giovedì 20 febbraio 2025

Attorno agli armigeri

 

Mia nonna, le sue bombe e una lezione per l’Europa
L’INDUSTRIA DELLA DIFESA A COLLEFERRO - In fabbrica. Faceva spolette grandi come un polpastrello e capaci di far saltare in aria un palazzo (ed era un problema)
DI FILIPPOMARIA PONTANI
Agli illustri Presidenti, Ursula von der Leyen e Mario Draghi
Loro sedi
Egregi Presidenti, ho appreso dagli organi di stampa e dalla lettura del piano di uno di voi che giudicate urgente il riarmo complessivo dell’Unione, al punto da suggerire di indirizzare in quel senso molti dei nostri investimenti in ricerca (giorni fa ce l’ha confermato all’Accademia dei Lincei anche la Presidente del CNR), e da scomputare le spese militari dai tetti al deficit di ciascun Paese, orientando così una parte rilevante del nostro futuro industriale.
Io non capisco di queste difficili materie, e non sono mai entrato, nel concreto, in una delle industrie belliche di cui parlate. Però se aveste 10 minuti, prima di prendere questa decisione nelle sedi di vostra competenza, vorrei portarvi nel borgo dei miei nonni, che si chiama Colleferro e sta poco a sud di Roma. Lì, in una via che si chiama via degli Esplosivi, dove ora sorgono le colorate casette della ASL, vorrei farvi parlare con un paio di persone più competenti di me, anche se con alcune non si può più.
Non posso più farvi parlare con Maria Piacentini, che nell’ottobre 1954 lubrificava un innesco recuperato da materiale della Seconda guerra mondiale nel reparto “Fulminato” dello stabilimento BPD: aveva 23 anni, e quel giorno, dopo il botto, per recuperare lembi del suo collo e del suo seno sul soffitto della stanzetta dovettero intervenire i pompieri. Non posso più farvi parlare con Pietro, l’operaio di Sgurgola della stanzetta a fianco, che interrogato sull’accaduto ebbe a balbettare con la calata ciociara “è próvere, dottó, è próvere”; né con le sue colleghe – quasi tutte donne, perché servivano dita sottili e tocco leggero – che ogni giorno chiamavano familiarmente la matassa esplosiva da tagliare e modellare “la pasta”, e trattavano i fili lungo i macchinari come spaghetti e fusilli, perché veniva naturale, del resto le macchine erano le stesse e i formati anche. Non posso più farvi parlare neanche con il parroco che officiò i funerali di Maria nell’adiacente chiesa di Santa Barbara, gli ennesimi di quel tipo dopo la santabarbara del 29 gennaio 1938 in quello stesso stabilimento, con 60 morti e 1500 feriti in un colpo solo (“viva Colleferro operaia!” avrebbe esclamato nella piazza antistante papa Paolo VI in visita pastorale nel ’66: il mosaico della patrona dei pirotecnici è ancora in bella vista lì nell’abside).
Non posso più farvi parlare con i colleferrini che si assieparono ai cancelli quando, poche settimane dopo la morte di Maria, dalla sua stessa postazione (il linoleum e il soffitto erano ancora scuri di macchie che non venivano via) si udì un altro grosso botto e i guardiani a gridare “oddio là ci sta quella ’ncinta”, e gli uomini a ringhiare “non pò èsse”, e quella incinta, dirottata lì poche settimane prima dal reparto calandre, era mia nonna, che era all’ottavo mese di mia zia, e lavorava ancora a contratto (sarebbe stata licenziata tre giorni prima del parto, e riassunta pochi mesi dopo, perché allora, sapete, c’era il miracolo italiano e le cose andavano così): mia nonna restò immobile per mezz’ora senza più parole schiacciata lungo la parete lontana dalla macchina, salva per miracolo lei e la piccola che non si sapeva ancora se magari era un maschio (lei un po’ ci sperava).
Vorrei farvi parlare – non gliel’ho detto, ma penso accetterebbe – con il sindaco di Colleferro, che come e più di altri predecessori per anni ha lavorato con la sua gente per elaborare quella dolorosa memoria di lutti, trasferendo la sede del Consiglio nell’antica Direzione della fabbrica (“con auspici di pace, sviluppo della conoscenza e progresso” dice la targa di bronzo), indicando la riconversione a fini pacifici di alcuni stabilimenti verso l’industria aerospaziale (oggi la Biblioteca Comunale sorge in piazza degli Astronauti), e celebrando il fatto che i pezzi prodotti da Avio proprio in quegli stabilimenti di Colleferro sono serviti per i razzi Ariane fiore all’occhiello della sperimentazione europea nel lancio di satelliti e stazioni spaziali: però ora mi par di capire, ditemelo voi, che quella sfida la stiamo perdendo visto che per andare su Marte ci dovremo tutti affidare a Musk, a Bezos e al business degli americani e noi, ditemelo voi, siamo gente semplice, ci dovremo accontentare delle munizioni da sparare quaggiù.
Più d’ogni altra cosa, però, egregi Presidenti, vorrei farvi parlare con mia nonna, che al Fulminato, a vezzeggiare spolette grandi come un polpastrello e capaci di far saltare in aria un palazzo, ci rimase pochi mesi, per essere poi destinata a un altro stabilimento, dove si producevano tessuti sintetici; ella visse con sollievo l’arretramento (mai totale, però, a Colleferro) nella produzione di munizioni ed esplosivi, l’unica filiera che le aveva aperto subito le porte quando a 25 anni per via di un debito non suo dovette lasciare il paesello natío per andare a lavorare in fabbrica. Perché, vedete, mia nonna è del 1928, la guerra l’ha vissuta sulla sua pelle assistendo da adolescente sfollata in campagna alla ritirata di Cassino, e già da allora quando vide un tappeto di giovani tedeschi sventrati, e poi quando aderì all’Azione Cattolica, e poi quando nel giugno ’46 fece campagna al paesello per mandare le donne riluttanti a votare, e più ancora, anni dopo, quando entrò da laica nel Terz’Ordine Francescano, mia nonna, dico, ha sempre pensato che la pace è la cosa più importante del mondo, e che le armi, come la metti la metti, non la aiutano mai. Vorrei che parlaste con lei – io non sono mai riuscito a farlo perché penso che poi mi verrebbe da piangere, ma voi parlate con i potenti, saprete prendere una signora che ha la quinta elementare – del giorno in cui, senza dire niente a nessuno, ha iniziato a donare ogni mese un po’ dei suoi esigui risparmi a un’associazione che si occupa dei bambini mutilati dalle mine in posti che lei non ha mai visto, né mai vedrà. Curiosando tra i suoi bollettini e i suoi breviari, mi sono fatto l’idea che sia stato il giorno in cui, sarà stato vent’anni fa, sentì alla radio una notizia secondo cui le spolette delle mine su cui saltano gli arti di tanti bimbi dell’Iraq e dell’Afghanistan, avevano il marchio “made in Italy”, e venivano da Colleferro. Ecco, vorrei che parlaste con lei di cosa ha pensato in quel preciso istante.
E poi, sul futuro dell’industria europea, deciderete secondo coscienza.

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