domenica 30 aprile 2023

Nella nassa

 

Levategli il fiasco
di Marco Travaglio
Scampoli di ordinaria “informazione” all’italiana.
Un ghostbuster del Corriere rivela che Gentiloni e Draghi, al posto di Conte, non avrebbero preso tutti e 209 i miliardi di Recovery che Conte aveva strappato all’Ue: ne avrebbero buttati un po’ dalla finestra. Peccato che il commissario Ue indicato da Conte e il premier subentrato a Conte si siano sempre scordati di dirlo. Ma “se Draghi fosse rimasto al governo… oggi Gentiloni sarebbe segretario generale della Nato”. E, se avesse i cingoli, sarebbe pure un carro armato.
Dopo le paginate dedicate all’intervista della Schlein sull’armocromista che l’aiuta a vestirsi, Repubblica difende la Schlein dai cattivoni che dedicano paginate alla sua intervista. Merlo: “Spirito di patata”. Concita De Gregorio: se Conte “toglie la pochette e indossa il dolcevita non succede niente, se è una donna succede l’inferno… Siete patetici”. Peccato che Conte non abbia mai dato interviste sui suoi abiti e Rep&affini abbiano sparato in decine di articoli sulla pochette e il dolcevita. Inclusi la Patetica e il Merlo (maglione da “Fregoli”, “va liquidato con un coro di ‘scemo scemo’”).
Scandalo nazionale per il rinnovo del mini-Csm della giustizia tributaria, i cui membri, come quelli del Csm, sono eletti dal Parlamento a maggioranza assoluta. Cioè da destra e opposizioni. Su 12 posti, la destra ne prende 9 e ne lascia uno al Pd, uno al M5S, uno a Calenda. Ma il Pd ne vuole due, poi pretende che siano donne anche quelli degli altri. E si ritira sdegnato sull’Aventino. Conte indica non un’igienista dentale, un’amante, un pregiudicato, un portaborse o il suo legale, ma l’ex ministro della Giustizia Bonafede, avvocato, che ha combattuto l’evasione con la Spazzacorrotti e le manette agli evasori. Corriere: “Asse M5S-centrodestra”. Rep: “Bonafede promosso grazie alla destra”. Stampa: “Bonafede torna col sì della destra. I dem: ‘I 5S cercano solo poltrone’”. Strano che il Pd non sia uscito dall’aula anche quando, coi voti della destra, elesse il suo membro al Csm e votò i sette della destra. Allora, comunque, nessun “asse Pd-destra”.
Sulla Stampa, paginone manicomiale di Enrico Deaglio sull’“inesistente trattativa Stato-mafia”, inventata da Ingroia, Di Matteo (che si inventò anche l’ordine di ucciderlo pronunciato da Riina per avere un “bomb jammer” per “salvarsi la vita” e fare la “carriera” che non ha fatto), Ciancimino jr., Fatto, Santoro e Grillo. Ragion per cui Deaglio “ringrazia la Corte che ha posto fine a questo strazio” e chiede di “indagare” sui pm. Si scorda solo un minuscolo dettaglio: undici anni prima di Ciancimino, a parlare di “trattativa” con Cosa Nostra furono gli ufficiali del Ros che l’avevano condotta: Mori e De Donno. Erano estranei, ma non lo sapevano.

L'Amaca

 

L’amaca
Che colore ha la politica
DI MICHELE SERRA
Ho fatto una cosa stravagante. Forse rivoluzionaria. Ho letto per intero l’ormai famigerata intervista concessa da Elly Schlein a Federico Chiara di Vogue. Ho provato a rimettere una frase dentro il suo testo e dentro il suo contesto, una riga dentro le sue pagine. Ho pensato che l’uno per cento di un quadro, se il restante 99 per cento rimane oscurato, non è abbastanza per vedere il quadro.
Non ci crederete, ma l’intervista (lunghissima, interessante e ben scritta) parla poco delle questioni personali di Schlein, e parla molto di politica. In tutti i suoi aspetti. Dice — tra tante altre cose — che per far cessare le guerre tra poveri sarebbe ora di tassare i ricchi (la sintesi è mia), argomento, e non l’unico, che da solo avrebbe meritato molti più titoli di giornale di quanti ne sono stati dedicati al breve cenno della segretaria del Pd alla sua consulente cromatica. Eppure non ricordo uno solo titolo, su mille, che abbia scelto di commentare le opinioni di Schlein sulla politica fiscale.
Dunque tutti, per giorni, abbiamo parlato di giacchette e non di tasse. E pur convenendo che le giacchette sono più divertenti delle tasse, forse qualche domanda su come funzionano, nel nostro Paese, la comunicazione politica e l’informazione sulla politica, dovremmo farcela. A che serve dedicare tempo e attenzione alle domande di un giornalista se già sai che sarà il dettaglio frivolo, il pettegolezzo, il tweet del giorno prima o del giorno dopo, quello che poi arriva all’opinione pubblica? Come possiamo pretendere dai politici che tornino a parlare di politica, se quando poi lo fanno ci concentriamo sul colore dei golfini?

sabato 29 aprile 2023

Ci fu!

 

L’hanno detto loro
di Marco Travaglio
Sta’ a vedere che, a doversi scusare per la trattativa Stato-mafia, non sono gli uomini dello Stato che l’hanno fatta e poi confessata, ma i magistrati che l’hanno scoperta e processata e i pochi giornalisti che l’hanno raccontata. Tutti fingono di non sapere, di non conoscere i fatti accaduti e documentati dal 1992 a oggi, che nessuna sentenza potrà mai smentire. E confondono dolosamente il piano penale da quello fattuale, morale e istituzionale. Ma al massimo possono dire, come la Corte d’appello di Palermo e la Cassazione, che trattare coi mafiosi e aiutarli a intimidire tre governi a suon di stragi per disarmare lo Stato contro Cosa Nostra non è un reato. Non che è un’invenzione. Anche perché la trattativa è stata ammessa e raccontata nei minimi dettagli non solo dai mafiosi (i pentiti Giovanni Brusca&C., e gli irriducibili, da Riina a Graviano, intercettati in carcere). Ma anche dai carabinieri del Ros. Dopo che Brusca la svelò nel 1996-’97, il generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno furono sentiti dalla Corte d’assise di Firenze sulle stragi del 1993-’94. E confermarono tutto, chiamandola proprio “trattativa”.
Ecco Mori il 27.1.’98: “Incontro per la prima volta Vito Ciancimino… a Roma, nel pomeriggio del 5 agosto 1992 (subito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, all’insaputa della Procura di Palermo e del comandante dell’Arma, ndr). L’Italia era quasi in ginocchio perché erano morti due fra i migliori magistrati… non riuscivamo a fare nulla dal punto di vista investigativo e cominciai a parlare con lui: ‘Signor Ciancimino, cos’è questa storia, questo muro contro muro? Da una parte c’è Cosa Nostra dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?’. La buttai lì, convinto che lui dicesse: ‘Cosa vuole da me, colonnello?’. Invece disse: ‘Si può, io sono in condizioni di farlo’… Ciancimino mi chiedeva se rappresentavo solo me stesso o anche altri. Certo, io non gli potevo dire: ‘Be’, signor Ciancimino, lei si penta, collabori che vedrà che l’aiutiamo’. Gli dissi: ‘Lei non si preoccupi, lei vada avanti’. Lui capì e restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa… Il 18 ottobre, quarto incontro. Mi disse: ‘Guardi, quelli (Riina&C., ndr) accettano la trattativa’…”. Anche De Donno, che aveva condotto da solo i primi incontri con Ciancimino subito dopo Capaci, parlò di “trattativa”: “Gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti di Cosa Nostra, al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di questa attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, e Ciancimino accettò”.
E ancora: “Facemmo capire a Ciancimino che non era una nostra iniziativa personale… Successivamente ci disse che… la persona che faceva da mediatore tra lui e Riina (il medico Antonino Cinà, ndr), voleva una… prova della nostra capacità di intervento: la sistemazione delle vicende giuridiche pendenti del Ciancimino, con conseguente concessione di passaporto… Al quarto incontro, si fece portatore di un messaggio di accettazione della nostra richiesta di trattativa, di dialogo, di discorso dei vertici siciliani. Ci disse: ‘Sono d’accordo, va bene, accettano, vogliono sapere che cosa volete’”. Riina, che voleva “fare la guerra per fare la pace”, era raggiante: le stragi pagavano.
Ecco: questi erano i rappresentanti dello Stato: si stupivano del “muro contro muro” fra mafia e Stato dopo decenni di festosa convivenza. Infatti si precipitarono a ripristinare le larghe intese, andando a trattare con un mafioso corleonese condannato e detenuto ai domiciliari come Ciancimino per ristabilire lo status quo. E l’han detto loro. Perciò sono stati processati insieme ai mafiosi: perché trasmisero il messaggio al governo Amato. Il 22-23 giugno De Donno informò Liliana Ferraro (subentrata a Falcone agli Affari penali del ministero della Giustizia) che Ciancimino aveva accettato di mediare con Riina in cambio di “garanzie politiche”. La Ferraro chiese a De Donno di informare Borsellino, poi riferì al ministro Martelli, che la pregò di informare Borsellino. Che meno di un mese dopo saltò in aria in via D’Amelio. Poi Riina fu arrestato dal Ros, che non ne perquisì il covo. E quando furono individuati Santapaola (nel ’93) e Provenzano (nel ’95), trovò il modo di non catturarli. Cosa Nostra riprese le stragi a Firenze, Milano e Roma, alzando il tiro per alzare la posta della trattativa. E Conso revocò il 41 bis a 334 mafiosi. Poi arrivò Berlusconi e il tritolo non servì più: bastava e avanzava la politica.
I giudici di primo grado hanno ritenuto che la trattativa ci fu ed era reato (“minaccia a corpo dello Stato”). Per quelli d’appello ci fu, ma era reato solo per i mafiosi: i Ros presero “un’iniziativa quantomai improvvida oltre che in totale spregio dei doveri del loro ufficio”, con una “ibrida alleanza con la fazione mafiosa di Provenzano” per “indicibili” motivi di “interesse nazionale”: trattarono, veicolarono la minaccia mafiosa allo Stato, ma senza dolo, cioè a fin di bene (il fatto c’è, ma “non costituisce reato”): infatti, anziché degradati sul campo, furono tutti promossi. Per la Cassazione, i Ros non veicolarono neppure la minaccia, dunque i politici favorirono la mafia per pura telepatia (“non aver commesso il fatto”): ci provarono solo i mafiosi senza riuscirci (“tentata minaccia”, prescritta). E noi dovremmo scusarci con i Ros perché abbiamo creduto alle loro parole e pretendiamo il “muro contro muro” fra Stato e mafia? Ma si scusino loro. E si vergognino.

L'Amaca

 

Il prezzo della scelta
DI MICHELE SERRA
Fanno discutere alcune fuoruscite di eletti nel Pd (nelPd, ma evidentemente non
del Pd), la più clamorosa delle quali sarebbe quella della eurodeputata Chinnici, figlia di quel padre, che secondo voci insistenti andrebbe in Forza Italia. Il partito fondato da Marcello Dell’Utri, come sottolinea, sconsolato, il siciliano Peppe Provenzano.
La discussione è inevitabile, perché tira in ballo vecchie e sentite questioni come il rapporto tra eletti ed elettori, la coerenza personale, la lealtà con il partito che si rappresenta. Ma per essere completa, e soprattutto utile, non deve rispondere solo alla domanda “come mai se ne vanno?”, ma anche alla domanda “come mai erano nel Pd?”. Una possibile risposta alla seconda domanda, buona per rispondere anche alla prima, è questa: perché quel partito aveva una identità politica talmente indefinita, e deformabile, che ci si poteva stare con tutto agio senza bisogno di sottoscrivere idee-forza impegnative. Insomma, si poteva stare nel Pd anche senza sentirsene parte: il caso De Luca, tra tutti, è quello più nitido.
Il solo arrivo di Schlein, per quanto recente, per quanto non abbia ancora generato proposte nero su bianco quante ne bastano per dare corpo a una direzione politica ben leggibile, ha però restituito una certa sonorità alla parola “sinistra”, lasciando allo scoperto, comprensibilmente, chi non ritiene di farne parte. Riformisti e radicali, dentro qualunque sinistra “di massa”, a partire dal vecchio Pci, hanno sempre convissuto in virtù di una comune scelta di campo. Chi di sinistra non è, o non crede più nel significato di quella parola, ieri si è sentito libero di stare nel Pd, oggi, per la stessa ragione, di andarsene. Che questo piccolo esodo rinforzi o indebolisca il partito, si vedrà. Che lo definisca meglio, non c’è dubbio.

venerdì 28 aprile 2023

Sempre a scherzar!




Open


Natangelo

 


Assenze


 

Daniela e la figuraccia

 

La peste della pubblicità da Santanché a Schlein
DI DANIELA RANIERI
La vera peste, nella politica e nella cultura, è la comunicazione. Succede che la Armando Testa, agenzia pubblicitaria fondata dall’omonimo disegnatore opportunamente deceduto nel 1992, ha comprato una pagina del Corriere per ringraziare, ma in realtà insolentire, chi aveva criticato la campagna “Open to meraviglia” realizzata per conto del ministero del Turismo e Enit (Ente per il turismo guidato da una proprietaria di un’agenzia di viaggi amica della Santanchè) al costo di soli 138 mila euro nell’ambito di un investimento di 9 milioni. “Quando una campagna per la promozione turistica rompe il muro dell’indifferenza”, esordisce il Gruppo Testa, manco avesse realizzato una pubblicità progresso sul racket e i morti di mafia – “e riesce a dar vita ad un dibattito culturale così vivace, rappresenta sempre qualcosa di positivo”. Quello che l’agenzia chiama “dibattito culturale” è stato in realtà un pernacchione unisono emesso in tutta la websfera tipo preghiera del muezzin da decine di migliaia di utenti, indignati proprio contro l’incultura trasudata da ogni singolo pixel della campagna diffusa. La Venere di Botticelli ferragnizzata, grafiche pedestri, immagini comprate a stock su siti stranieri, cantine vinicole slovene spacciate per italiane, stereotipi à gogo e l’uso di un italiano maccheronico come si suppone lo parlino i ricconi del Texas in procinto di firmare il rogito per una villa nel Chianti: tutto era così kitsch e provinciale che sembrava incredibile servisse ad attirare turisti anziché a farci mettere al bando dalla comunità internazionale per manifesta condizione di sottosviluppo.
Qui la Armando Testa, che si definisce “il più grande gruppo di comunicazione italiano nel mondo”, fa una marcia indietro passivo-aggressiva: precisa che si trattava di “una campagna solo presentata ma non ancora uscita” e ringrazia chi aveva pensato che il video fosse “lo spot ufficiale della campagna”. Ma tu pensa. I grandi comunicatori hanno dimenticato di comunicarlo alla committente Santanchè, che ha tenuto una conferenza stampa in pompa magna alla presenza del ministro degli Esteri Tajani, del ministro dello Sport Abodi e dell’ad dell’Enit sua amica, per lanciare un video di prova; e poi, sempre ignorando che fosse solo una bozza, ha difeso la campagna millantando di aver “utilizzato linguaggi vicini ai giovani”, che notoriamente parlano mezzo italiano e mezzo inglese, e per dire “andiamo al mare”, ad esempio, dicono “andiamo to the sea”, certissimamente. La lettera fa riferimento ai soldi pubblici sperperati in questo incarico, ma nell’italiano incerto dei comunicatori suona meno chiaro che nelle parole di Santanchè: “Nove milioni è il costo della campagna che faremo in tutto il mondo, ossia gli acquisti degli spazi negli aeroporti, nelle stazioni, nelle città, dagli Stati Uniti d’America all’India, fino a toccare tutti i Paesi e i continenti”. Ah, ma allora è tutto a posto: 9 milioni per rendere lo spot fisicamente virale, casomai a qualche tribù nativa del Borneo sfuggisse la faccia della Venere incollata sul corpo di una ragazza che mangia la pizza sul lago di Como. Del resto Santanchè, maestra di eleganza, aveva lamentato che “come Italia non siamo bravi a venderci”. In ciò è tutta la concezione del turismo culturale del governo, una vita Smeralda in cui i nostri monumenti e capolavori sono prodotti da rifilare al turista di bocca buona per via di uno spot che sarebbe apparso scarso anche per la Pro loco di Orte. Per somma irrisione, il gruppo Testa ringrazia anche a nome della Venere di Botticelli: “Erano più di 500 anni che non si parlava di lei così tanto”. In effetti La nascita di Venere era un capolavoro semi-sconosciuto, che dal 1485 i vari direttori degli Uffizi non sanno dove piazzare e qualcuno aveva relegato infine vicino al distributore del caffè, finché un creativo della Armando Testa l’ha scoperta per caso mentre cercava i cessi e gli si è accesa la lampadina.
Scriveva Mario Perniola in Contro la comunicazione: La comunicazione “è la bacchetta magica che sembra trasformare l’inconcludenza, la ritrattazione e la confusione da fattori di debolezza in prove di forza e che sostituisce l’educazione e l’istruzione con l’edutainment, la politica e l’informazione con l’infotainment, l’arte e la cultura con l’entertainment”. Non è solo una peste di destra: di tutte le mistificazioni della comunicazione, la più grande è stata quella di “presentarsi sotto le insegne del progressismo democratico”. Vogue riferisce che la fresca Elly Schlein si avvale dei consigli di un’armocromista, una consulente d’immagine a 300 euro l’ora che le spiega come abbinare i colori. Il problema è questo: i pubblicitari, i ricchi e i politici vivono nel mondo in cui qualunque cosa pagata tantissimo è un successo in virtù delle qualità alchemiche del denaro che ne trasformano la sostanza, mentre nel mondo reale una porcata rimane tale.

Daje!

 

Tomo tomo Chicchio chicchio
di Marco Travaglio
Ai mille misteri dell’universo se ne aggiungono due: perché mai Elly Schlein paghi qualcuno per consigliarla di vestirsi così; e con quale microscopio i Fioroni, Marcucci e Borghi appena fuggiti dal “nuovo” Pd vi abbiano intravisto tracce di “massimalismo”. La nuova Anna Kuliscioff s’è finora concessa in tre interviste: non a Terza Internazionale o Lotta comunista, ma a Stasera c’è Cattelan, Che tempo che fa e Vogue Italia. Il che, oltre agli operai delle catene di montaggio, ha elettrizzato le più note testate indie: Rep e Corriere. Rep esalta le “scelte non casuali per la casual chic Elly”, “le pose in trench… lo stesso indossato tra i partigiani come punto di congiunzione tra i due mondi”, ma soprattutto “la novità estetica e (quindi) politica: ‘In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio’. Una personal shopper che le ha consigliato tonalità e l’addio all’eskimo”. Quindi non indossa la prima cosa che capita: c’è tutto uno studio, dietro. E l’armocromista-personal shopper, tomo tomo Chicchio Chicchio, si fa pure pagare: “140 euro l’ora più Iva per il lavoro sui colori; sullo shopping saliamo a 300; per il guardaroba dipende. Con Elly ho un forfait”. Il Corriere nota il “tono estremamente informale”. Tipo “evitare il rischio burnout”, l’“outing” come “forma di violenza” (la fidanzata fotografata da un paparazzo), lo slogan “Love is love” (“Life is life” e “Sanremo è Sanremo” erano già presi). Il segreto è “entrare in connessione con le persone che vogliamo rappresentare con un linguaggio inclusivo che si rivolga a tutti e a tutte”. Una nettezza già mostrata sull’inceneritore: “Non è sul terreno delle scelte già fatte che si misura quello che noi proviamo a costruire a partire dalla piattaforma congressuale che vuole fortemente mettere al centro i temi della diciamo emergenza climatica, di come ci liberiamo dalla dipendenza delle fonti fossili, di come investire maggiormente sull’ economia circolare e sull’efficientamento energetico sulle rinnovabili per una strategia complessiva, una visione complessiva”.
Chissà quando Borghi e gli altri buontemponi che si fanno chiamare “cattolici” e “riformisti” l’hanno vista mangiare preti o incendiare chiese; e dove han colto nel Pd la “mutazione genetica massimalista, figlia della cancel culture”. Qui l’unica cancellazione è quella dell’eskimo a favore – Chicchio dixit – del “trench di taglio sartoriale”. Ma a ben vedere il massimalismo affiora in questo passaggio: “Io provo a rimanere sempre in contatto con me stessa, ad ascoltarmi, a capire quando sto tirando troppo, a difendere alcuni spazi”. Esplicita citazione della tipa di Moretti in Ecce Bombo: “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose…”. Poi dice che uno si butta a destra.

L'Amaca


Un complotto contro Varese
DI MICHELE SERRA
Ognuno ha le sue piccole fissazioni, una delle mie sono i nazisti di Varese: da anni non mi perdo una sola riga, sui giornali, a proposito dei nazisti di Varese. Mi ha sempre colpito leggere che in quella provincia lombarda ricca di luoghi ameni, e di laboriose virtù, il neonazismo ha radici robuste: c’è una birreria nella quale (con ospiti da tutta Europa) si festeggia ogni anno il compleanno di Hitler. Ci sono circoli e associazioni devotissimi alla supremazia ariana. E omoni barbuti e tatuati che il 25 aprile sono andati a rompere le balle a chi lo festeggia, inneggiando ai caduti di Salò. Un poco come se alla messa di mezzanotte, a Natale, uno facesse irruzione in Chiesa pretendendo che il prete rivolgesse una preghiera a Odino.
Nessuno sa spiegare perché proprio a Varese (che ha un sindaco di centrosinistra, tra l’altro) ci siano tanti nazisti. È capitato così. Potremmo avere i nazisti di Viggiù, o di Pordenone, abbiamo invece i nazisti di Varese.
Bisognerebbe chiedere a John Belushi, meglio ancora agli sceneggiatori dei Blues Brothers, perché, con tutti gli Stati che ci sono in America, abbiano scelto, come nemico per antonomasia, proprio i nazisti dell’Illinois. Magari in Illinois, per davvero, ci sono un sacco di nazisti.
Magari no, era solo la battuta di uno sceneggiatore del Nebraska che, detestando l’Illinois, voleva sputtanarlo: perché niente è sputtanante — lo sanno tutti — come essere nazista.

Allo stesso modo, ogni volta che leggo sui giornali (e capita spesso) dei nazisti di Varese, sospetto che sia qualcuno di Bergamo, o di Alessandria, che ha i suoi buoni motivi per screditare Varese, fingendosi un nazista di Varese.

giovedì 27 aprile 2023

Click!



Altare della Patria 25.04.23: il presidente del Senato eia-eia La Russa saluta il Presidente della Repubblica, tra i dardi infuocati della/lo/il/gli/le simil democratica presidente del Consiglio.

Ssss non svegliate il Ricoverato!

 


Piano piano, lemme lemme, per non disturbare il santo Ricoverato, ecco che la Cassazione conferma i dieci anni all'ex sottosegretario all'Economia del governo del Ribaldo, Nicola Cosentino, forzista e signore di quelle aree ahimè martoriate dalla malavita organizzata. 

Ma la beatificazione non può soffermarsi davanti a questo squallore, anzi! Sua Beltà sta recuperando le forze, e noi che non auguriamo il male a nessuno, veniamo però assaliti dal solito e urticante dilemma: da Dell'Utri in poi, Farsa Italia è stata un coacervo di collusioni, alcune, come quella di Cosentino, eclatanti. Il patto affaristico dell'Era del Puttaniere, evidenziato da elezioni che premiavano nella totalità il partito azienda di colui che un tempo foraggiava la mafia con pagamento di tangenti, appurato da sentenze oramai passate alla storia, malefica, di questo paese, appare sempre più nitido, concreto, irriguardoso con la nostra martoriata democrazia. 

Ma la malattia del capo supremo, al quale auguro pronta guarigione, cancella d'un fulmineamente i presunti loschi affari, provoca amnesie in molti, moltissimi, fino ad elevare al rango di padre della Patria, l'attuale Ricoverato. 

Non è così che si rende onore alle tante vittime per mano mafiosa, ad iniziare da loro, Falcone e Borsellino, che lustri addietro intuirono il macabro connubio. 

Cosentino ne è la conferma. Triste ed ineluttabile sentenza che appassisce tante nobili gesta di eroi valorosi che tentarono, e tentano tutt'oggi, di rinvigorire questo nostro paese, per spezzare i gangli che attanagliano la democrazia e, soprattutto, la nostra libertà.  

Autogrill

 


Figliuoli

 

Un Figliuolo è per sempre
di Marco Travaglio
Pancia indentro e penna infuori, è tornato il generalissimo Francesco Paolo Figliuolo, già Supercommissario dell’invincibile armata draghiana che spezzò le reni al Covid. Sembra ieri che tentava di vendere l’autoagiografia scritta a quattro mani con Severgnini, o forse a sei con Cutugno: Un italiano. Fu l’ultima impresa sul suolo patrio, dopo l’intrepida campagna vaccinale condotta infilandosi come un cuculo nel nido di Arcuri, con uniforme piastrellata, piglio ginnico e frasi perentorie da colonnello Buttiglione: “Sono abituato a vincere”, “Svoltiamo”, “Acceleriamo”, “Cambiamo passo”, “Chiudiamo la partita”, “Fuoco a tutte le polveri”, “Non siamo ancora a régime, “Diamo la spallata”, “Stringiamci a coorte” (incurante dell’infausta rima), “Fiato alle trombe” (posseduto da Mike), “Mi affido a Santa Rita”, anzi “alla Madonna del Grappa” (o a una grappa della Madonna). Poi, con la guerra in Ucraina, fu spedito sul fronte ungherese: dal Covid al Covi (Comando Operativo di Vertice Interforze), a fare bau a Putin a debita distanza. Il Foglio l’ha appena candidato a commissario per il Pnrr, che ha giusto bisogno di alpini. Nell’attesa, l’altra sera era a Ciampino a ricevere i 150 italiani fuggiti ai golpisti sudanesi addestrati da noi prima che passassero alla Wagner. L’evacuazione l’ha coordinata lo staff di Tajani. Ma chi ha servito Draghi non può finire nell’ombra, vedi Di Maio. Infatti il merito va tutto a Figliuolo. Libero celebra “la trionfale campagna vaccinale da lui presa in mano e rivoltata come un calzino”. Veni, vidi, pedalini. “Un militare che mezzo mondo ci invidia” (l’altro mezzo lo conosce), “da sempre restio ai riflettori” (fotografi e cameraman devono intrufolarsi nei sottoscala, per riprenderlo), “non ha smesso un secondo di lavorare per il suo Paese” e ora ha finalmente avuto ciò che meritava: “È stato citato nei ringraziamenti di Giorgia Meloni”. Sono soddisfazioni.
Il Pindaro del Corriere esalta la “penna bianca (d’oca) sul lato sinistro del cappello” e sulla proverbiale allergia ai riflettori: schivo com’è, tenta di sfuggire ai giornalisti con agile balzo, ma è sopraffatto dalla stanchezza: “Si siede sfinito su una poltrona poggiando sul tavolo il cappello d’alpino”. Con un fil di voce, siccome “è religiosissimo”, “cita papa Francesco”, poi i cronisti gli strappano col forcipe i dettagli dell’eroica “missione ‘via dal Sudan’”: “Non nego che ci sono stati momenti di apprensione… tensione… i sudanesi si erano innervositi… sudavo freddo, ma senza darlo a vedere”. Avrebbe voluto riposare, ma niente, c’era il 25 Aprile: “È andato con la moglie Enza all’Altare della Patria. Poi, forse, ha anche potuto dormire un po’, dopo tante notti in bianco”. Dall’agenzia Stefani è tutto, linea allo studio.

L'Amaca

 

I moderati moderino le parole
DI MICHELE SERRA
Il senatore Borghi lascia il Pd e va a rinforzare il drappello dei renziani. Che grazie al suo arrivo potrà formare il gruppo parlamentare in Senato. Secondo le vigenti regole ne ha tutto il diritto — anche se non è mai elegante farsi eleggere con i voti di un partito e poi andarsene in un altro. Ma quando, in un’intervista aRepubblica, spiega di andarsene perché il Pd a guida Schlein è un partito massimalista, «figlio della cancel cultureamericana», ha il dovere di indicare ai lettori, e agli elettori, quali prese di posizione, o progetti di legge, o punti programmatici giustifichino un’accusa così grave, essendo lacancel culture americana una manifestazione di intolleranza bigotta della quale, fin qui, in Europa e in particolare in Italia, non si è vista traccia significativa.
Al suo intervistatore Antonio Fraschilla, che giustamente gli chiede: ci fa degli esempi?, Borghi non può che rispondere, evasivamente, «io noto soprattutto i silenzi». Che, con rispetto parlando, non vuol dire un tubo: né in politica né in qualunque ambito dove sia richiesto di motivare le proprie opinioni sulla base dei fatti.
La politica fatta a spanne non è da persone serie, e poiché Borghi ne ha fama, e per giunta alla politica dei diritti affianca (e fa benissimo) quella dei doveri, beh il primo dovere di un politico è non incrementare il numero già altissimo di parole a vanvera che istupidiscono la vita pubblica. Che i renziani vadano con Renzi è comprensibile, ed è perfino un elemento di chiarezza. Che lo facciano perché Schlein è «figlia dellacancel culture », beh, francamente, è un pretesto ridicolo. Trovino altre formule, più consone ai moderati, dunque meno fanatiche.

mercoledì 26 aprile 2023

Sfottò




Incaffatura

 


Ragogna

 


Studio profondo

 

La tragedia e la farsa
di Marco Travaglio
Che belle le piazze piene di cittadini, sinceramente grati ai partigiani che donarono la vita per liberarci dal nazifascismo. Ma che noia la retorica ipocrita, stantia e vuota nel Palazzo e sui media, dove ciascuno usa il 25 Aprile per i suoi interessi di bottega. La palma d’oro va al camerata La Russa che, nel giorno dell’antifascismo, ricorda un martire dell’anticomunismo, come se il nazifascismo non l’avesse sconfitto anche l’Urss con 28 milioni di morti; e ai maestrini della penna rossa che danno dei fascisti ai Fratelli d’Italia e pretendono che si dichiarino antifascisti per potersi indignare se non lo fanno o non lo fanno abbastanza (e non è mai abbastanza). Delle due l’una: o credono davvero che Meloni &C. siano le reincarnazioni di Mussolini&C., e allora sono ipocriti, perché sanno benissimo che antifascisti non si diranno mai, a meno di mentire; oppure non lo credono, e allora non si capisce perché pretendano l’abiura, cioè sono due volte ipocriti. Diceva Marx che la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Il fascismo fu una cosa terribilmente seria, il che lo rende incompatibile con la destra attuale, che al massimo ne è la parodia. Lo pensavamo quando al Duce veniva paragonato B. (che pure aveva instaurato un regime mediatico-plutocratico) e poi Salvini (più che il nuovo Mussolini, il nuovo Ridolini). E continuiamo a pensarlo anche oggi.
Non che manchino i fascisti o gli aspiranti tali (La Russa non querela chi gli dà del fascista, ma chi non gliene dà). Né le pulsioni autoritarie, peraltro preesistenti: pensiamo al “populismo delle élite” di Draghi fra obblighi vaccinali, discriminazioni sul lavoro e a scuola, insofferenza per i partiti votati dal popolo che disturbavano il “migliore”, autocandidatura al Quirinale per “guidare il convoglio di lì” (Giorgetti dixit), fino all’addio in Senato: “Sono qui oggi in quest’Aula solo perché l’hanno chiesto gli italiani”. Anche negli attacchi alla Costituzione i Fratelli d’Italia arrivano ultimi, dopo B., la Lega e il Pd. Ma oggi, per fortuna, manca il fascismo come ideologia e progetto di società, e manca una maggioranza d’italiani disposta a sottomettersi. Perciò la riesumazione manierista della guerra civile di 80 anni fa suona vuota, finta. Come quando il B. del “Mussolini più grande statista del secolo” che “mandava gli oppositori in vacanza nelle isole”, dopo aver disertato tutti i 25 Aprile della sua vita, si travestì da partigiano a Onna nel 2009 perchè gli era comodo. Una sceneggiata come quelle, opposte ma speculari, del compagno Violante. O della Meloni e dei gemelli atlantisti del Pd e del Centro, che si rivendono i partigiani ai mercanti d’armi per l’escalation in Ucraina e la terza guerra mondiale. Cioè per completare l’opera dei nazifascisti.

L'Amaca

 

Perché si chiama Liberazione
DI MICHELE SERRA
Il bel discorso di Mattarella a Cuneo potrebbe sembrare scritto con una certa malizia politica: diversi passaggi (per esempio la menzione delle “avventure imperiali nel Corno d’Africa”) sembrano concepiti come precise repliche a manipolazioni e omissioni dell’attuale personale di governo. Nel caso in questione, al silenzio della premier Meloni, in occasione del recente viaggio in Etiopia, sull’occupazione italiana e i conseguenti misfatti contro le popolazioni indigene – vedi i crimini di guerra di Rodolfo Graziani: bel farabutto al quale alcuni nostri contemporanei hanno pensato di dedicare un sacrario.
In realtà Mattarella ha semplicemente rimesso in ordine, con l’autorità che gli compete, i fondamenti della Repubblica e quelli – coincidenti – dell’antifascismo.
Accompagnandoli con una ricostruzione storica - a partire dal numero dei partigiani caduti, ovvero dalla consistenza popolare e patriottica della Resistenza – che impedisce qualunque tentativo di rimozione o ridimensionamento della vittoria degli antifascisti sui fascisti: fu una guerra di Liberazione, non altro, e il 25 aprile è la data simbolica nella quale ci ricordiamo che fummo sotto una dittatura che aveva “il mito della violenza e della guerra” (Mattarella), e ce ne siamo liberati.
Non è dunque il Quirinale che ha “risposto” agli italiani eredi della memoria fascista (hanno la fiamma nel simbolo). Sono loro che manifestano, per logico sbocco del loro sentire, la loro estraneità all’architettura del Palazzo del quale oggi reggono le sorti. Come ne usciremo non si sa, ma la riduzione a unità di una così clamorosa frattura sembra difficile e distante.

martedì 25 aprile 2023

No? Ah allora…



Non incita all’odio? Beh allora caro tribunale di Forli anche “andate a cagare imbecilli di bassissimo rango, testine di kazzo oversize” prendetela come un jingle per il prossimo Natale!

Senza faticare!



Puoi star certo che un imbecille lo si trova sempre, ovunque!

Se voleste star male..



Fine poltrona mai: Tocci & C., gli inamovibili

La direttrice dello Iai viene “degradata” da Eni in Acea, ma resta in gioco e non è certo sola: dalle partecipate alle società di Benetton e B. trionfano i soliti noti

di Giulio Da Silva 

Passare dal cda dell’Eni a quello di una municipalizzata, sia pure di peso come l’Acea, non è una promozione. Soprattutto se nel curriculum si esibisce una laurea a Oxford con il massimo dei voti più un Master e un PhD alla London School of economics. Ma con Giorgia Meloni al governo, Nathalie Tocci, direttore dell’Istituto affari internazionali (Iai) sponsorizzata dal Pd, ha dovuto accettare il declassamento: dall’Eni nel 2022, Tocci ha ricevuto 215 mila euro lordi, all’Acea un consigliere parte da 45 mila euro annui, può arrivare con i gettoni a 100 mila.
La poltrona di scorta all’Acea le è stata offerta dal sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, che da ministro dell’Economia nel secondo governo Conte, nel 2020 catapultò Tocci nel cda Eni. Il nuovo consiglio di Acea è stato nominato il 18 aprile. Per Tocci l’impegno principale rimane lo Iai: il 26 aprile l’assemblea dei soci del centro studi, che ha tra i principali finanziatori l’Eni e Leonardo, la confermerà direttore con voto bulgaro. Tocci è andata spesso in televisione a parlare di guerra tra Russia e Ucraina, finché il 3 maggio dell’anno scorso ha rifiutato l’invito di Giovanni Floris, a causa della presenza di ospiti da lei considerati “putiniani”.
Quello di Tocci è un caso vistoso di piroette da un cda a un altro, all’insegna del “posto sicuro”. Ma non l’unico. Nel nuovo cda di Acea c’è anche l’avvocato bolognese Angelo Piazza, già ministro della Funzione pubblica nel primo governo D’Alema. Piazza era già rientrato nel giro con la nomina nel cda di Ita Airways il 30 ottobre 2020, fino all’azzeramento del consiglio nel novembre scorso per silurare il presidente Alfredo Altavilla. Intanto, nel febbraio 2021, Piazza si era accomodato nel cda di Save, che gestisce l’aeroporto di Venezia.
Claudio De Vincenti, 74 anni, ex ministro Pd della Coesione territoriale nel governo di Paolo Gentiloni e già sottosegretario a Palazzo Chigi con Matteo Renzi, da aprile 2021 è nel gruppo Benetton, come presidente di Aeroporti di Roma. Pochi giorni fa AdR ha nominato nuovo presidente Vincenzo Nunziata, ex capo di gabinetto del ministro Mariastella Gelmini nel governo Draghi. De Vincenti è passato su un’altra poltrona dell’impero Benetton, presidente di Azzurra Aeroporti che gestisce gli scali di Nizza, Cannes e Saint Tropez.
Patrizia Grieco, approdata alla presidenza dell’Enel con Matteo Renzi nel 2014, nel maggio 2020 ha dovuto lasciare il seggio al candidato dei Cinque stelle, l’avvocato Michele Crisostomo. Così è stata dirottata alla presidenza di Banca Mps. Nello spoils system della destra la presidenza della banca il 20 aprile scorso è andata a un candidato della Lega, Nicola Maione. Grieco, però, il 21 marzo aveva già avuto un incarico di consolazione, la presidenza di Anima Holding, che ha accordi con Mps. Anche per Maione, già nel cda della banca dal dicembre 2017, un incarico tira l’altro: era entrato nel cda Enav nel 2014 e c’è rimasto per sei anni, facendo anche il presidente negli ultimi 18 mesi.
Stefania Bariatti, docente di Diritto internazionale all’Università di Milano, nel 2013 è entrata nei cda delle Autostrade del gruppo Gavio, Astm (fino al 2018) e Sias (fino al 2019, anche come presidente). È stata presidente di Banca Mps dal dicembre 2017 a maggio 2020, quando ha ceduto il testimone a Grieco e ha avuto subito un posto nei cda di A2A e Bnl. Il 23 giugno 2021 è stata nominata nel cda di Mediaset for Europe (Mfe) da Fininvest. Dal 4 ottobre 2022 è nel cda di Inwit. Lo stesso giorno anche Pietro Guindani, ex Ad di Vodafone Italia, è diventato consigliere di Inwit: così non resterà senza poltrona quando, il 10 maggio, terminerà il terzo mandato nel cda dell’Eni, nel quale siede da nove anni indicato dai fondi.
E ancora Giorgio Toschi, ex comandante generale della Guardia di Finanza nominato da Renzi, è stato indicato nel cda di Cdp il 27 maggio 2021. Adesso il Mef lo ha candidato al cda di Enav, per l’assemblea del 28 aprile, con un anno di anticipo sulla scadenza dell’incarico in Cdp. Wanda Ternau è stata nel cda di Fs da maggio 2014 a maggio 2021 in quota Lega. A ottobre 2021 è stata nominata presidente di Triestina Trasporti fino al maggio 2022, ora il Tesoro l’ha ripescata per il nuovo cda di Poste. È stata anche nel cda di Mediaset per tre anni, fino al giugno del 2018.
Silvia Merlo, figlia di un imprenditore metalmeccanico di Cuneo scomparso sei mesi fa, ha una carriera da “piccola Marcegaglia”. Oltre a essere Ad dell’azienda di famiglia, 1.400 dipendenti, è stata in una sfilza di cda: da aprile 2006 ad aprile 2012 nella Cassa di Risparmio di Savigliano, poi nove anni nel cda di Finmeccanica-Leonardo (2011-2020) e sette nel cda di Espresso-Gedi (2013-2020). Nell’aprile del 2021 il salto alla presidenza di Saipem.
Poco dopo la fine del mandato di Ad Enav, Roberta Neri nel maggio 2020 (nominata nel giugno 2015 da Renzi) è stata nominata presidente di Mps Leasing & Factoring nell’ottobre 2020. Alla scadenza del primo mandato in Enav, nell’aprile 2017 Francesco Gaetano Caltagirone l’aveva messa nel cda di Cementir, per tre anni e nel 2022 l’ha candidata al cda di Generali, ma non è entrata.
Marina Brogi, docente di Economia all’Università di Roma, nell’aprile 2012 è entrata nel cda del Banco di Desio, un anno dopo si è dimessa perché nominata nel consiglio di sorveglianza di Ubi, fino al 2 aprile 2016. Poi nel cda di Luxottica, candidata dai fondi, dal 24 aprile 2015. Scaduto l’incarico, nel giugno 2018 è entrata nel cda di Mediaset, nella lista Fininvest, che nel 2021 l’ha confermata in Mfe. È stata eletta nel cda di Generali il 29 aprile 2022 nella lista Caltagirone.
Giulio Gallazzi, nel cda Ansaldo Sts tra 2014 e 2016, alla scadenza è andato in Banca Carige (2016-2018), per alcuni mesi anche presidente traghettatore fino all’assemblea. Quindi è entrato nel cda di Mediaset nella lista dei fondi, confermato in Mfe nel 2021. Alessandra Piccinino, nel cda di Ansaldo Sts 2014-2016, è stata anche nel cda di Mediaset dal 2015 al 2018 e dal 2017 è nel cda di Italgas Reti, poi nel giugno 2021 è stata ripresa da Fininvest per il cda Mfe.
Infine i ripescati di lusso. Fabrizio Palermo, disoccupato dopo la scadenza del mandato di Ad di Cassa depositi e prestiti nel maggio 2021, è stato nominato alla guida di Acea il 26 settembre 2022, grazie ai buoni uffici di Massimo D’Alema. Roberto Cingolani, ex ministro della Transizione ecologica nel governo Draghi, è stato candidato da Meloni come Ad di Leonardo, di cui è dirigente. A Stefano Donnarumma, che era il candidato di Meloni all’Enel ma è stato respinto dall’asse Lega-Forza Italia ed è rimasto fuori anche da Terna, è stata promessa la carica di Ad di Cdp Venture capital. La sua nomina, però, tarda ancora ad arrivare: misteri del “fine poltrona mai”.

Ineccepibile!



Il caso Di Mario

di Marco Travaglio 

Il Partito Preso non riesce proprio a trattare il caso Di Maio per quello che è, avendo trascorso gli ultimi 14 anni a scomunicare i 5Stelle senza comprenderli, accecato dal pregiudizio universale. Chiunque ha visto all’opera Di Maio sa che è fin troppo sveglio, con una gran capacità di imparare e migliorare. È stato un buon leader M5S, un buon vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo nel Conte-1, un buon ministro degli Esteri nel Conte-2 e nel Draghi. Buono non vuol dire condivisibile: il suo atlantismo acritico, identico a quello di Draghi, Mattarella, Letta&C., non ci piace. Ma sulla professionalità niente da dire: altro che “bibitaro”, come lo chiamavano i classisti e i razzisti incapaci di riconoscere i meriti dei 5Stelle e convinti che la politica sia un’esclusiva per figli di papà e rampolli di una dozzina di dynasty.
Ora, qualunque cosa dovrà fare nel Golfo, Di Maio la farà con abilità. Ma nelle cancellerie e diplomazie europee ci sono centinaia di figure che potevano farlo. Perché hanno scelto proprio lui, dopo lo 0,6% dei voti al suo partitucolo? Perché il sistema mafioso chiamato “politica” doveva premiare la sua fedeltà canina ai padroni italiani ed esteri. Guai se chi si immola per l’establishment finisse sul lastrico: nessun altro sarebbe disposto all’estremo sacrificio. Un anno fa Di Maio fu incaricato di far fuori Conte, unico ostacolo superstite alla normalizzazione draghiana del sistema, già ottenuta con la Lega giorgettiana, FI brunettian-gelminiana, il Pd lettiano, i centrini renzian-calendiani, la finta opposizione meloniana: tanti partiti con nomi diversi e programmi uguali. Prima provò a scalzare Conte da leader del M5S impallinando – con Giorgetti, Guerini, Renzi e Letta – la Belloni sulla via del Colle (lì doveva salire Draghi o restare Mattarella: tertium non datur). Ma, malgrado gli amorevoli consigli di Draghi a Grillo, Conte restò leader. E costrinse il governo a rinviare al 2028 l’aumento della spesa militare al 2% del Pil, promesso alla Nato entro il ’24. Allora Di Maio, con l’avallo dei suoi spiriti guida al Quirinale, a Palazzo Chigi e al Nazareno, scatenò la scissione di 66 parlamentari dai 5Stelle. Si illudeva di rafforzare Draghi e se stesso e di indebolire Conte. Accadde l’opposto. Draghi optò per l’harakiri e incolpò il M5S, convinto – nella sua hybris – che gli elettori avrebbero punito Conte e premiato Di Maio, candidato dal Pd insieme ai suoi fedelissimi. Accadde l’opposto. Punito dal basso, Di Maio viene ora premiato dall’alto: si scrive Borrell, ma si legge Draghi, Quirinale, Nato e vecchio Pd. Ma adesso chi dovrebbe allarmarsi è il nuovo Pd: ove mai Elly Schlein si ricordi chi è e cambi musica, un Di Maio pidino da far esplodere e poi risarcire si trova sempre.

E che si festeggi!




lunedì 24 aprile 2023

Quark e i tuffi

 


Tomaso e la dilapidatrice

 

Venere social, pizza, banalità: un trash degno del Billionaire
LA CAMPAGNA CAFONA DI SANTANCHÉ - “Open to Meraviglia”. Il titolo “inglesato”, la grafica da fumetto porno, i monumenti ridotti a location: un’immagine che sta alla realtà come il parmesan al parmigiano
DI TOMASO MONTANARI
Nove milioni di euro. Quanti precari del patrimonio culturale ci si potrebbero assumere? Quanti documenti antichi dei nostri archivi di Stato restaurare? Quante chiese curare, e riaprire? Quanti piccoli musei riallestire? E invece no. La Repubblica butta nove milioni delle nostre sudatissime tasse in una oscena campagna pubblicitaria che dovrebbe vendere ciò che si vende fin troppo bene da sola: l’Italia come meta turistica!
La ministra Santanché annunzia gioconda alle tv che vorrebbe vedere il turismo ascendere al rango di prima industria italiana: senza nemmeno immaginare cosa questo significherebbe in termini di sostenibilità, e di declino di un Paese ridotto a grande villaggio turistico. Vorrebbe dire essere comprati a pezzi da fondi stranieri, perdere quel poco di influenza internazionale, assomigliare sempre di più all’immagine che dei romani aveva James Joyce: quella di un nipote neghittoso e inetto che campa facendo vedere ai turisti il cadavere imbalsamato della nonna.
In quanto a grottesco sciacallaggio del passato siamo già un pezzo avanti, del resto. E lo dimostra proprio la campagna pubblicitaria partorita da Santanchè, grottesca fino dal titolo: Open to Meraviglia. La linea è quella – altissima – del Verybello di Dario Franceschini (altra campagna mangiasoldi finita nel nulla e nel ridicolo): e del resto i grandi spiriti si incontrano. Ma qua si fa un ulteriore passo avanti: gli italiani ridotti a ciceroni per la mancia dei turisti si incarnano in una simpatica bionda trentenne, ora in minigonna, ora in canotta da gondoliera, ora in completo da hostess.
E la bionda altri non è che la povera Venere di Sandro Botticelli: ma liftata e pittata come una sciantosa. Nella testa dei ‘creativi’ pagati a caro prezzo con le nostre tasse, il celebre servizio fotografico di Chiara Ferragni agli Uffizi proprio di fronte a quel feticcio deve aver acceso una fantastica lampadina: è così Venere è diventata direttamente un’influencer, che vende al mondo… la propria Patria (direbbero i patriottici committenti)! Vista la fede nera più volte ostentata da Santanché, sarebbe tentante vedere in questa scelta una memoria dell’uso che della Venere fece Mussolini nel 1930, intorno a una grande mostra d’arte italiana a Londra che doveva esibire al mondo anglosassone “l’eterna vitalità della razza italica”. Il saggio che lo storico Francis Haskell dedica all’episodio verrebbe in effetti utile fin dal titolo: Botticelli al servizio del fascismo! Ma la triste verità è che rispetto al personale che muoveva, un secolo fa, la macchina da propaganda fascista, gli attuali nipotini sono di una ignoranza così crassa e barbarica che solo a suggerire il paragone l’animaccia nera di Giuseppe Bottai si rivolta nella tomba. No, qua il fascismo non c’entra nulla: c’entra la totale inconsapevolezza di cosa siano quella patria e quella nazione che questa destra cita a ripetizione senza saperne un accidenti di nulla. Il titolo inglesato (come la mettiamo col camerata Rampelli?), la grafica da fumetto porno, la banalità assoluta dei testi e delle immagini, i monumenti ridotti a location, i “borghi suggestivi” (letterale), la pizza e (manca poco) il mandolino: il vero paradigma culturale è Las Vegas. Un mostruoso centone dell’Italia, un luna park, un tarocco cinese per americani: un’immagine dell’Italia che sta a quella vera come il parmesan sta al parmigiano reggiano.
E qui il problema è serio: perché vuol dire che abbiamo a tal punto introiettato l’immagine dell’Italia venduta e comprata nel mercato globale, abbiamo a tal punto fatto nostra la retorica della pizza e del sole, ci siamo così adagiati nella celebrazione della nostra ‘grande bellezza’, che ormai ci guardiamo anche noi con gli occhi di chi non sa cosa sia davvero l’Italia. A vederla, mi è venuto in mente un certo ristorante italiano di Fort Worth, in Texas, nel quale, dopo una cena efferata, la vecchia madre del proprietario veniva in sala a cantare arie d’opera: per la gioia dei texani che, estasiati, pensavano di stare a Sorrento. La cifra complessiva che caratterizza questa campagna pubblicitaria è, insomma, la cafonaggine: un cattivo gusto travolgente. Ma non un trash felice, leggero e autoironico, no. Invece, una retorica greve e bolsa: da nuovo ricco ignorante, da milionario saudita o da oligarca russo. Da Billionaire, non per caso.
La classe dirigente che violenta in questo modo vergognoso la Venere di Sandro Botticelli è la stessa che ciancia a ripetizione di ‘nuovi Rinascimenti’, la stessa che si straccia le vesti di fronte ai ragazzi di Ultima generazione che usano le opere d’arte del passato come cose vive e provocanti, e non come Barbie animate: questa campagna è un monumentale danno erariale, ma almeno serve benissimo a farci capire chi ci governa. Ogni volta che ci toccherà vedere la Venere-influencer, ricordiamocene: chissà che alla fine non troviamo il coraggio di dire basta.

domenica 23 aprile 2023

Nulla è impossibile!



Nulla è precluso a nessuno! Vendi bibite allo stadio? Non demordere! Un giorno potresti parlare di strategie petrolifere con gli arabi! Non abbatterti e ascolta un consiglio: appassionati allo stile fantasy… con i Draghi infatti il tuo futuro germoglierà!!!
P.S. ma cosa k…zzo ci capirà Giggino del Golfo Persico???

Trasmettente



Il Pera con questa altisonante manifestazione ci vuole subliminalmente dire che la guerra è bella e gli americani sono bravi… i migliori…vamos!

Selvaggiamente


di Selvaggia Lucarelli 

Sono davvero rammaricata per le conseguenze emotive della vignetta di Natangelo su Giorgia Meloni. Mi rendo conto che per la nostra presidente una battuta sulla sua famiglia, famiglia da lei tenuta sempre prudentemente a distanza dalla politica, debba essere un fatto traumatico. 
Proprio per questa sua riconosciuta intenzione di non mescolare politica e parenti- ha ragione- bisognerebbe non occuparsi mai dei suoi affetti. 

E anche per una ragione di reciprocità e riconoscenza, visto che lei, è risaputo, delle famiglie altrui non si interessa mai.

 A parte dirci chi e se può adottare, chi e se può ricorrere alla gestazione per altri, a parte dirci chi può registrare i figli, cosa va insegnato ai nostri figli, cosa devono mangiare in mensa i nostri figli (vi ricordate il cous cous?) e se noi madri dovremmo lavorare o no, in effetti Giorgia Meloni della nostra famiglia non si è mai interessata. Questa cosa di dedicare una vignetta alla sua è davvero volgare. Anche l’ ultima storia del governo che vorrebbe non far pagare le tasse ai nuclei familiari composti da almeno due figli è chiaramente lampante segno di disinteresse per le famiglie degli altri. Personalmente, ho appena litigato col mio compagno che non ha voluto figli e abbiamo fatto pace solo dopo aver stabilito che la mia iva da ora in avanti la paga lui. 

E aggiungo: se si va avanti con questo disinteresse di Giorgia Meloni per le famiglie altrui, io vedo un futuro in cui la trama del film candidato all’oscar nel 2015 “The Lobster” diventa realtà. Per chi non la avesse vista, la pellicola racconta un mondo distopico in cui le persone single sono costrette a trovare, entro quarantacinque giorni, un partner. Se restano sole vengono trasformate in un animale a loro scelta. Ecco, io vedo il mio compagno che mi molla. Poi l’ultimatum di Giorgia Meloni. I 45 giorni che passano senza accoppiarmi. Francesca Fagnani che appare da dietro una tenda e mi chiede “che belva vuoi diventare?”. Io che dico la vitellina Mary, perché Lollobrigida ha detto che la trattano con tanta cura. Dopo sei mesi sono un ossobuco. Brutale, sì, ma sempre meno di una vignetta, me ne rendo conto.

Da Il Fatto




Pazzesco!

 


Sorridete!

 


Ragogna



 

Meditativo

 

Trucchi mediatici e slogan ripetuti così il centrodestra mina l’antifascismo
DI STEFANO MASSINI
Lo confesso, sono fra i tanti che in questi mesi hanno pensato che dietro i continui attacchi all’antifascismo non ci fosse un preciso costrutto, ma solo sguaiatorevanscismo cameratesco, legittimato dall’opinabile teoria che l’esito elettorale del 2022 sdoganasse full optional l’armamentario dottrinale di Salò, Predappio e mete affini del black tour. Poi ho mutato opinione.
Adesso, man mano che il mosaico accoglie nuove tessere, mi convinco sempre più che una strategia presieda a questi apparentemente bradi colpi di mortaio.
Quasi cinque secoli sono passati dall’illuminante “Discorso sulla servitù volontaria” di Étienne de La Boétie, in cui di fatto si stigmatizzava la pigrizia dei sudditi come anticamera del dispotismo: la libertà è bellissima a parole, ma al di là della collosaretorica, richiede fatica, sforzo, cura, senso critico, ovvero una forma concreta di manutenzione da cui puoi esimerti delegando il potere a un capo carismatico che deciderà per te, tramutando la proposta in diktat, azzerando il dibattito sulle ipotesi a favore di un ordine tassativo. La lezione di La Boétie ha trovato da allora applicazione in ogni contesto, trionfando nei regimi totalitari dell’ultimo secolo che certo nacquero dal coacervo di paure e rabbie collettive, ma trovarono il proprio combustibile anche nel torpore, nell’abulia, nella facile fiacchezza che azzera l’essere pensante e di un libero cittadino fa una pedina catechizzata, inquadrata e asservita.
Di questa tendenza fu notoriamente corresponsabile l’ascesa dei mezzi di comunicazione, determinanti nel convertire la politica nella propria narrazione, articolata in una vera drammaturgia di cui, col tempo, la stanza dei bottoni ha affinato tecniche e trucchi.
Ecco, ciò a cui stiamo assistendo può essere ricondotto a questa matrice, e non solo perché usa il metodo (descritto alla perfezione da Harold Lasswell) dello slogan che entra sottopelle del ricevente non come parere vagliabile ma come un dato incontrovertibile (e dunque non “io dissento dall’antifascismo”, bensì nettamente e inmodo assertivo “l’antifascismo non è nella Costituzione”). A blindare l’effetto, c’è un furbissimo uso del meccanismo mediatico dell’inflazionamento: ad ogni bordata di La Russa e sodali contro i pilastri fondativi della nostra Repubblica, è come se lo scandalo diminuisse, perché l’eversione stessa si trasmuta in ordinaria amministrazione se assume la forma di un copione sempre uguale, e come tale prevedibile. Dunque l’attacco frontale e puntuale degli ex-post-neo-fascisti contro l’antifascismo innesca la conseguenza primaria di rendere la contrapposizione tediosa, ripetitiva e inevitabilmente banale, svuotandola di significato.
Oggi per esempio è il 23 aprile, 48 ore ci separano dalla Festa della Liberazione, ed è per tutti scontato che le agenzie ribatteranno a breve affermazioni variopinte e frasi in libertà carpite dalle labbra di un ministro o di colui che pur ostentando fascist-pride è kafkianamente Capo supplente di uno Stato nato dall’antifascismo. Lo sappiamo già, ce lo aspettiamo, potremmo perfino scrivere preventivamente parole di reazione accorata, celando il punto nodale che un sassolino che ti cade in testa dal cielo ti fa alzare gli occhi a cercarne la provenienza, ma se lo stesso ti colpisce durante una grandinata, passa del tutto inosservato.
E allora, per paradosso, qualcuno ormai potrebbe perfino dichiarare di festeggiare la fondazione della Gestapo (per ironia della sorte creata da Göring il 26 aprile 1933), e la notizia susciterebbe più ilarità che indignazione, più sconforto che pubblica condanna, cosicchè la missione può dirsi in un certo senso compiuta, perché centra il bersaglio di desacralizzare la memoria, riducendola a un flipper in cui la pallina rimbalza fra le sponde fra lampadine e campanelli, ma è comunque destinata a finir presto in un game over.
In fondo l’antifascismo si regge completamente sullo scandalo percepito del fascismo, ed è una contrapposizione che non può sbiadirsi né tantomeno ridursi a un cartoon in cui ci si prende a pugni rimbalzando come gomma. E la riprova sta nella storia stessa, se si pensa che il 4 ottobre 1936, nell’East End, la “marcia su Londra” di migliaia di camicie nere inglesi guidate da Oswald Mosley fu respinta a Cable Street dall’insurrezione popolare di 20.000 democratici che le sbarrarono la strada, prendendo molto sul serio la sua minaccia.
Se quei londinesi si fossero viceversa stretti nelle spalle, riservando all’Unione Fascista Britannica il sorriso bonario che sempre più spesso offriamo al caravanserraglio di questi nostalgici, chissà come poteva evolvere la vicenda, e forse studieremmo Mosley al pari di Churchill. È chiaro che è utopia, ma fino a un certo punto, dal momento che l’assuefazione è sempre prologo dell’avallo.
E su questo ci sono pochi dubbi.

L'Amaca

 

Come la pizza senza farina
DI MICHELE SERRA
Festeggiare il 25 aprile senza partigiani e senza Bella Ciao è ridicolo: come andare a cavallo senza cavallo, o fare la pizza senza farina. Ridicola, dunque, è l’aggettivo che meglio si attaglia alla decisione del sindaco leghista di Seriate, Cristian Vezzoli, di celebrare il 25 aprile praticamente da solo, lui e la sua fascia tricolore. E alle tante scelte consimili, che definirei di svuotamento del 25 aprile per poterlo poi riempire di una molto generica fuffa “democratica” buona per tutte le stagioni, per tutte le storie, per tutti i Paesi.
Due osservazioni. Una futile, una di sostanza. Quella futile: ma perché i leghisti si chiamano tutti Cristian, Albert, Manuel, presto anche Giacom e Lucian?
Esiste una selezione del personale fondata sull’elisione della vocale finale?
Quella di sostanza: ma non sarebbe meglio, per leghisti e neofascisti (per primo La Russa) dire con franchezza che sono contro il 25 aprile? Che non è la loro festa, che non li rappresenta? Non è penoso, e anche parecchio ipocrita, questo sforzo di sembrare partecipi, però a modo loro, di qualcosa che odiano (l’antifascismo, la Resistenza, i partigiani)? Il moltiplicarsi, in tutta Italia, di indicibili fatiche, e contorsioni dialettiche, e simulazioni di appartenenza a una medesima comunità, testimonia una cosa soltanto: che la comunità è divisa nonostante quasi ottant’anni di volonterosa simulazione. Prenderne atto è più salubre (per tutti) che simulare una concordia nella quale crede, eroicamente, ormai solo il Quirinale, che ha il dovere istituzionale di farlo e lo fa con altissimo profilo: un grattacielo che parla agli gnomi.

Meno male che c'è lui!

 

2 assessori 2 misure
di Marco Travaglio
Monica Lucarelli, assessore a Roma, è indagata per corruzione (favori al clan Tredicine in cambio di doni) e turbativa d’asta (mercato dei fiori). Ma dice che i regali erano vini poco pregiati e il sindaco Gualtieri (Pd) se la tiene. Tanto la notizia non la conosce quasi nessuno: i giornaloni la confinano nelle cronache locali. E sarebbe tutto giusto così se sette anni fa un caso simile, ma molto meno grave, non avesse intasato per mesi le prime pagine: quello di Paola Muraro, fra i massimi esperti europei di rifiuti, consulente Ama dal 2004 (sotto Veltroni, Alemanno e Marino), nominata all’Ambiente da Raggi (M5S) il 7.7. 2016. Da quel preciso istante Muraro diventa una criminale matricolata sia per i media sia per la Procura, che apre un’inchiesta sui suoi 12 anni di consulenze, fino ad allora insospettate. Si scopre addirittura che per lavorare si faceva pagare: “Conflitto d’interessi”, strillano Messaggero, Repubblica e Corriere, come se la Muraro non avesse abbandonato tutte le consulenze, a Roma e altrove, rimettendoci un sacco di soldi.
Ai primi di agosto, giornaloni e social targati Pd iniziano a dire che è indagata: i pm “rivalutano” tre vecchie telefonate con Salvatore Buzzi, intercettate nell’inchiesta Mondo di Mezzo e ritenute irrilevanti. I pm precisano che con Mafia Capitale non c’entra nulla, ma per tutta l’estate i giornaloni le dedicano più pagine che al duello Trump-Clinton per la Casa Bianca. Messaggero: “4 inchieste sui rifiuti: si accelera su Muraro”. Corriere, più modesto: “3 filoni d’indagine e la sensazione che la sua posizione potrebbe cambiare” (giornalismo sensitivo, medianico). Rep: “L’asse Muraro-Panzironi (ex ad di Ama, ndr)… Uno stillicidio di episodi non penalmente rilevanti”, su cui dunque indagano i pm. Tipo quando “Muraro e Panzironi parlano dell’impianto di trattamento rifiuti”. Una consulente sui rifiuti consultata sui rifiuti: roba da ergastolo. Siccome Rep è contro il sessismo, le affibbia pure una liaison con un dirigente. Renzi, noto garantista, dice che “la Raggi ha consegnato i rifiuti a Mafia Capitale”. Il 5.9 la Muraro annuncia di esser indagata per infrazione al testo Unico Ambientale (multa fino a 250 euro) sui quantitativi di rifiuti smaltiti a Rocca Cencia e di aver informato Raggi, Taverna e, via mail, Di Maio. Il quale dice di non aver letto la mail. Tg e giornali bombardano per giorni: “Di Maio sapeva, mente, si dimetta”, “Raggi sapeva, mente, si dimetta”. Il 13.12 la Muraro riceve l’avviso di garanzia e si dimette. Come per incanto i suoi reati spariscono, l’indagine (una, non quattro) viene archiviata e i giornaloni iniziano a intervistarla sugli errori della Raggi in tema di rifiuti. Poi arriva Gualtieri e non si dimette più nessuno. Tranne i giornalisti.