Da giovane non ho mai sventolato il libretto rosso e da vecchio non ho alcuna intenzione di dedicarmi allo studio dello Xi Jianping pensiero. I maoisti nostrani vestiti da guardie rosse mi facevano piuttosto ridere. Ma nel 2021, lasciatemelo dire, quella con la Cina è una guerra fredda che non ci conviene. Per intuirlo, basterebbe non lasciarsi irretire dalla nostalgia di un’alleanza atlantica che va disfacendosi e non rinascerà di certo in funzione anticinese.

Quando la Nato si formò per tenere a bada Stalin e il blocco sovietico, la Cina era uno dei Paesi più poveri della terra. Ci ha messo meno di settant’anni per candidarsi a prima potenza economica mondiale: il sorpasso sugli Usa ormai è molto più di una probabilità. Passerò per veterocomunista e filocinese se suggerisco che da quel modello (che si calcola abbia sollevato dalla povertà 800 milioni di persone), per quanto autocratico e dirigista, purtuttavia avremmo qualcosa da imparare? Di certo il modello cinese esercita già il suo fascino su altre nazioni meno sviluppate. E, qualora la guerra fredda si inasprisse, non mi stupirebbe vederlo conseguire consensi oggi impensabili anche nelle nostre società rese fragili dall’accrescersi di disuguaglianze e povertà. Guai se in troppi cominceranno a pensare che la libertà sia un lusso cui vadano anteposte maggiori tutele sociali.

Sapremo nei prossimi giorni se lo scoppio della bolla immobiliare cinese provocato dal crac di Evergrande avrà effetti devastanti dentro al sistema cinese che aveva ripreso a crescere impetuosamente dopo l’effetto Covid. Di certo sarebbe un guaio anche per noi: le nostre economie sono legate a doppio filo.

Ma intanto, dopo la disfatta in Afghanistan, la storia si è messa a correre in fretta e a suscitare scalpore è ancora una volta l’ennesima frattura del campo occidentale: la Francia che denuncia la “coltellata alla schiena” e richiama i suoi ambasciatori da Washington e Canberra a seguito della cancellazione di una fornitura di sommergibili all’Australia per 56 miliardi di euro.

È ben comprensibile che l’Australia, pur essendo una nazione grande quasi quanto la Cina, si senta minacciata dall’espansionismo di Pechino. Corre ai ripari formando con gli Usa e il Regno Unito una specie di Nato dell’Indo-Pacifico che esclude gli europei: la cosiddetta Aukus. Ne ottiene in cambio sommergibili più potenti, alimentati da reattori nucleari. Ebbene, basterebbe ricordare che gli australiani sono solo 25 milioni mentre i cinesi sono 1 miliardo e 400 milioni per rendersi conto che nessuna cortina di ferro, e nessuna deterrenza nucleare, potrà fermare un riequilibrio – speriamo pacifico – di quell’area, ormai divenuta il nuovo motore trainante dell’economia mondiale.

La frattura determinata da Aukus verrà probabilmente ricomposta sul piano diplomatico, ma evidenzia un’insanabile divaricazione di interessi nelle relazioni con la Cina tra gli Usa e i singoli Paesi europei, Germania in testa, già precedentemente emersa di fronte alla richiesta americana di boicottaggio della rete 5G di Huawei. E poi nel tentativo sostanzialmente fallito di convocare un G20 straordinario sull’Afghanistan da parte del nostro Draghi. Intanto pure l’Italia subirà un danno economico dall’accordo Aukus, preceduto a giugno dall’annullamento di una fornitura di nove fregate militari all’Australia da parte di Fincantieri, per un ammontare di 23 miliardi.

Se questo è lo scenario – un Occidente sempre meno compatto nelle sue relazioni commerciali e strategiche con la Cina – restano da interpretare le possibili ripercussioni esterne delle recenti svolte impresse da Xi Jinping alla politica del suo paese. C’è chi le semplifica brutalmente nella formula: “Ritorno al comunismo”. Troppo facile. Per restare agli slogan, meglio sarebbe storpiarne un altro a suo tempo in gran voga: “NON fare come in Russia”.

Traduzione: il Partito-Stato cinese, dopo l’apertura all’economia di mercato che nel 2000 portò all’ingresso nel Wto e avviò una politica neocoloniale in Africa e America Latina, ha iniziato ad adoperare metodi brutali per non restare ostaggio dei nuovi oligarchi com’è avvenuto nella Russia post-comunista.

Il 2021 si è aperto con l’esecuzione della condanna a morte di Lai Xiaomin, top manager della società di gestione crediti deteriorati Huarong, accusato di distrazione di fondi aziendali e bigamia. Prima fatto scomparire per mesi e poi ridotto al silenzio il fondatore di Alibaba, Jack Ma, magnate in precedenza potentissimo. Minacciosamente indotta a tagli di bilancio la famiglia Zhang che controlla la Suning (ne sappiamo qualcosa noi interisti, con la vendita forzata di Lukaku), peraltro invischiata nella crisi immobiliare di Evergrande. Vietato ai minorenni l’uso dei videogiochi per più di un’ora al giorno, e il colosso Tencent china la testa… potremmo continuare.

Orbene, lungi da noi auspicare un colpo di pistola alla nuca per i capitalisti disonesti, ma il messaggio giunge forte e chiaro. Così lo ha riassunto il segretario a vita Xi in un discorso del 17 agosto scorso: “Dobbiamo regolamentare i redditi eccessivamente alti e incoraggiare le imprese ad alto reddito a restituire di più alla società”. Con metodi più civili, non dovremmo aspettarci qualcosa del genere anche dai leader politici nostrani? Alla direttiva di Xi, “ripulire e regolare i guadagni non ragionevoli per favorirne la redistribuzione”, fa seguito l’obiettivo: “Una prosperità condivisa, requisito essenziale del socialismo e caratteristica chiave della modernizzazione cinese”.

Inquieta sapere che il Xi Jinping pensiero dal 1º settembre scorso è diventato materia di studio obbligatoria nelle scuole, con apposito sussidiario. Ma nessuno può negare la sua brutale aderenza allo spirito dei tempi. Anche chi vuole difendere i valori fondamentali della democrazia farebbe bene a non aggirare lo scoglio della crescente ingiustizia sociale. Se la Cina è diventata superpotenza egemone, lo deve anche alla capacità del suo regime di rispondere a una conflittualità sociale mai sopita: lo testimonia l’ondata di aumenti dei salari minimi, dopo il Covid.

Altro che guerra fredda.