lunedì 28 febbraio 2022

Fantastica, spiega tutto!




Gran bel pezzo

 


La guerra oltre ai corpi violenta pensieri e parole
Serve la ribellione del linguaggio - Il poeta russo Lev Rubinštejn “E la guerra che si sta svolgendo in Ucraina non viene nemmeno chiamata guerra. La definiscono solo operazione militare”
DI TOMASO MONTANARI
“Quella matrona lugubre, vestita di nero e col velo stracciato e spogliata dalle sue gioie e d’ogni sorte d’ornamenti, è l’infelice Europa: la quale già per tanti anni soffre le rapine, gli oltraggi e le miserie, che sono tanto notorie ad ognuno che non occorre specificarle”: così Peter Paul Rubens descrive uno dei passaggi più commoventi delle Conseguenze della guerra, questo suo capolavoro conservato a Firenze. Egli lo dipinse (tra il 1636 e il 1637) per un collega pittore, il suo concittadino Justus Suttermans, che viveva a Firenze ed era uno dei ritrattisti dei Medici. La lettera con cui Rubens accompagnò l’opera è una altissima denuncia della follia di ogni guerra: “…nel suolo giace rivolta una donna con un liuto rotto, che denota l’Armonia, la quale è incompatibile colla discordia della guerra; siccome ancora una madre con il bambino in braccio, dimostrando che la Fecondità, Generazione e Carità vengono traversate dalla guerra che corrompe e distrugge ogni cosa. Ci è di più un architetto sottosopra, colli suoi strumenti in mano, per dire che ciò che in tempo di pace vien fabbricato per la comodità e ornamento delle città si manda in ruina, e gettasi per terra per la violenza delle armi”.
Ancora una volta oggi l’infelice Europa è devastata dalla guerra: in un rosario secolare di barbarie e di denunce della barbarie. Picasso vide il quadro di Rubens durante il suo viaggio a Firenze nel 1917, in piena Grande Guerra: e venti anni dopo se ne ricordò dipingendo Guernica, esattamente tre secoli dopo che Rubens aveva finito la sua opera. E oggi? Oggi chi vedrà con questo lucido disincanto, e insieme con tanta partecipazione umana, i disastri di questa ennesima, disastrosa guerra europea?
Non certo i politici, no. Non i capi e i loro lacchè, il codazzo di giornalisti vocianti, non i sedicenti esperti geopolitici, non i militari smessi e le spie in carriera: triste corte televisiva di queste sere tetre. Perfino Enrico Letta ha scritto che il Pd vuole che l’Italia sostenga l’Ucraina con un “aiuto militare concreto”. Così, letteralmente: tutti pronti a fare la guerra dal divano. Come se non ci fosse una Costituzione che ripudia la guerra. Come se a morire non fossero altri, ben distinti da quelli che la guerra la decidono: “il potere di aprire e far cessare le ostilità è esclusivamente nelle mani di coloro che non si battono”, ha scritto Simone Weil.
E, allora, le uniche voci che davvero possono dire qualcosa in queste ore sono quelle di chi digiuna e cammina, come il papa: sempre più un gigante tra i nani. O quelle appunto degli artisti, degli studiosi, dei poeti. E soprattutto di quelli che – dentro ciascuna delle nazioni in guerra – si oppone alla guerra, la contesta, la denuncia, spesso a costo della vita stessa. Per questo sono apparse così toccanti le parole di Lev Rubinštejn, poeta russo settantacinquenne che dalla sua casa di Mosca, giovedì scorso, all’inizio dell’invasione, ha scritto su Facebook, tra le altre, queste righe: “La popolazione del paese è sempre stata divisa in due parti disuguali. Una parte, sempre minoritaria, si ostinava a chiamare meschinità la meschinità, codardia la codardia, stupidità la stupidità e fascismo il fascismo. L’altra parte, quella maggiore, soggetta all’influenza della retorica ufficiale, chiamava la meschinità patriottismo, la codardia – la necessità di fare i conti con le circostanze, e il desiderio di libertà e apertura espresso dai popoli e dalle società – nazismo. E questa guerra, una guerra linguistica, una guerra sui significati delle parole e dei concetti, era e rimane la principale e interminabile guerra civile. E quella guerra che si sta svolgendo in Ucraina, sotto gli occhi del mondo, non viene nemmeno chiamata guerra. La chiamano ‘operazione militare’. Ma è una vera e autentica guerra. E deve essere fermata. Come? In qualche modo, ma è necessario. Tutti noi, insieme e individualmente, dobbiamo pensarci” (traduzione di Martina Napolitano).
Pensare alle parole con cui dire la verità sulla guerra: proprio come Rubens pensava alle pennellate con cui smascherarla. In queste ore ci sentiamo dire che dovremmo difendere i valori e gli interessi occidentali. Ma quali sono questi valori: quelli scritti nelle Costituzioni o quelli perseguiti dai governi? E di chi sono questi interessi? “L’interesse nazionale – ha scritto ancora Weil – non può essere definito né da un interesse comune delle grandi imprese industriali, né dalla vita, dalla libertà e dal benessere dei cittadini, perché questo interesse comune non esiste”. È dunque nel dissenso interno, nelle ragioni del conflitto sociale, nel rifiuto di ogni nazionalismo, nella difesa dei diritti che va cercata la forza per ripudiare l’idea stessa della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, e come mezzo di costruzione del consenso interno ai singoli stati.
Oltre a violare i corpi, la guerra violenta i pensieri e le parole. Iniziamo a ribellarci da qui.

I conti fateli voi

 


domenica 27 febbraio 2022

Servi ignobili

 


Uno dei più ignobili vassalli del Bastardo Russo, ras tra i bastardi incarogniti che pullulano la sfera, fervente e convinto che solo i soldi e le marchette possano portare felicità, ed in questa epoca stracciona e pregna di bambolotti danzanti sulle macerie di tutto ciò che ci distingueva dal resto del regno animale, un codardo di simili proporzioni ha avuto vita facile; ebbene questo folletto ha appena lasciato la sua blasonata squadra in mano ad una fondazione benefica, presagendo l'aria nuova delle restrizioni, al solito figlia di quella messinscena tipica degli omuncoli dediti al brigantaggio più squallido e riverente verso i potenti come il Bastardo Sovietico, ansimante e godereccio degli introiti senza fine che serventi come Abramovich gli recapitano proni e slinguazzanti, obnubilandogli la verità oramai messa in soffitta da questo capitalismo tecno-rapto, che cioè l'eccedenza non fermerà il treno verso la fine dell'esistenza, e per il Bastardo speriamo sia il più breve possibile, che diventi presto sterco per la terra, possibilmente anche domani.

Mentre un popolo fiero e vitale è assediato dalla schizofrenia di un parassita dell'umanità, incensato tempi addietro su queste lande da Pregiudicati e Cazzari, Bibitari ed Avvocati del Popolo, dai Dibba girovaganti e dai fascisti camuffati, guidati da quella caciottara attualmente negli States a riverire il Sommo Idiota Biondastro pronto a ritornare in corsa per la mazzata finale al pianeta, occorre che tutti gli uomini di buona volontà introspettivamente si domandino se debba o no terminare quel servilismo parassita rivolto ai cosiddetti potenti universali, come quello in foto, cioè per dirla come Gaber 

"E visti alla distanza non siete poi tanto diversi dai piccoli borghesi che offrono champagne e fanno i generosi, che sanno divertirsi e fanno la fortuna e la vergogna dei litorali più sperduti e delle grandi spiagge della Sardegna" (Quando moda è moda); se non sia arrivato il momento di riprendersi la scena, di punire le ingiustizie, di non far finta che quelli accatastati nelle spelonche disseminate sulla terra, che chiamiamo banche - vedasi non ultimo il Credit Suisse - non siano soldi sporchi, frutto di angherie e misfatti alle spalle della quasi globalità dell'umanità. 

Se non sia arrivato il momento di far comprendere all'élite che ci dirige, che le regole tendenti ad affossare la sperequazione, attuale regina incontrastata della storia, dovranno rigidamente essere rispettate, da chiunque; che il tempo del lasciar fare, del soprassedere è finito; che l'inutile circo, che molti chiamano ancora Onu, dovrà essere completamente rifondato, sbaragliando stantie norme al servizio di quel burocratismo internazionale, rotore di questo vergognoso ed inqualificabile sistema prevaricatore i diritti dell'essere umano.  

Quanti Putin dormienti abbiamo attorno a noi, supportati dalle risorse di miriadi di gnomi all'Abramovich, pronti ad innescare processi degenerativi, minanti ideali sociali al servizio del bene comune?  

"Direi che non è più tempo di fare mischiamenti,

Che è il momento di prender le distanze

Che non voglio inventarmi più amori

Che non voglio più avervi come amici, come interlocutori.

Sono diverso e certamente solo

Sono diverso perché non sopporto il buon senso comune

Ma neanche la retorica del pazzo

Non ho nessuna voglio di assurde compressioni

Ma nemmeno di liberarmi a cazzo

Non voglio velletarie mescolanze con nessuno

Nemmeno più con voi

Ma non sopporto neanche la legge dilagante del "fatti i cazzi tuoi". (G.Gaber) 

L'Amaca constata

 

Putin c’era anche prima
di Michele Serra
A metà settembre del 2021, meno di sei mesi fa, in Russia si è votato per il rinnovo della Duma (il Parlamento). Il titolo di questo giornale era: “Russia, al via le elezioni parlamentari ma gli oppositori sono in carcere o in esilio”. A cominciare dal più popolare di essi, Aleksej Navalnyj, prima avvelenato dai servizi segreti e poi, scampato alla morte, arrestato.
Due domande. La prima, che rivolgo prima di tutto a me stesso, è quale rilievo mediatico, quale appoggio intellettuale, quale solidarietà politica abbiamo destinato, per lunghi anni, alle tante persone che in Russia, per essersi opposte a Putin, sono entrate in carcere o sono state costrette all’esilio. A parte Navalnyj e, perché facevano spettacolo, le Pussy Riot, non sapevamo nemmeno i loro nomi.
La seconda è come sia stato possibile che governanti e partiti politici europei, specialmente dell’area cosiddetta sovranista, ma non solo, abbiano potuto intrattenere affabili relazioni con Putin, qualcuno indicandolo come una guida per il mondo, senza che questa intesa con un tiranno (se volete un eufemismo, un autocrate) provocasse scandalo o almeno innescasse una discussione politica radicale, profonda, di quelle che si chiamano “valoriali”.
Azzardo una possibile risposta alla prima come alla seconda domanda. La de-ideologizzazione della politica, la sua quasi-riduzione al solo campo dell’economia, ha prodotto una specie di disarmo ideale che ha impedito di dividersi, discutere, infine votare sulle questioni fondamentali: la libertà, la democrazia e la pace prima di ogni altra. Il risultato è che solo il rumore dei cingoli e delle bombe ha aperto gli occhi degli europei su Putin. E non è una frase polemica. È una triste constatazione.

sabato 26 febbraio 2022

Mentre a due passi...


Alba di un giorno nuovo, che si preannuncia radioso, frizzante, la Luna che accarezza il palazzo difronte; ma il pensiero va a loro, a quegli amici che a centinaia di chilometri hanno dormito nelle metropolitane, immersi nella paura per l'attività criminale di un pazzo rancoroso e nazista; ai bimbi che si son visti trasformare la loro giovane vita in un misterioso teatro di paure, di rimbombi simili ai tuoni ma col cielo sereno, con la terra che trema, che si staranno domandando come mai non si vada più al parco, a correre, a ridere al sole. Penso a loro e mi rattristo. Soprattutto per l'idiozia e la malvagità che regnano sovrane attorno a noi. 

Putin, te lo dico all'alba, in piena sincerità: vaffanculo! 
 

A volte gli anniversari

 


venerdì 25 febbraio 2022

Ops!




Interessante

 

Se le nostre vite fossero virtuali 

di Farhad Manjoo (giornalista del New York Times)

Immaginate i vostri bisnonni che, da adolescenti mettevano le mani su una novità rivoluzionaria: il primo gioco che permetteva d’immergersi completamente nella realtà virtuale. Non degli sciocchi occhialoni, più un dispositivo stile Matrix, un’elegante bandana imbottita di elettrodi in grado di collegarsi direttamente con il sistema percettivo del cervello di chi la indossava, sostituendo qualunque cosa vedesse, sentisse, toccasse, annusasse o addirittura gustasse con nuove sensazioni generate da una macchina.

Il marchingegno ha avuto un enorme successo, le bandane magiche ben presto sono diventate parte imprescindibile della vita quotidiana, di fatto i vostri bisnonni si sono conosciuti in Bandanalandia, e i loro figli, i vostri nonni, sono entrati in contatto con il mondo esterno solo raramente. Le generazioni successive – i vostri genitori, voi – non ci sono entrate mai. Tutto quello che avete conosciuto, l’intero universo che chiamate realtà, vi è stato fornito da una macchina.

È il genere di scenario bizzarro a cui continuo a pensare quando rifletto sull’ipotesi della simulazione, cioè l’idea, molto discussa negli ultimi tempi tra esperti di tecnologia e filosofi, che il mondo intorno a noi possa essere una finzione digitale, qualcosa di simile al mondo simulato di un videogioco.

L’idea non è nuova. Esplorare la natura profonda della realtà è un’ossessione dei filosofi dai tempi di Socrate e Platone. Dopo Matrix queste idee sono diventate anche un caposaldo della cultura pop. Ma fino a qualche tempo fa l'ipotesi della simulazione riguardava gli studiosi. Perché dovremmo prendere in considerazione la possibilità che la tecnologia riesca a creare simulazioni indistinguibili dalla realtà? E anche se una cosa del genere fosse possibile, che differenza farebbe per noi, paralizzati nel presente, dove la realtà sembra fin troppo tragicamente reale? Per queste ragioni mi sono tenuto alla larga dai molti dibattiti sull’ipotesi della simulazione che ani- mano le comunità di esperti di tecnologia dai primi anni duemila, quando Nick Bostrom, un filosofo di Oxford, ventilò l’idea in un saggio. Ora un nuovo, straordinario libro del filosofo David Chalmers – Reality+. Virtual worlds and the problems of philosophy mi ha trasformato in un simulazionista accanito.

Dopo aver letto il libro e parlato con il suo autore, ho cominciato a credere che il prossimo mondo di realtà virtuale un giorno potrebbe essere considerato reale come la realtà reale. Se succederà, la nostra attuale realtà sarà immediatamente messa in dubbio: dopo tutto, se siamo riusciti a inventare mondi virtuali significativi, non è plausibile che possa averlo fatto anche qualche altra civiltà chissà dove nell’universo? Ma se questo è possibile, come possiamo sapere di non essere già nella sua simulazione?

La conclusione sembra inevitabile. Forse non siamo in grado di dimostrare che ci troviamo in una simulazione, ma come minimo è una possibilità che non possiamo escludere. E forse c’è dell’altro: Chalmers sostiene che se ci troviamo in una simulazione non ci sarebbe motivo di pensare che questa sia l’unica. Proprio come molti computer oggi utilizzano lo stesso software, molte macchine diverse potrebbero usare lo stesso modello di simulazione. Se così fosse, i mondi simulati sarebbero di gran lunga più numerosi di quelli non simulati, il che significa– a livello puramente statistico – che non solo sarebbe possibile, ma addirittura probabile che il nostro mondo sia una delle tante simulazioni. Chalmers scrive che “le probabilità di essere delle simulazioni sono almeno il 25 per cento o giù di lì”.

Chalmers insegna filosofia alla New York University e ha passato gran parte della sua carriera a riflettere sul mistero della coscienza. È noto per aver coniato la frase “il difficile problema della coscienza” che, grosso modo, è una definizione della difficoltà di spiegare perché una certa esperienza è percepita in quel modo dall’individuo che ne sta facendo esperienza (non vi preoccupate se vi gira la testa: non è un caso se si chiama “difficile problema”).

Chalmers dice di aver cominciato a riflettere sulla natura della realtà simulata dopo aver usato dei nuovi visori di realtà virtuale ed essersi reso conto che la tecnologia è già abbastanza sviluppata per creare situazioni che sembrano reali.

La realtà virtuale oggi sta avanzando così rapidamente che sembra ragionevole ipotizzare che il mondo al suo interno un giorno possa essere indistinguibile da quello esterno. Secondo Chalmers potrebbe succedere entro un secolo. Personalmente non sarei sorpreso se ci arrivassimo nel giro di qualche decennio.

In qualunque momento accadrà, lo sviluppo di una realtà virtuale realistica sarà un terremoto, per ragioni al tempo stesso pratiche e profonde. Quelle pratiche sono evidenti: se le persone potessero spostarsi facilmente tra il mondo fisico e mondi virtuali che sono percepiti esattamente come la realtà fisica, quale dovremmo considerare reale?

Potreste sostenere che la risposta è chiaramente il mondo fisico. Ma perché? Oggi quello che succede su internet non rimane su internet. Il mondo digitale è così profondamente radicato nella nostra vita che i suoi effetti rimbalzano nella società. Dopo che tanti di noi hanno passato buona parte della pandemia a lavorare e socializzare online, sarebbe sciocco affermare che la vita su internet non è reale.

Lo stesso varrebbe per la realtà virtuale. Il libro di Chalmers – che viaggia piacevolmente attraverso l’antica filosofia cinese e indiana passando per Cartesio fino a raggiungere i teorici moderni come Bostrom e le sorelle Wachowski, creatrici di Matrix – è un’opera di filosofia, quindi naturalmente si addentra in un’esplorazione sfaccettata delle differenze tra realtà fisica e virtuale.

Il risultato è questo: “La realtà virtuale non è la stessa cosa della comune realtà fisica”, ma poiché i suoi effetti sul mondo non sono sostanzialmente diversi da quelli della realtà fisica “è una realtà autentica”. Perciò non dovremmo considerare i mondi virtuali come fughe immaginarie: quello che succede nella realtà virtuale “succede davvero”, dice Chalmers, e quando sarà abbastanza reale, potremo viverci una vita “pienamente significativa” .

A me sembra evidente. Esistono già parecchie prove del fatto che le persone possono costruire realtà sofisticate partendo da esperienze che vivono su internet attraverso uno schermo. Perché non dovrebbe essere così in un’internet immersiva?

Questo ci porta a cosa c’è di profondo e inquietante nell’avvento della realtà virtuale. La commistione tra realtà fisica e digitale ha già sprofondato la società in una crisi epistemologica, una situazione in cui persone diverse credono a versioni diverse della realtà basate sulle comunità digitali in cui si ritrovano. Come affronteremmo questa situazione in un mondo digitale molto più realistico? È possibile che il mondo fisico continui a funzionare in una società in cui tutti hanno uno o più alter ego virtuali?

Non lo so. Non ho molte speranze che possa funzionare senza problemi. Ma le possibilità che ci spaventano sottolineano l’importanza di riflessioni apparentemente astratte sulla natura della realtà nell’epoca della realtà virtuale.

Dovremmo cominciare a riflettere seriamente sui possibili effetti dei mondi virtuali adesso, prima che diventino troppo reali per farci sentire a nostro agio.


Dialoghi

 


Già!

 

L’amaca
Chi sono i veri pazzi
di Michele Serra
Il pacifismo ideologico e ipocrita, il pacifismo ingenuo e parolaio, il pacifismo dei fraticelli, dei panciafichisti, dei fricchettoni con le loro insopportabili collanine: come era bello. Com’era bello il pacifismo infantile, ignaro del mondo, che nei talk show adulti scafati smontavano in quattro secondi. Com’era bello il pacifismo retorico, che opponeva parole risapute all’evidenza delle cose, alla ripetizione bruta dell’istinto di dominio che regola, dall’alba dei tempi, la storia dell’umanità. Com’era bello sapere che esisteva almeno un frammento del mondo (un corteo, una petizione, una bandiera appesa a un balcone) nel quale la guerra, che è la regola, era invece considerata una schifosa eccezione. Ci manca, in queste ore di lucida sopraffazione, con lucidi commenti di lucidi commentatori, qualche residua traccia di quella vaneggiante, imbarazzante utopia, “fate l’amore non la guerra”, che pretendeva la più gigantesca riconversione economica e politica della storia umana, dirottare gli ormoni dagli arsenali ai materassi. Se ci manca la visione – come dicono i politici – la colpa è della nostra paura di essere giudicati ingenui, o matti, come capitò a Francesco quando si denudò di fronte al padre e a tutta Assisi, e di rimbalzo come capita a questo Papa rimasto solo al mondo a gridare “pace!”. Ma lo sappiamo bene, in cuor nostro, che il vero pazzo è Putin, che pazzo è il nazionalismo in ogni sua forma (“nostra patria è il mondo intero”, cantavano gli anarchici a fine Ottocento), che da pazzi è stato, dopo il crollo dell’Urss, fronteggiare quelle rovine con una chiostra di missili, mentre gli oligarchi rubavano il più grande bottino della storia umana senza che nessuno, dalle nostre parti, avesse da ridire: perché gli oligarchi sono compagni di affari, e gli affari sono sacri. Prima di esitare a dire “pace”, la domanda è dunque: chi sono i veri pazzi?

Niente da aggiungere

 

Zitti e Mosca
di Marco Travaglio
L’attacco criminale di Putin all’Ucraina è un post scriptum degli imperialismi del XX secolo, totalmente fuori sincrono rispetto al comune sentire delle opinioni pubbliche mondiali. Non solo per le nuove generazioni che la guerra, fredda o guerreggiata che fosse, l’hanno letta sui libri di storia, ma anche per quelle che l’hanno vissuta e poi archiviata. Per questo lascia la gente senza parole e rende false e vuote le parole dei governanti che ne sono prodighi. Quelli che menano le danze, Putin e Biden, sono due cascami del Novecento che stanno per compiere 70 e 80 anni, formattati mentalmente nel vecchio mondo che ora rispunta dalla tomba come gli zombi. Con una differenza: Putin parla a un popolo che non dimentica nulla, tantomeno la sua vocazione nazionalista ancora frustrata dal crollo dell’Urss e dalle provocazioni dell’Occidente che ha fatto di tutto per umiliarlo, violando l’impegno di non allargare la Nato a Est; Biden parla a un popolo che non ricorda quasi nulla, salvo i tributi di sangue pagati a far guerre in giro per il mondo, perdendole drasticamente tutte dal 1945. Quindi la guerra non toglie consensi a Putin (a meno che la perda), ma ne toglierebbe parecchi a Biden (che già ne ha pochi) col rischio che ne approfitti la terza potenza, quella tragicamente più al passo coi tempi: la Cina. Quanto a noi, cittadini della cosiddetta Europa, pagheremo il solito tributo di soldi per conto terzi, passando da uno stato d’emergenza (sanitario) a un altro (bellico). Con l’aggravante – per noi italiani – di doverci pure sorbire il cinepanettone delle Sturmtruppen in servizio permanente effettivo, che trasformano le peggiori tragedie nell’eterna commedia all’italiana.
“Noi l’avevamo detto”. È il mantra dei Nando Mericoni a mezzo stampa (“Pronto-Amerega-me-senti?”), che da tre mesi si calano l’elmetto sul capino e rilanciano ogni giorno le veline della Cia sull’invasione russa “tra oggi e domani” e ora, dopo aver fatto e rifatto lo stesso titolo fasullo, si vantano di averci azzeccato. Come se il compito dell’informazione fosse ripetere cento volte una fake news sotto dettatura (“oggi piove”) e poi, quando la centunesima volta si avvera, fingere che fosse sempre stata vera (“visto che oggi piove?”). E come se drammatizzare urlando “Al lupo! Al lupo!” non fosse il modo migliore per sdrammatizzare: un regalo al lupo che, quando arriva, non ci crede o non si scandalizza più nessuno. Ora semmai qualcuno si chiede come mai l’amico americano, se sapeva tutto da mesi, ha lasciato l’Ucraina così impreparata e sola dinanzi all’attacco.
“Legalità internazionale”. Bei tempi quando qualche governo poteva insegnarla agli altri.
Oggi non ci sono “buoni” titolati a dare lezioni ai “cattivi” russi, visto che Usa e Ue si sono macchiati di guerre illegali e criminali (peggio ancora se avallate dall’Onu) in ex-Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Somalia e via bombardando.
“Ci vorrebbe l’Europa”. Fa il paio col “non ci sono più le mezze stagioni”. L’Europa politica e militare non è mai nata per non dispiacere al residuato bellico della Nato (a 31 anni dalla fine del Patto di Varsavia), con alleati indecenti come la Turchia (impegnata a sterminare i curdi nel silenzio degli atlantisti). Finché accetteremo che lo Zio Sam faccia casini in giro lasciandoci il conto da pagare, in termini di migranti (Libia e Afghanistan), terrorismo (Iraq), affari mancati (Cina) e bollette (Ucraina), resteremo il vaso di coccio fra due potenze che si rafforzano a scapito nostro. E piangere sull’Europa che non c’è non sarà solo inutile: sarà ridicolo.
“Tremenda vendetta!”. Posto che, in base ai trattati, la Nato non può inviare truppe in Ucraina, la reazione sarà in forma di parole e di sanzioni. Le parole abbondano e mettono tutti d’accordo. Ma Putin lesnobba, anzi le capitalizza agli occhi del suo popolo e del suo establishment(che l’altroieri era tutt’altro che allineato e coperto). Altra cosa sono le sanzioni, che per la Ue escludono gas e banche, per gli Usa no. Su questo conta Mosca: quando si passerà dalle parole ai fatti, il fronte occidentale si rivelerà pura finzione.
“Abbasso i putiniani!”. La caccia agli amici di Putin scatenata dai giornaloni e dal Pd c’entra poco con la guerra in Ucraina e molto con le guerricciole da buvette di Montecitorio: serve a screditare Salvini (che con e sulla Russia ne ha dette e fatte di tutti i colori, ma Putin manco lo conosce) e Conte (reo di un approccio multilaterale in politica estera, peraltro in linea con la tradizione diplomatica italiana, da Moro ad Andreotti, da Prodi a D’Alema allo stesso Frattini). Altrimenti sul banco degli imputati ci sarebbe anzitutto B., quello dei festini con l’amico Vlady nella dacia e a villa Certosa, delle sceneggiate a base di lettoni e plaid trapuntati, delle leccatine alle democrazie-modello di Putin e Lukashenko. Invece è tutto prescritto, in vista del campo largo di Letta (zio e nipote).
“Finché c’è guerra non si tratta”. È la linea di Biden, dunque di Draghi. Ma quando si dovrebbe trattare: in tempo di pace? I negoziati servono quando si combatte, per ottenere tregue e poi trattati. E a mediare non è adatto chi è intruppato in una fazione. Perciò servirebbe, in Europa, qualcuno che tenga una postura più terza e meno appiattita sugli Usa. O almeno che si levi l’elmetto, guardi al di là del proprio naso e scopra ciò che è ovvio dalla notte dei tempi: gli amici te li puoi scegliere, i nemici no.

Idiota!

 


Nel frattempo, mentre il mondo è sotto choc, gli indefessi idioti continuano a svolgere il ruolo di idioti, come questo in foto che fino a poco tempo fa osannava Putin come un meraviglioso statista. Che sia tornato Morisi a consigliargli queste buffonate?

giovedì 24 febbraio 2022

Distogliersi dal baratro

 


Venti di guerra, latrati dei soliti imbecilli intenti a far guerra per la loro ignoranza e per ingigantire i forzieri degli armaioli, autentici signori di questo pianeta in mano a dei pazzi! 

E allora urge distogliersi, calmarsi. 

Lo faccio attraverso una narrazione schietta di quello che sto sperimentando in questi giorni. 

Si, lo ammetto: non avevo mai usato il forno a microonde sino a pochi giorni fa. Vi sembrerà strano ma è la pura verità. Il posizionarvi il contenitore dentro ed estrarlo dopo un minuto riscaldato, provoca in me la stessa sensazione dei primi che, ammaliati, videro la lampadina accendersi, illuminando quello che fino al giorno prima era strettamente delegato alla candela. 

Ma c'è di più: da tempo immemore vivo la giornata in stile "Ricomincio da capo" il film dove Bill Murray ripete all'infinito il giorno della marmotta, il 2 febbraio. Soprattutto al mattino con la lettura dei giornali, le abluzioni, l'uscita frettolosa dal portone, la strada per arrivare al bar, con il saluto ai soliti ignoti, l'operatrice ecologica che tutte le mattine mi guarda avvolta dal suo cappello di lana, il signore che perennemente in pantaloncini corti cammina per combattere i trigliceridi, il signore anziano che canticchia a mezza voce dirigendosi dal tabacchino per i soliti due pacchetti di sigarette fini, e che poi ritrovo al bar e risaluto con il canonico "di nuovo", e lo stesso bar dove dopo il buongiorno si scivola via con il rito del caffè e della striscia di focaccia come se non fosse un domani diverso, e poi a chiudere la paglia e la partenza per il lavoro. 

Ma ieri è arrivata lei, la friggitrice ad aria e tutto d'incanto è mutato per imprimere quel frizzantino di libertà, probabilmente fittizio, motore per agguantare, scorgendola, la novità nel giorno apparentemente uguale ai precedenti dodicimila. 

E la scaletta modificata, il copione stravolto m'inondano di quella pace e rilassatezza basilare per non soccombere alla quotidianità.

Vado con ordine, come se leggessi una sceneggiatura: 

Sveglia al solito verso le cinque perché, come dice Francesco, solo i ribaldi oziano troppo a letto. (non chiedetemi chi è Francesco, perché mi rattristerei troppo!) 

Decaffeinato e lettura dei giornali, normalmente almeno cinque. Per farsi un'idea dei fatti e non cadere nell'allocchismo.

Verso le sei, quale gesto di overture, mezzo bicchiere di acqua tiepida con mezzo limone spremuto (fatelo anche voi. Una famosa oncologa lo consiglia come protezione dell'apparato digerente verso i mali che immaginate) e tre noci (le noci fanno bene, le mangia pure Chicco Mentana tutte le mattine. Le mangiasse il Kazzaro ad esempio, eviterei di emularlo.) 

Alle sei e dieci, estrazione della focaccina surgelata con inserimento nella friggitrice per 6 minuti a 170 °C. Una volta cotta perfettamente me la sbocconcello alla grande davanti al pc continuando nella rassegna stampa (da quel momento avverto le prime note echeggiare nel mio inconscio dell'Inno alla Gioia del grande Ludovico (non mi chiedete chi è Ludovico perché sarebbe come sopra con Francesco))

Inserimento cuffie per buona musica, che ritengo oramai inutile quale sia, e verso le 6:20 estrazione dal freezer di una brioche surgelata, che la friggitrice ad aria preparerà croccantemente in 15 minuti alla temperatura di 180 °C. 

Verso le 6:35 risolini alla Ragioniere depressurizzanti la gioia eruttante dall'Io in preda a un godimento estremo. Spremuta con due arance e la metà del limone rimasta. 

Esplosione di giubilo con briochina e spremuta attori principali. Al termine caffè (uso il Borbone sia deka che normale in cialde compostabili) e, lo so che sbaglio ma al momento non posso farci nulla, Paglia Regale fumata in rigorosa Seduta in defecatio mode. Successivamente abluzioni ed uscita di casa imitando evoluzioni in ascensore tipiche della compianta Fracci alla Scala.

E soprattutto da oggi combatterò l'apatia che m'affloscia a ripetere le stesse cose ogni dì. Cercherò di introdurre novità, magari mangiando anche la fritturina alle 6 del mattino, per inviare un va a dar via le ciap alla routine sonnecchiosa, anticamera della depression!  

   


Nell'idiozia

 


Anche oggi, come ieri, e, chissà, nel futuro, se ci saremo ancora, dimostriamo a noi stessi la pervicace e latente idiozia. Affidiamo cioè alle armi tutti quegli egoismi che ci fanno ripiombare nella condizione primitiva, come se il bello della maestosità del Creato, dell'arte, della cultura, dello scambio interpersonale di emozioni, di scrigni unici di noi stessi, non fossero serviti ad una mazza. 

Siamo così stupendamente imbecilli da permettere a pochi di arricchirsi producendo mezzi in grado di auto-distruggerci, delegando loro addirittura il previlegio di decidere per noi il futuro di tutti, istruendoci e muovendoci come se fossimo delle marionette, mentalmente e umanamente peggiori del signore in foto, un illuminato al nostro confronto.   

Scusanti ed allocchì

 


Sul Kazzao

 


Sublime Marco

 

Cercansi monetine
di Marco Travaglio
Undici anni fa, quando la Camera si coprì di ridicolo trascinando i magistrati di Milano alla Consulta per non aver creduto alla balla di B. su Ruby nipote di Mubarak, la grande stampa dedicò a quello sconcio paginate piene di sdegno e di parole come “vergogna”, “scandalo”, “impunità”. Ieri invece, dopo che il Senato ha concesso il bis trascinando i magistrati di Firenze alla Consulta per non aver creduto alla balla di Renzi sull’immunità parlamentare di un suo amico non parlamentare, le paginate erano su ben altro: la presunta crisi sentimentale fra Totti e Ilary Blasi. Il fatto che Renzi un anno fa abbia fatto il lavoro sporco per conto dei grandi editori e che il Pd nel 2011 fosse sulle barricate contro B. e l’altroieri sulle barricate con Renzi e B. non è casuale. In Italia il “garantismo” è come il patriottismo per Samuel Johnson: “l’ultimo rifugio delle canaglie”. Basta ascoltare le miserevoli dichiarazioni di voto (tutte, eccetto quella impeccabile di Grasso per LeU e quella troppo generica della Castellone per il M5S). Tal Parrini del Pd si arrampica sugli specchi spacciando quel voto eversivo per una disquisizione giuridica per “fare chiarezza con la Consulta”, non sapendo (o, peggio, ben sapendo) che è tutto chiarissimo: per la legge e la Cassazione, le chat sequestrate sui cellulari sono documenti e non corrispondenza e l’immunità parlamentare vale per i parlamentari, non per gli amici che chattano con loro. E il Senato non ha chiesto chiarimenti alla Consulta: ha votato la relazione di FI che accusa la Procura di Firenze di violare la Costituzione.
Per il resto il Senato pare quel vecchio spot dei preservativi, col professore che ne sventola uno in classe chiedendo di chi è e tutti gli allievi rispondono “È mio!”. Il leghista dice che la Lega non difende Renzi, ma la Costituzione, perché i giudici cattivi perseguitano anche il povero Salvini. La forzista dice che FI non difende Renzi, ma la Costituzione, perché i giudici cattivi perseguitano anche il povero Silvio. Il fratello d’Italia dice che FdI non difende Renzi, ma la Costituzione, perché vabbè, i giudici cattivi non hanno ancora fatto nulla alla povera Meloni, ma un cronista cattivo le ha chiesto se ha vaccinato la figlia e con quella “domanda impertinente e fuori luogo ha violentato una madre!”. Una scena strepitosa, che mescola vergogna e ridicolo in un’aula che ha smarrito l’una e l’altro. La perfetta natura morta di una casta autistica e interessata solo alla sua impunità di gregge, che si esibisce davanti a un Paese terrorizzato dal caro bollette, dagli stipendi da fame e dalle conseguenze della crisi ucraina. Una banda larga che, se non avesse tutta la stampa dalla sua, starebbe già rimpiangendo le monetine all’hotel Raphael.

mercoledì 23 febbraio 2022

Articolo illuminante

 

Matteo come Silvio: nel 2011 stesso voto su Ruby e Mubarak

IL CASO B. - Il conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato era già stato sollevato da Silvio, nell’aprile 2011. L’allora presidente del Consiglio era sotto inchiesta, accusato di prostituzione minorile e (soprattutto) di concussione, per aver fatto pressioni, nella notte, sui dirigenti della Questura di Milano affinché liberassero “la nipote di Mubarak” fermata per furto

DI GIANNI BARBACETTO 

Matteo Renzi non ha inventato niente: il conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato (che ha voluto oggi per far sparire dall’inchiesta Open alcuni suoi messaggi whatsapp che in verità erano stati trovati nel telefonino dell’imprenditore Vincenzo Manes) era già stato sollevato, nell’aprile 2011, da Silvio Berlusconi. L’allora presidente del Consiglio era sotto inchiesta per il caso Ruby, accusato di prostituzione minorile e (soprattutto) di concussione, per aver fatto pressioni, nella notte, sui dirigenti della Questura di Milano affinché liberassero “la nipote di Mubarak” fermata per furto. Mentre “bunga-bunga” diventa l’espressione italiana più citata nel mondo, Berlusconi e i suoi avvocati cercano il modo per bloccare il processo. Se ne incaricano i tre capigruppo della maggioranza, Fabrizio Cicchitto (Forza Italia), Marco Reguzzoni (Lega) e Luciano Sardelli (Gruppo misto) che mandano una letterina all’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini. Gli chiedono di sollevare conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato “a tutela delle prerogative della Camera”, contro l’invasione di campo della magistratura. I tre capigruppo sostengono che il loro capo non può essere processato da un tribunale normale, ma solo dal Tribunale dei ministri, perché il più grave reato contestato (la concussione) è stato (eventualmente) commesso da Berlusconi come presidente del Consiglio: ha chiamato i funzionari della Questura per evitare una grave crisi internazionale, poiché era convinto che Ruby fosse “la nipote di Mubarak”. “All’Organismo parlamentare non può essere sottratta una propria autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati oggetto di indagine giudiziaria”, scrivono i tre. E la Camera aveva già deciso che il reato era ministeriale: con la famosa votazione in cui, galvanizzata dalle ardite parole dell’avvocato-parlamentare Maurizio Paniz, l’aula aveva mostrato di credere che Karima El Mahrough in arte Ruby Rubacuori (marocchina) fosse davvero la nipote di Mubarak (egiziano). I magistrati di Milano erano andati avanti a sostenere che il reato eventualmente commesso non era affatto ministeriale, ecco allora intervenire i tre capigruppo, a chiedere l’intervento della Corte costituzionale.

“Si sono esposti al ridicolo di fronte al mondo”, dichiarò allora il dem Dario Franceschini, “sostenendo che si tratti di un reato ministeriale perché il presidente del Consiglio avrebbe detto che credeva che Ruby fosse la nipote di Mubarak”. La Corte costituzionale il 6 luglio 2011 dichiarò ammissibile il conflitto sollevato dalla Camera. Ma il 14 febbraio 2012 arrivò, con un comunicato di due righette, la decisione dei giudici: “In relazione al conflitto sollevato dalla Camera dei deputati nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano e del Giudice per le indagini preliminari presso lo stesso Tribunale, la Corte ha respinto il ricorso”.

Un conflitto d’attribuzione davanti alla Consulta fu sollevato anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per impedire che la Procura di Palermo utilizzasse nel processo sulla trattativa Stato-mafia le intercettazioni a Nicola Mancino in cui era stata registrata anche la sua voce. La Corte nel 2013 gli diede ragione e quelle telefonate furono distrutte. Nel 2014 diede ragione alla presidenza del Consiglio contro i magistrati che avevano indagato e processato gli agenti segreti accusati del sequestro a Milano dell’imam egiziano Abu Omar. I condannati, tra cui Niccolò Pollari e il suo braccio destro Marco Mancini, furono dichiarati improcessabili per segreto di Stato.

Lettino

 


Robecchi

 

Salario minimo Si discute sui 9 euro lordi all’ora. Come se fossero “troppi”
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Siccome ci travolge l’infinitamente grande, la guerra eccetera, occupiamoci dell’infinitamente piccolo: un euro, un euro e mezzo. Lo so, è volgare parlare di soldi, e questa è una cosa che dicono soprattutto quelli che i soldi ce li hanno. Ma approfittiamo per una volta del fatto che la politica – cioè, pardon, i partiti – avranno a che fare con gli spiccioli, contanti, calcolati al millimetro, insomma con la vita reale della gente misurata in termini di budget di sopravvivenza.
Non si parla, per una volta, dei millemila miliardi luccicanti che dovrebbero pioverci addosso secondo la narrazione corrente, ma della differenza tra 9 euro lordi all’ora (proposta del ddl Catalfo) e le offerte “a scendere” delle forze politiche, tutte o quasi, con emendamenti molto somiglianti che puntano a togliere dalla legge una piccola frasetta, questa: “E comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali”. Lega, Forza Italia e Pd uniti nella lotta. In poche parole si vuole togliere il cartellino del prezzo. Si accetta l’idea che finalmente anche in Italia, come quasi ovunque, non si possa guadagnare meno di una certa cifra, e il problema – ovvio – diventa la cifra.
Tanto per capire di quante vite si sta discutendo, ci sono almeno quattro milioni e mezzo di persone che guadagnano meno di nove euro lordi all’ora (lo dice l’Inps) e fissando quella soglia, quasi il 30 per cento dei lavoratori dovrebbe avere un aumento (questo lo dicono gli esperti del ministero del Lavoro). Segue il pianto solito di Confindustria: il salario minimo a nove euro lordi costerebbe alle imprese più di sei miliardi, tra tempi pieni, part-time, tenendo fuori il settore agricolo e quello domestico. Insomma, troppo: porterebbe il salario minimo italiano (quasi) al livello di quelli europei, appena sotto Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito. Chi vi credete di essere, un tedesco? Troppi soldi, sacrilegio.
Ora è probabile che si arriverà a infinite schermaglie sui centesimi, cioè i conti della serva, e la faccenda diventerà una battaglia di cifre, sistemi di calcolo, questioni politiche, mostrare muscoli ed esibire studi e grafici. Insomma, si litigherà molto su quell’euro e mezzo di differenza, perché le cifre che emergono nello stanco ribollire del dibattito politico partono da sette euro lordi l’ora fino ai nove previsti dal ddl. È un gioco a chi offre di meno.
Lasciamo dunque la faccenda alle schermaglie parlamentari, agli emendamenti, alle commissioni che dovrebbero riunirsi eccetera eccetera, non è difficile capire come andrà a finire: nove euro lordi l’ora verranno considerati una sciccheria, un lusso che il nostro sistema economico non può permettersi. Si parla di strumenti di verifica e controllo, di commissioni congiunte tra imprese e lavoratori (il che apre il fronte delle rappresentanze sindacali), addirittura sedute ai tavoli del Cnel, per decidere quanto vale, come minimo, un’ora di lavoro. Una cosa che rende piuttosto plastico e simbolico il vecchio detto “stare dalla parte dei lavoratori”. Di quanto? Di un euro? Due? Quanto si limerà da quei nove euro? Quando si avrà il coraggio di dire: “No, con nove euro all’ora guadagnerebbero troppo!”. La partita è solo all’inizio, sui centesimi di lavoro, di tempo, di vite, si formeranno forse inedite maggioranze, lunghe discussioni, trappole e trucchetti. Uno spettacolo interessante per quasi cinque milioni di italiani, che poi, magari, andranno anche a votare.

martedì 22 febbraio 2022

Raggelante

 


E' tipico di quest'epoca rallegrarsi per una distorsione del bello come questa notizia infonde in chi, come me, fermamente crede nel rispetto dei luoghi. Chiaramente siamo in tanti su questo meraviglioso pianeta, e aborro l'idea del turismo d'élite; ma rallegrarsi per aver portato due milioni di persone a gustare il nulla in luoghi che naturalmente e storicamente richiedono come unica garanzia per infondere beltà, il silenzio e la pace, è quanto di più sciocco si possa organizzare in nome del lucro. 

Cosa avranno portato a casa quei due milioni di esseri umani dalle Cinque Terre? La focaccia a tre euro? I tripli turni al ristorante? Il mito del cesso libero? La differenziazione del prezzo della lattina di birra tra indigeno e turista? Lo scontrino inviato per cerbottana? La notte trascorsa in cantina e pagata come una suite (ciao fattura)?

Come non comprendere che ammassare turisti che a malapena intravedono il mare, avvierà  un'autodistruzione di luoghi e immagini? 

La soavità dell'arte sia essa naturale che umana è inversamente proporzionale al bieco arricchimento di pochi e all'intruppamento di molti, appagante l'oramai pensiero comune che l'aumento delle presenze sia conferma di successo. Tutt'altro. Mandrie di ciacolanti invasati non possono che nuocere alla bellezza, di luoghi e arte. Pervicacemente dobbiamo sottostare alla legge comune del tutto e subito, della catena di montaggio, del "presto andate via che arrivano altri!"; con buona pace del rispetto e dell'unicità di luoghi nati per infondere pace e quiete nell'intimo, anticamera per poter assaporare e degustare una ricchezza che se ne infischia dei grandi numeri: la bellezza. 

Andrea e la Calenda

 

Calenda, leader solo di se stesso eppure trattato da Churchill
di Andrea Scanzi
Carlo Calenda è un personaggio costantemente tragicomico a sua insaputa. Lo è nelle fattezze da fumetto disegnato maluccio, lo è in quel che dice e in come lo dice. E lo è nella sistematica sopravvalutazione che gli altri hanno di lui. In un Paese normale, ogni volta che parla Calenda, al massimo gli verrebbe dato lo stesso peso che merita un tweet di Marika Fruscio. Da noi no: parla Calenda e sembra quasi che abbia proferito verbo Churchill. Lo scorso weekend, alla presenza di se stesso, il tenero Calenda si è incoronato da solo e si è fatto i
complimenti
per il coraggio. Pare che poi si sia pure incoronato davanti allo specchio per poi invadere la Polonia nel metaverso ascoltando Wagner, ma su questo i politologi si dividono. All’interno della sua divertentissima assise, Calenda ha ovviamente dileggiato chiunque non gli piaccia e ha dettato la linea al mondo. Il solito film: il tenero Calenda ha perso ogni battaglia combattuta, senza spinte generose dall’alto (da lui stesso correttamente ammesse) non avrebbe mai avuto questa visibilità e nell’immaginario pubblico coincide con il personaggio caricaturale interpretato da Crozza. Eppure lui continua a dare consigli a tutti, sentendosi forse (cantava qualcuno) come Gesù nel tempio.
Le sue ultime sparate generano molta ilarità e (di rimbalzo) qualche preoccupazione. L’ilarità è molteplice. Calenda ha detto che porterà il partito al 20% e poi lo lascerà agli altri (poi però si è svegliato tutto sudato). Quindi ha ordinato a Pd, Lega e Forza Italia come muoversi, sebbene Calenda vanti (?) un decimo dei voti dei primi due e un quinto dei berlusconiani. L’uomo che sussurrava ai cigni e prendeva sberle da Martelli ha poi raggiunto l’azimut del delirio quando è arrivato a dire che Renzi è stato il miglior presidente del Consiglio dai tempi di De Gasperi. Per molto meno ho visto gente ricoverata in manicomio, e verosimilmente dopo una frase così anche Basaglia avrebbe vacillato. Il tenero Calenda, forte di quella sua presenza scenica da Moncler contraffatto e di quella dizione coatta da Mario Brega che vorrebbe esser “fero” ma è solo “piuma”, rimane quel personaggio controverso genialmente riassunto da Claudio Martelli: “Calenda resta il cortigiano cafone che è sempre stato. Chi lo conosce lo evita”. Amen.
C’è però anche un elemento tragico, in questo Martufello che si crede Adenauer. Una componente inquietante che non dipende tanto da lui, quanto da chi lo ascolta e gli dà pure credito. A sentirlo parlare, rapiti da cotanta banalità greve, c’erano Giorgetti, Tajani (va be’) e Letta. Ecco: Letta. Il segretario Pd continua a dare per assodata l’alleanza con i 5 Stelle, ma al tempo stesso lavora per inglobare Calenda e Renzi (chiedo scusa per la ripetizione), ovvero due soggetti secondo i quali i grillini sono un mix tra il sottosviluppo mentale e l’Armageddon. Letta, su Calenda, è arrivato a dire: “Sono sicuro che insieme faremo grandi cose per il futuro del nostro Paese, che insieme senza ambiguità vinceremo le Politiche del 2023 e dopo il voto daremo un governo riformista, democratico ed europeista eletto dai cittadini per rendere la politica al servizio del nostro Paese”. Un discorso allucinante, che cela però la solita gran voglia di centro e restaurazione. Di più: l’idea della politica-grappa, dentro la quale – come nel processo di distillazione dell’acquavite – togli la testa e la coda (Meloni e 5 Stelle) e lasci solo il centro. E il centro, qui, è ovviamente un Draghi eterno. Condoglianze.

Marco e la Calenda

 

Non c’è campo
di Marco Travaglio
Dopo che Calenda ha vinto a sorpresa il congresso di Azione (un capolavoro della suspense che ha tenuto tutti col fiato sospeso come non accadeva dai tempi di Profondo rosso) e, dall’alto del suo 2%, ha intimato al Pd di schifare il 15-16% dei 5Stelle (con i quali è al governo da un anno a sua insaputa), si è riaperto l’arrapante dibattito sulle alleanze per le prossime elezioni. Dibattito reso inutile e pure ridicolo dalla legge proporzionale prossima ventura, che imporrà alleanze dopo le elezioni, non prima. Secondo i giornaloni, i 5Stelle sarebbero allarmatissimi dalla prospettiva che Letta jr. li escluda dal suo “campo largo” perché Calenda e Renzi, noti frequentatori di se stessi, non li vogliono e perché Franceschini e Bettini si sono incapricciati della Lega. Noi, al posto dei 5Stelle, saremmo entusiasti dell’Union Sacrée “tutti contro Conte”: le ammucchiate portano voti a chi non ne fa parte. E il M5S, come FdI, guadagna voti quando è solo contro tutti e li perde quando si avvicina troppo agli altri. Allearsi ha un senso se serve a fare qualcosa. Il M5S l’ha fatto con la Lega e poi col Pd, perdendo metà dei consensi, ma realizzando gran parte del suo programma. Ora la domanda è: allearsi col Pd per fare cosa? Per salvare Renzi dal processo Open?
Nel 2019, quando Zingaretti entrò nel Conte-2, accettò il programma progressista dei 5Stelle, che costrinsero il Pd a fare le prime cose di sinistra della sua storia. Ma ora il Pd, con Letta jr., è tornato quello di sempre: il partito del potere per il potere che non ha idee perché, appena gliene viene una, si spacca in otto correnti. Infatti adotta la tecnica anti-orso: fingersi morto per sopravvivere. E va d’accordo con chiunque non ha idee se non quella di restare al governo a ogni costo: FI, Lega giorgettiana, Iv, Azione e altri centrini. Ma entra in conflitto con chi ne ha (giuste o sbagliate, non importa): Conte, Salvini e Meloni. Il “campo largo” lettiano prescinde da tutte le idee, salvo quella di governare anche nella prossima legislatura, magari usando ancora Draghi come taxi, senza il fastidio di vincere le elezioni. Nella migliore tradizione della casa: da quando nacque nel 2007, il Pd non ne ha mai vinta una, eppure ha governato con Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi. Gli elettori Pd non ci fanno più caso. Ma gli elettori M5S sono molto esigenti e per metà si astengono dal 2019 in attesa di sapere quanto innovativo sarà il programma di Conte. Salario minimo, ambientalismo spinto, fine delle discriminazioni più odiose tipo Super green pass, altre scelte intransigenti: questo si attendono da Conte. Il loro ritorno alle urne sarà inversamente proporzionale alla vicinanza dei 5Stelle al draghismo e al “campo largo”. Che poi è un camposanto.

Grande Michele!


L’amaca
Cliccando cliccando
di Michele Serra
Dev’essere esaltante diventare un leader molto seguito, e un grande manipolatore, senza percorrere alcuno degli iter consueti. Senza essere un politico, un intellettuale, una star mediatica di vecchio tipo (anchorman, rockstar) o di nuovo tipo (influencer), un predicatore, un capo spirituale, un famoso manager, un inventore, un grande boss del crimine. Senza nemmeno il bisogno di un nome e di un cognome, e anzi mettendo a profitto tutti i vantaggi dell’anonimato: zero responsabilità personali, zero conseguenze pubbliche, solamente il piacere, in purezza, di verificare ogni giorno che milioni di persone credono ciecamente in quello che dici.
Scoperti grazie a una complicata e lunga indagine di linguistica forense, un americano e un sudafricano sarebbero la “mente” di QAnon, la setta complottista, con milioni di seguaci, convinta che il mondo sia governato da un Deep State devoto a Satana, i cui membri bevono il sangue dei bambini. Chi volesse sorridere sul fenomeno (effettivamente anche comico) non dimentichi che QAnon ha avuto un ruolo non secondario nell’elezione di Trump, e due eletti al Congresso (trumpiani, ovviamente) si dicono «molto interessati» al verbo di QAnon.
Sarebbero dunque due Signor Nessuno, nelle loro stanzette, cliccando cliccando, aggregando e facendo lievitare paranoie e pregiudizi della gente comune, ad avere creato dal nulla questo mostro globale.
Non una centrale occulta, non un potere diabolico: due coglioni qualunque.

Non per essere apocalittico, ma non sarà l’intelligenza artificiale, a dominare il mondo. Basta e avanza la scemenza naturale. 

lunedì 21 febbraio 2022

Domandina



Premetto che questo ex kgb mi sta profondamente sul ciufolo, visto come ha profuso soprusi, annientamenti degli avversari, in puro stile dittatoriale. Ma mi domando una cosa: perché andargli a mettere la Nato - che oramai non serve più ad una mazza se non a spendere denari in frattaglie per far giocare a Risiko tanti inconcludenti e mocciosi guerrafondai - sotto casa e continuare a stuzzicarlo con quelle manovre congiunte che tanto ci rompono i coglioni? Perché quel sonnolento presidente americano per risalire la china stuzzica un violento come Putin? Siamo nuovamente al giro di boa in cui dovremmo consumare armi per la gioia delle industrie belliche? E un bel vaffanculo omnidirezionale no?

Ancora tu!



Questo continua a confondere la fisicità con la melodia, e a San Alocchino lo hanno pure premiato e li rappresenterà all’Eurofestival dove, pare, si presenterà nudo con un tizzone sparato nel pertugio, sperando nella giuria allocca!

La prenda filosoficamente!

 


Montanari!

 

La Firenze tradita e umiliata dal tappeto rosso per Minniti
DI TOMASO MONTANARI
Il 27 febbraio papa Francesco tornerà a Firenze, accolto da un convegno della Conferenza episcopale italiana intitolato al “Mediterraneo frontiera di pace”, pensato in esplicita continuità con i Convegni del Mediterraneo che Giorgio La Pira – sindaco santo e padre costituente – organizzò a Firenze dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Quei convegni, irrisi dai protagonisti della Realpolitik, erano un segno profetico: la fede nel Dio di Abramo diventava protagonista nella tessitura di una pace che univa ebrei, cristiani, musulmani in un dialogo fondato sulla dignità della persona umana, segno potente contro la volontà di potenza e la corsa agli armamenti.
E oggi? Oggi c’è Marco Minniti, che chiuderà la sezione IV del convegno, quella intitolata alle “migrazioni tra le sponde del Mar Mediterraneo. Come le città possono contribuire nella definizione di nuove politiche migratorie e collaborare per un effettivo rispetto dei diritti umani fondamentali”. Sembra un’invenzione di Crozza (il cui meraviglioso Minniti gridava: “non possiamo lasciare il fascismo ai fascisti!”), ma è tutto vero.
Minniti oggi presiede la Fondazione MedOr, che “condivide e fa propri i valori del Socio Fondatore Leonardo”: Leonardo, l’industria che è tra i primi quindici produttori di armi al mondo. Basterebbe questo a chiedersi cosa c’entri Minniti con un profeta del disarmo come La Pira. Ma chi non ricorda le scelte e le responsabilità del Minniti ministro?
Costruttore di poderosi “muri” contro i migranti, distruttore dei loro diritti, artefice del Memorandum d’intesa con la Libia grazie al quale rinchiudiamo in mostruose carceri e condanniamo a torture indicibili chi prova a varcare quel “Mediterraneo frontiera di pace” celebrato dal convegno fiorentino. I muri costruiti da Minniti erano immateriali, ma non per questo meno efficaci: quando, nel 2017, fu varato il decreto Minniti-Orlando, a dirlo fu il presidente dell’Associazione studi giuridici sull’Immigrazione Lorenzo Trucco: «ci sono tanti modi per fare i muri: con il calcestruzzo o con le norme. Rendo tutto molto difficile, con pochi controlli giurisdizionali, tolgo un secondo grado di giudizio, eccetera. Non c’è nulla che va a rafforzare la tutela dei diritti su persone assolutamente deboli. Qui è in atto una separazione tra persone: i migranti non avranno gli stessi diritti degli altri, e tutto ciò è codificato”. Davvero una legge secondo il pensiero di Giorgio La Pira!
Minniti aprì una strada terribile: “Ha iniziato a ostacolare le attività di salvataggio condotte dalle Ong, imponendo loro la firma di un codice di condotta assai restrittivo. Oltre a indurre alcune organizzazioni a ritirare le proprie imbarcazioni, ha dato avvio a una polemica rapidamente degenerata nella criminalizzazione delle stesse iniziative umanitarie” (così il costituzionalista Francesco Pallante). Su quella strada si sarebbe presto incamminata la destra estrema: “C’è una continuità in termini di progetto politico, nel senso che i decreti Minniti-Orlando hanno aperto la strada alla recrudescenza di Salvini. Perché nel momento in cui si è iniziato a derogare alle garanzie fondamentali delle persone, in questo caso i richiedenti asilo, automaticamente, colui che è venuto dopo, cioè Salvini, non poteva che proseguire su quella strada” (così Antonello Ciervo, avvocato dell’Asgi).
Per non ritenere opportuno che proprio la Firenze città di pace si affidi a Minniti, sarebbe bastato anche un altro passaggio terribile di quel decreto del 2017 che – scrisse Roberto Saviano – “ha toni razzisti e classisti. Per descriverlo in breve: i sindaci, per ripulire i centri storici delle città, avranno il potere di allontanare chiunque venga considerato ‘indecoroso’, non occorrerà che sia indagato o che abbia commesso un reato”. Un decreto contro i poveri, in nome del decoro e della bellezza: e qua davvero La Pira si rivolta nella tomba.
A fare gli onori del padrone di casa sarà Dario Nardella. Se il suo predecessore La Pira nel 1953 requisì le case sfitte per garantire “il diritto fondamentale del cittadino all’assistenza ed alla sicurezza individuale e familiare”, Nardella nel 2018 dichiarò invece di voler agire contro le “occupazioni abusive, soprattutto se molto impattanti, che colpiscono la proprietà privata o l’interesse pubblico… Uno degli errori della sinistra è stato quello di essere troppo ambigua sui temi della legalità e della sicurezza… completiamo con la polizia municipale lo smantellamento dell’accampamento abusivo in area privata”. Il vocabolario è impressionante. Per La Pira il fine è la persona umana: e la proprietà privata è un mezzo per costruire un’utilità sociale che ne promuovesse e sviluppasse la dignità. Per il sindaco di oggi tutto è ribaltato, tutto è al contrario: la tutela della proprietà privata è il fine ultimo, la sicurezza è garantita dalla polizia, l’ordine pubblico dalla sicurezza.
Da fiorentino vorrei dire a papa Francesco: la Firenze di La Pira non è mai stata così tradita e umiliata.