dell’inchiesta sulla P4, il faccendiere disse che Chiocci era usato da “informatore giudiziario” (come ha ricordato Lirio Abbate su Repubblica). Poi ci sono stati gli incontri – di natura giornalistica, ha spiegato lui – con Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, protagonisti di “Mafia Capitale”: il direttore del Tg1 fu indagato per favoreggiamento, il gup dichiarò il non luogo a procedere . Una vita fa: ora si sono spalancate le porte della Rai.

Non fa una piega!

 

Non fa una piega, sembra diventato meloniano invece è soltanto realista; si ricorda le cose che accaddero, i misfatti piccoli e grandi dell'Era del Ballismo, di cui ancora ne paghiamo le conseguenze.
Non una lacrima
di Marco Travaglio
Vorremmo anche noi appassionarci, come tanti neopartigiani da terrazza, per la Rai “sovranista”, “fascista” e altre parole senza senso (almeno applicate alla Rai). Ma purtroppo conserviamo un briciolo di memoria, dignità e sense of humour. Ce la mettiamo tutta per piangere anche noi a dirotto sul battaglione di lottizzati che sostituisce il precedente. Ma niente: non ci escono proprio le lacrime. Le abbiamo consumate per le vere tragedie, tipo i 300-400mila morti ucraini e russi nella guerra che anche l’Italia ha contribuito a falciare e ora si prodiga a moltiplicare a suon di armi e proiettili. Di tragico la Rai non ha nulla: è solo farsa da avanspettacolo e non fa neppure ridere (salvo quando l’irpino Pionati, già mezzobusto demitiano e poi politico neodemocristiano, riciccia in quota Lega). E sempre lo sarà finché non cambierà la legge Gasparri riveduta e corrotta dalla legge Renzi, che consegnò al Parlamento e poi al governo un bene comune così prezioso che la politica non dovrebbe neppure sfiorarlo: il servizio pubblico radiotelevisivo. Ogni protesta, ammutinamento, stracciamento di vesti a destra (quando lottizza la sinistra) e a sinistra (quando lottizza la destra) è ipocrisia pura: una fiera del tartufo e un’esca per gonzi.
Se oggi il governo Meloni “si prende la Rai”, non è perché è arrivato il fascismo: è perché lo dice la legge scritta a quattro mani dal berlusconismo e dal renzismo. Anzi, questa destra riesce persino a sembrare meno peggio del renzismo: Renzi si prese le tre reti e i tre tg, da cui furono cacciati Berlinguer (dal Tg3), Gabanelli, Giannini, Giletti e Porro (dalla Rai); Meloni dà 5 posti a FdI, 7 alla Lega, 3 a FI, 3 al M5S, ben 9 al Pd. E fa meno peggio anche di Draghi, che riuscì nel capolavoro di regalare tre quarti della Rai al Pd che non ha mai vinto un’elezione da quand’è nato, di escludere dal Cda l’unico partito di opposizione (FdI) e da tutte le reti e i tg il partito di maggioranza relativa che aveva vinto le elezioni: i 5Stelle. Renzi renzizzò, Draghi draghizzò, Meloni non melonizza. E Fazio e Annunziata sono usciti con le loro gambette, senza che nessuno li cacciasse. La lottizzazione non è il pluralismo: ne è una triste parodia, perché premia gli uomini di partito anziché gli uomini liberi (i più bravi, perché stanno in piedi da soli senza bisogno di tessere). Ma, per dire come siamo ridotti, è la cosa che più si avvicina al pluralismo con la legge vigente. Il Pd sale sull’Aventino contro la “lottizzazione selvaggia”? Benvenuto fra noi: ma prima dovrebbe risparmiarci il chiagni e fotti e rinunciare al Tg3 e alle altre sue otto poltronissime selvaggiamente lottizzate (o le sue le ha portate la cicogna?). Poi chiedere scusa e battersi per cambiare la sua legge, anziché votare contro chi la applica.

L'Amaca

 

Lo Stato non alza le mani
DI MICHELE SERRA
Su poliziotti e carabinieri la penso come Pasolini: sono figli del popolo e fanno un lavoro che molte persone più protette e privilegiate preferirebbero non fare.
Proprio perché sono dalla loro parte mi preoccupa la cadenza quotidiana di video (gli ultimi due a Milano e Livorno) dai quali traspare, diciamo così, un’esuberanza repressiva che spaventa, anche perché è ai danni di persone che, nella scala sociale, non sono certo classificabili tra i più forti.
Pasolini descrisse il conflitto di piazza tra proletari (i poliziotti) e figli di papà (gli studenti). Qui invece le botte arrivano addosso a derelitti e gente comune. Non che picchiare un commendatore o una contessa sia meno grave; lo Stato dovrebbe avere con tutti la stessa severità, ma per tutti lo stesso rispetto. È solo per dire che l’uso strumentale del Pasolini “pro-poliziotti”, tanto caro alla destra, va storicizzato; e non è certo spendibile nel caso si vedano persone in divisa che menano e scalciano transessuali, o ambulanti, o gente della strada.
Al contrario, il timore è che la destra al governo (compresi, sia detto per amor di cronaca, un po’ di fascisti) sdogani oggettivamente i modi bruschi. Che giovanotti di cultura semplice, solo perché indossano una divisa, credano che “adesso” è finalmente lecito alzare le mani. Compito primario della destra di governo sarebbe chiarire a tutti che il confine tra lecito e illecito, in uno Stato di diritto, non varia a seconda che al Viminale ci sia la destra o la sinistra o quant’altri. Sono i criminali, in genere, a ritenere che il corpo delle persone sia violabile. E a disporne con violenza. Gli uomini dello Stato non devono e non possono farlo, chiunque abbia vinto le elezioni.

giovedì 25 maggio 2023

Sghignazzi

 


Ricostruzioni

 

Avevamo frainteso
di Marco Travaglio
Quando, esattamente 15 mesi fa, la Russia attaccò l’Ucraina, qualche certezza l’avevamo tutti.
Pensavamo che Kiev non c’entrasse nulla con la Nato, fuorché nella propaganda di Putin; poi la Nato intervenne cobelligerando e armando Kiev fino ai denti.
Pensavamo che il governo ucraino non c’entrasse nulla coi nazisti, fuorché nella propaganda di Putin. Poi Zelensky si portò un nazi del battaglione Azov (inquadrato nelle forze armate di Kiev) nel collegamento col Parlamento greco. E altre centinaia ne vedemmo uscire dall’acciaieria di Mariupol con i loro simpatici simboli nazisti e le loro svastiche tatuate.
Pensavamo che le nostre armi servissero per la resistenza dell’Ucraina contro gli attacchi della Russia; ora scopriamo che l’Ucraina le usa per attaccare la Russia con milizie di estrema destra che i giornaloni chiamano “partigiani russi”, ma senza spiegare perché partono dall’Ucraina e quando mai i nostri governi han dichiarato guerra alla Russia.
Pensavamo che, fra Ucraina e Russia, lo Stato terrorista fosse la Russia, come da black list della Nato e dunque dell’Ue. Poi gli ucraini hanno assassinato a Mosca Darya Dugina, figlia del filosofo Aleksandr. Poi il capo dei Servizi militari ucraini Budanov s’è vantato di “uccidere” i propagandisti russi “ovunque sulla faccia della terra fino alla vittoria”. Confermando che l’Ucraina è uno Stato terrorista che fa attentati con le nostre armi. Cosa peraltro già nota dal 2014, quando le sue forze armate assassinarono il giornalista italiano Andrea Rocchelli e il collega russo Andrej Mironov in Donbass, coperte dai depistaggi dei regimi Poroshenko-Zelensky.
Pensavamo che l’obiettivo fosse un cessate il fuoco e un negoziato per risparmiare altri morti e distruzioni; oggi basta dire “cessate il fuoco” per essere putiniani.
Pensavamo che Bakhmut fosse la Maginot degli ucraini, tant’è che in sei mesi ci han bruciato decine di migliaia di uomini e un’infinità di proiettili e armi; ora che l’esercito più potente d’Europa, armato dai 40 Stati della temibile “Nato allargata”, l’ha persa, nessuno ne parla più, come se fosse un paesucolo qualunque.
Avevamo capito che la controffensiva ucraina di primavera per riconquistare gli oblast di Lugansk, Donetsk, Kherson, Zhaporizhzhia e ovviamente la Crimea e poi trattare la resa di Putin sarebbe scattata in primavera; e ci auguriamo che arrivi in fretta, perché fra 26 giorni ci toccherà attendere la controffensiva d’estate.
Avevamo capito che la Russia sarebbe andata in default nella primavera 2022; ora leggiamo che il default lo rischiano gli Stati Uniti nella primavera 2023.
Avevamo capito che la prima vittima delle guerre è la verità. Ma forse stavolta si esagera.

Disanima finiana

 

Le assurde condizioni di “pace” pretese dal protervo Zelensky
DI MASSIMO FINI
La protervia di Zelensky, accolto come una star di Hollywood, quasi fosse Brad Pitt, al G7 di Hiroshima a cui non si capisce a che titolo abbia partecipato perché del G7 non fa parte, aumenta in parallelo con l’invio di armi, sempre più sofisticate ma “difensive” per carità, e di dollari, con cui viene rimpinzata l’Ucraina.
Sono emerse in questi giorni, sia pur in un modo un po’ nebuloso, le precondizioni che Zelensky pone per avviare un trattato di pace.
1) Ritiro senza condizioni dei russi dalle zone occupate dal 2014. Non si capisce allora su cosa mai si dovrebbe trattare, forse sulla garanzia alla Russia che l’Ucraina, diventata la più armata e inquietante delle Nazioni europee, non aggredirà in futuro la Russia.
2) Processo per “crimini di guerra” ai più importanti leader russi e, attraverso di essi, alla Russia stessa. Non è ancora chiaro davanti a quale Tribunale si dovrebbe svolgere questo processo, non davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja per “crimini di guerra” perché nessuna delle tre Potenze interessate, Ucraina, Russia, Stati Uniti, aderisce a questo organismo (gli Stati Uniti non ci sono perché, ça va sans dire, loro “crimini di guerra” non ne commettono). Insomma a un “Tribunale speciale” come la Corte se ne aggiungerebbe un altro ancora più speciale.
Se fossi nei panni di Zelensky io sarei più cauto nell’invocare un “Tribunale speciale” che, con tutta evidenza, coinvolge la Russia intera. Perché questi “Tribunali speciali” sono storicamente, da Norimberga in poi, i Tribunali dei vincitori e se, Dio non voglia, fosse l’Ucraina a perdere la guerra – pronostico molto azzardato, ma quante volte abbiamo visto squadre scalcinate battere le “grandi” del calcio europeo – sul banco degli imputati si troverebbero Zelensky e i suoi, inseguiti da mandati di cattura per tutto il mondo, come avviene ora per Putin e un’infinità di cosiddetti “oligarchi”. E se il processo dovesse ricordare anche la storia relativamente recente di questi Paesi durante la Seconda guerra mondiale contro il nazismo, i russi hanno lasciato sul campo oltre venti milioni di morti mentre l’Ucraina non solo si è lasciata invadere senza colpo ferire ma, con la Gestapo in casa, cioè con gente seria e non degli straccioni, si è resa responsabile di uno dei più gravi pogrom antiebraici (di qui l’iniziale freddezza di Israele a soccorrere l’Ucraina, anche se poi pure gli israeliani si sono dovuti piegare agli interessi del loro protettore americano di cui peraltro sono la longa manus in Medio Oriente).
3) Addebitare alla Russia le distruzioni perpetrate in Ucraina. È questa la condizione più ragionevole posta da Zelensky, anche se in Serbia, 1999, in Iraq, 2003, in Libia, 2011, nessuno si è mai sognato di addebitare distruzioni agli americani e, per quanto riguarda l’Iraq e la Libia, nemmeno ai francesi e agli italiani sciaguratamente proni come sempre, questi ultimi, al volere del Signore yankee.
In quanto agli afghani nessun risarcimento è mai stato previsto per l’aggressione Nato durata vent’anni, ma si è provveduto, al contrario, a rapinarli dei loro pochi beni.
È questa una politica tradizionale, diciamo così, degli americani e degli inglesi in tutti gli scacchieri del mondo, a cominciare, solo a titolo di esempio, da Haiti dove queste pratiche sono state ben documentate nel bel libro di Ti-Noune Moïse Terra! Ma nessuna patria.