giovedì 30 novembre 2023

La celebre intervista

 

Nel giorno della dipartita di Kissinger, credo sia utile rileggere una delle più famose interviste concessa ad Oriana Fallaci, l'incontro che lo stesso Kissinger definì "La cosa più stupida della mia vita." 

L’intervista di Oriana Fallaci a Kissinger: «La guerra è virilità, io mi sento un cowboy. Il potere? Uno strumento per fare cose splendide»

di Oriana Fallaci

Quest’uomo troppo famoso, troppo importante, troppo fortunato, che chiamavano Superman, Superstar, Superkraut, e imbastiva alleanze paradossali, raggiungeva accordi impossibili, teneva il mondo col fiato sospeso come se il mondo fosse la sua scolaresca di Harvard. Questo personaggio incredibile, inspiegabile, in fondo assurdo, che s’incontrava con Mao Tse-tung quando voleva, entrava nel Cremlino quando ne aveva voglia, svegliava il presidente degli Stati Uniti e gli entrava in camera quando lo riteneva opportuno. Questo cinquantenne con gli occhiali a stanghetta, dinanzi al quale James Bond diventava un’invenzione priva di pepe. Lui non sparava, non faceva a pugni, non saltava da automobili in corsa come James Bond, però consigliava le guerre, finiva le guerre, pretendeva di cambiare il nostro destino e magari lo cambiava. Ma insomma, chi era questo Henry Kissinger? [...]

La sua biografia è oggetto di ricerche che rasentano il culto e tutti si sa che è nato a Furth, in Germania, nel 1923, figlio di Luis Kissinger, insegnante in una scuola media, e di Paula Kissinger, massaia . Si sa che la sua famiglia è ebrea, che quattordici dei suoi parenti morirono nei campi di concentramento, che insieme al padre e alla madre e al fratello Walter fuggì nel 1938 a Londra e poi a New York, che a quel tempo aveva quindici anni e si chiamava Heinz, mica Henry, e non sapeva una parola d’inglese. Ma lo imparò molto presto. Mentre il padre faceva l’impiegato in un ufficio postale e la madre apriva un negozio di pasticceria, studiò così bene da essere ammesso a Harvard e laurearsi a pieni voti con una tesi su Spengler, Toynbee e Kant, poi diventarvi professore. Si sa che a ventun anni fu soldato in Germania, dove era con un gruppo di GI selezionati da un test e giudicati così intelligenti-da-sfiorare-il-genio, che gli affidarono per questo (e malgrado la giovane età) l’incarico di organizzare il governo di Krefeld, una città tedesca rimasta senza governo. Infatti a Krefeld fiorì la sua passione per la politica: una passione che avrebbe appagato diventando consigliere di Kennedy, di Johnson, e poi assistente di Nixon. Non a caso potevi considerarlo il secondo uomo più potente d’America. Sebbene alcuni sostenessero che era molto più, come dimostrava la battuta che al tempo della mia intervista circolava a Washington: «Pensa cosa succederebbe se morisse Kissinger. Richard Nixon diventerebbe presidente degli Stati Uniti...».


Quindi l’uomo restava un mistero, come il suo successo senza paragoni. E una ragione di tale mistero era che avvicinarlo, comprenderlo era difficilissimo: di interviste individuali non ne dava, parlava solo alle conferenze-stampa indette dalla presidenza. Così, giuro, non ho ancora capito perché accettasse di vedere me, appena tre giorni dopo aver ricevuto una mia lettera priva di illusioni. Lui dice che fu per la mia intervista col generale Giap, fatta ad Hanoi nel febbraio del sessantanove. Può darsi. Però resta il fatto che dopo lo straordinario «sì» cambiò idea e decise di vedermi a una condizione: non dirmi nulla. Durante l’incontro, a parlare sarei stata io e da quel che avrei detto egli avrebbe deciso se darmi l’intervista o no. Ammesso che ne trovasse il tempo. Il che avvenne davvero alla Casa Bianca, giovedì 2 novembre 1972, quando lo vidi giungere tutto affannato, senza sorrisi, e mi disse: «Good morning, miss Fallaci». Poi, sempre senza sorrisi, mi fece entrare nel suo studio elegante e pieno di libri, telefoni, fogli, quadri astratti, fotografie di Nixon. Qui mi dimenticò mettendosi a leggere, le spalle voltate, un lungo dattiloscritto. Era un po’ imbarazzante restarmene lì in mezzo alla stanza, mentre lui leggeva il dattiloscritto e mi voltava le spalle. Era anche sciocco, villano da parte sua. Però la cosa mi permise di studiarlo prima che lui studiasse me.

E non solo per scoprire che non è seducente, così basso e tarchiato e oppresso da quel testone di ariete: per scoprire, ecco, che non è affatto disinvolto, né sicuro di sé. Prima di affrontare qualcuno, egli ha bisogno di prendere tempo e proteggersi con la sua autorità. [...] Al venticinquesimo minuto circa, decise che avevo passato gli esami. Forse mi avrebbe dato l’intervista. [...] E alle dieci di sabato 4 novembre ero di nuovo alla Casa Bianca. Alle dieci e mezzo entravo di nuovo nel suo ufficio per incominciare l’intervista più scomoda, forse, che abbia mai fatto. Dio che pena! Ogni dieci minuti lo squillo del telefono ci interrompeva, ed era Nixon che voleva qualcosa, chiedeva qualcosa, petulante, fastidioso come un bambino che non sa stare lontano dalla sua mamma. Kissinger rispondeva con premura, ossequioso, e il colloquio con me si interrompeva: rendendo ancor più difficile lo sforzo di capirlo un poco. Poi, proprio sul più bello, mentre egli mi denunciava l’essenza inafferrabile del suo personaggio, uno dei telefoni squillò di nuovo. Era di nuovo Nixon e: poteva il dottor Kissinger passare un attimo da lui? Certo, signor presidente. Scattò in piedi, mi disse di aspettarlo, avrebbe cercato di darmi ancora un po’ di tempo, uscì. E così si concluse il mio incontro. [...]

Dio, che uomo di ghiaccio. Per tutta l’intervista non mutò mai quella espressione senza espressione, quello sguardo ironico o duro, e non alterò mai il tono di quella voce monotona, triste, sempre uguale. L’ago del registratore si sposta quando una parola è pronunciata in tono più alto o più basso. Con lui restò sempre fermo e, più di una volta, dovetti controllare: accertarmi che il magnetofono funzionasse bene. Sai il rumore ossessionante, martellante, della pioggia che cade sul tetto? La sua voce era così. E, in fondo anche i suoi pensieri: mai turbati da un desiderio di fantasia, da un disegno di bizzarria, da una tentazione di errore. Tutto era calcolato in lui, controllato come nel volo di un aereo guidato dal pilota automatico. [...] Kissinger ha i nervi e il cervello di un giocatore di scacchi. Naturalmente troverai tesi che prendono in considerazione altri lati del suo personaggio. Ad esempio, il fatto che sia inequivocabilmente un ebreo e irrimediabilmente un tedesco. Ad esempio il fatto che, come ebreo e come tedesco, trapiantato in un Paese che guarda ancora con sospetto agli ebrei e ai tedeschi, egli si porti addosso un mucchio di nodi, contraddizioni, risentimenti, e forse di umanità nascosta. Sì, ho detto umanità. Tipi simili, a volte, ne hanno: con uno sforzo, puoi trovare in Kissinger gli elementi del personaggio che s’innamora di Marlene Dietrich nel film «L’angelo azzurro». E si perde per lei. L’intervista con Kissinger sollevò uno scalpore che mi stupì quanto le sue conseguenze. Evidentemente avevo sottovalutato il personaggio e l’interesse che fioriva intorno a ogni sua parola. Evidentemente avevo minimizzato l’importanza di quella insopportabile ora con lui. Infatti, subito, essa divenne il discorso del giorno. E, presto, cominciò a circolare la voce che Nixon fosse inferocito con Henry, che rifiutasse perciò di vederlo, che invano Henry gli telefonasse, gli chiedesse udienza, si recasse a cercarlo nella residenza di San Clemente. I cancelli di San Clemente restavano chiusi, l’udienza non veniva concessa, il telefono non dava risposta perché il presidente continuava a negarsi. Il presidente, tra l’altro, non perdonava a Henry ciò che Henry m’aveva detto sulla ragione del suo successo: «È che ho sempre agito da solo. Agli americani ciò piace immensamente. Agli americani piace il cowboy che guida la carovana andando avanti da solo sul suo cavallo, il cowboy che entra tutto solo nella città, nel villaggio, col suo cavallo e basta...». Anche la stampa lo criticava per questo.

La stampa era sempre stata generosa con Kissinger, spietata con Nixon. In questo caso, però, le parti s’eran rovesciate e ogni giornalista aveva condannato la presunzione, o perlomeno l’imprudenza, di un simile discorso. Come osava Henry Kissinger assumersi l’intero merito di ciò che otteneva quale inviato di Nixon? Come osava relegare Nixon al ruolo di spettatore? Dov’era il presidente degli Stati Uniti quando il professorino entrava nel villaggio per sistemare le cose con lo stile di Henry Fonda nei film western? Sui giornali più crudeli apparvero vignette dove Kissinger, vestito da cowboy, cavalcava verso un saloon. Su altri apparve la fotografia di Henry Fonda con gli speroni e il cappellone, la didascalia «Henry, il cowboy solitario».

Sicché, esasperato, Kissinger si lasciò interrogare da un cronista e disse che avermi ricevuto era stata «la cosa più stupida della sua vita ». Poi dichiarò che avevo storpiato le sue risposte, distorto il suo pensiero, ricamato sulle sue parole, e lo fece in modo così goffo che mi arrabbiai più di Nixon e passai al contrattacco. Gli inviai un telegramma a Parigi, dove si trovava in quei giorni, e in sostanza gli chiesi se fosse un uomo d’onore o un pagliaccio. Lo minacciai anche di rendere pubblica la registrazione dell’intervista. Non dimenticasse, il signor Kissinger, che essa era stata incisa su nastro e che tal nastro era a disposizione di tutti per rinfrescargli la memoria e la correttezza. Il litigio durò quasi due mesi, per l’infelicità di entrambi e specialmente mia. Non ne potevo più di Henry Kissinger, il suo nome bastava a rendermi nervosa. Lo detestavo a un punto tale che non riuscivo neppure a rendermi conto che il poveretto non aveva avuto altra scelta fuorché quella di gettare la colpa su me. Ma, certo, sarebbe inesatto dire che in quel periodo gli augurai ogni bene, ogni felicità.

Il fatto è che i miei anatemi non hanno forza. Ben presto Nixon smise di tenere il muso al suo Henry e i due tornarono a tubare come due colombe. Il loro armistizio giunse in porto.[...] A Stoccolma, gli dettero perfino il Premio Nobel per la Pace. Povero Nobel. Povera pace. [...]

La Guerra

Parliamo della guerra, dottor Kissinger. Lei non è pacifsta, vero?

«No, non credo proprio di esserlo. Anche se rispetto i pacifisti genuini, non sono d’accordo con nessun pacifista e in particolare coi pacifisti a metà: sa, quelli che sono pacifisti da una parte e tutt’altro che pacifisti dall’altra. I soli pacifisti con cui accetto di parlare sono coloro che sopportano fino in fondo le conseguenze della non-violenza. Ma anche con loro ci parlo volentieri solo per dirgli che saranno schiacciati dalla volontà dei più forti e che il loro pacifismo può portarli soltanto a orribili sofferenze. La guerra non è un’astrazione, è qualcosa che dipende dalle condizioni. La guerra contro Hitler, ad esempio, era necessaria. Con ciò non voglio dire che la guerra sia di per sé necessaria, che le nazioni debbono farla per mantenere la loro virilità. Voglio dire che esistono principii per i quali le nazioni devono essere preparate a combattere».

Il Vietnam

E della guerra in Vietnam cosa ha da dirmi, dottor Kissinger?

«Lei non è mai stato contro la guerra in Vietnam, mi pare. Come avrei potuto? Neanche prima di avere la posizione che ho oggi... No, non sono mai stato contro la guerra in Vietnam».

Ma non trova che Schlesinger abbia ragione quando dice che la guerra in Vietnam è riuscita solo a provare come mezzo milione di americani con tutta la loro tecnologia fossero incapaci di sconfiggere uomini male armati e vestiti di un pigiama nero?

«Questo è un altro problema. Se è un problema che la guerra in Vietnam sia stata necessaria, una guerra giusta, piuttosto che... Giudizi del genere dipendono dalla posizione che uno assume quando il paese è già coinvolto nella guerra e non resta che da concepire il metodo per tirarlo fuori. Dopo tutto, il mio e il nostro ruolo è stato quello di ridurre sempre di più la misura in cui l’America era coinvolta nella guerra, per poi finire la guerra. In ultima analisi, la storia dirà chi ha fatto di più: se coloro che hanno lavorato criticando e basta o noi che abbiamo tentato di ridurre la guerra e poi l’abbiamo finita. Sì, il giudizio spetta ai posteri. Quando un paese è coinvolto in una guerra non basta dire: bisogna finirla. Bisogna finirla con criterio. E questo è ben diverso dal dire che entrare in quella guerra fu giusto».

Ma non trova, dottor Kissinger, che sia stata una guerra inutile?

«Su questo posso essere d’accordo. Ma non dimentichiamo che la ragione per cui entrammo in quella guerra fu per impedire che il Sud fosse mangiato dal Nord, fu per permettere che il Sud restasse al Sud. Naturalmente con ciò non voglio dire che il nostro obiettivo fosse solo questo... Fu anche qualcosa di più... Ma oggi io non sono nella posizione di giudicare se la guerra in Vietnam sia stata giusta o no, se entrarci sia stato utile o inutile. Ma stiamo ancora parlando del Vietnam?»

Sì. E, sempre parlando del Vietnam, crede di poter dire che questi negoziati sono stati e sono l’impresa più importante della sua carriera e magari della sua vita?

«Sono stati l’impresa più difficile. Spesso anche la più dolorosa. Ma forse non è neanche giusto definirli l’impresa più difficile: è più esatto dire che sono stati l’impresa più dolorosa. Perché mi hanno coinvolto emotivamente. Vede, avvicinarsi alla Cina è stato un lavoro intellettualmente difficile ma non emotivamente difficile. La pace in Vietnam invece è stato un lavoro emotivamente difficile. Quanto a definire quei negoziati come la cosa più importante che ho fatto... No, ciò che io volevo raggiungere non era soltanto la pace in Vietnam: erano tre cose. Quest’accordo, l’avvicinamento alla Cina e un nuovo rapporto con l’Unione Sovietica. Io ho sempre tenuto molto al problema di un rapporto nuovo con l’Unione Sovietica. Direi non meno che all’avvicinamento alla Cina e alla fine della guerra in Vietnam». [...]

Il potere

Il potere è sempre seducente. Dottor Kissinger, in quale misura il potere l’affascina? Cerchi d’esser sincero.

«Lo sarò. Vede, quando si ha in mano il potere, e quando lo si ha in mano per un lungo periodo di tempo, si finisce per considerarlo come qualcosa che ci spetta. Io sono certo che, quando lascerò questo posto, avvertirò la mancanza del potere. Tuttavia il potere come strumento fine a se stesso non ha alcun fascino sopra di me. Io non mi sveglio ogni mattina dicendo perbacco, non è straordinario che possa avere a mia disposizione un aereo, che un’automobile con l’autista mi attenda dinanzi alla porta? Ma chi l’avrebbe detto che sarebbe stato possibile? No, un discorso simile non mi interessa».

Perché in alcuni momenti, ascoltandola, vien fatto di chiedersi non quanto lei abbia influenzato il presidente degli Stati Uniti ma quanto Machiavelli abbia influenzato lei.

«In nessun modo. V’è davvero molto poco, nel mondo contemporaneo, che si possa accettare o usare di Machiavelli. In Machiavelli io trovo interessante soltanto il suo modo di considerare la volontà del principe. Interessante, ma non al punto di influenzarmi. Se vuol sapere chi mi ha influenzato di più, le rispondo coi nomi di due filosofi: Spinoza e Kant. Sicché è curioso che lei scelga di associarmi a Machiavelli. La gente mi associa piuttosto al nome di Metternich. Il che addirittura è infantile. Su Metternich io ho scritto soltanto un libro che doveva essere l’inizio di una lunga serie di libri sulla costruzione e la disintegrazione dell’ordine internazionale nel diciannovesimo secolo. Era una serie che doveva concludersi con la prima guerra mondiale. Tutto qui. Non può esserci nulla in comune tra me e Metternich. Lui era cancelliere e ministro degli Esteri in un periodo in cui, dal centro dell’Europa, ci volevano tre settimane per andare da un continente all’altro. Era cancelliere e ministro degli Esteri in un periodo in cui le guerre erano fatte da militari di professione e la diplomazia era nelle mani degli aristocratici. Come si può paragonare ciò col mondo d’oggi, un mondo dove non esiste nessun gruppo omogeneo di leader, nessuna situazione interna omogenea, nessuna realtà culturale omogenea?»

La popolarità

Dottor Kissinger, ma come spiega l’incredibile divismo che la distingue, come spiega il fatto d’essere quasi più famoso e popolare di un presidente? Ha una tesi su questa faccenda?

«Sì, ma non gliela dirò. Perché non coincide con la tesi dei più. La tesi dell’intelligenza ad esempio. L’intelligenza non è poi così importante nell’esercizio del potere e, spesso, addirittura non serve. Allo stesso modo di un capo di Stato, un tipo che fa il mio mestiere non ha bisogno d’essere troppo intelligente. La mia tesi è completamente diversa ma, le ripeto, non gliela dirò. Perché dovrei, finché sono nel mezzo del mio lavoro? Mi dica piuttosto la sua. Sono certo che anche lei ha una tesi sui motivi della mia popolarità».

Non ne sono certa, dottor Kissinger. Sto cercandola, una tesi, attraverso questa intervista. E non la trovo. Suppongo che alla radice di tutto vi sia il successo. Voglio dire: come a un giocatore di scacchi, le sono andate bene due o tre mosse. La Cina anzitutto. Alla gente piace chi gioca a scacchi e si mangia il re.

«Sì, la Cina è stata un elemento importantissimo nella meccanica del mio successo. E tuttavia il punto principale non è quello. Il punto principale... Ma sì, glielo dirò. Tanto che me ne importa? Il punto principale nasce dal fatto che io abbia sempre agito da solo. Agli americani ciò piace immensamente. Agli americani piace il cowboy che guida la carovana andando avanti da solo sul suo cavallo, il cowboy che entra tutto solo nella città, nel villaggio, col suo cavallo e basta. Magari senza neanche una rivoltella perché lui non spara. Lui agisce e basta: dirigendosi nel posto giusto al momento giusto. Insomma, un western».

Ho capito. Lei si vede come una specie di Henry Fonda disarmato e pronto a menar botte per onesti ideali. Solitario, coraggioso...

«Non necessariamente coraggioso. Infatti a questo cowboy non serve essere coraggioso. Gli basta e gli serve essere solo: dimostrare agli altri che entra in città e fa tutto da solo. Questo personaggio romantico, stupefacente, mi si addice proprio perché esser solo ha sempre fatto parte del mio stile o, se preferisce, della mia tecnica. Insieme all’indipendenza. Oh, quella è molto importante in me e per me. Infine, la convinzione. Io sono sempre convinto di dover fare quello che faccio. E la gente lo sente, ci crede. E io ci tengo al fatto che mi creda: quando si commuove o si conquista qualcuno, non lo si deve imbrogliare. Non si può nemmeno calcolare e basta. Alcuni credono che io progetti con cura quali saranno le conseguenze, sul pubblico, di una mia iniziativa o di una mia fatica. Credono che tale preoccupazione non abbandoni la mia mente. Invece le conseguenze di ciò che faccio, voglio dire il giudizio del pubblico, non mi hanno mai tormentato. Io non chiedo popolarità, non cerco popolarità. Anzi, se vuol proprio saperlo, non me ne importa nulla della popolarità. Non ho affatto paura di perdere il mio pubblico, posso permettermi di dire ciò che penso. Sto alludendo alla genuinità che v’è in me. Se io mi lasciassi turbare dalle reazioni del pubblico, se mi muovessi spinto soltanto da una tecnica calcolata, non combinerei nulla. Guardi gli attori: quelli veramente buoni non si servono solo della tecnica. Recitano allo stesso tempo seguendo una tecnica e la loro convinzione. Sono genuini come me. Non dico che tutto ciò debba durare per sempre. Anzi, può evaporare con la stessa velocità con cui è venuto. Tuttavia per ora c’è».

Sta forse dicendomi che lei è un uomo spontaneo, dottor Kissinger? Mio Dio: se metto da parte Machiavelli, il primo personaggio con cui mi viene naturale associarla è quello di un matematico freddo, controllato fino allo spasimo. Mi sbaglierò, ma lei è un uomo molto freddo, dottor Kissinger.

«Nella tattica, non nella strategia. Infatti credo più nei rapporti umani che nelle idee. Uso le idee ma ho bisogno di rapporti umani, come ho dimostrato nel mio lavoro. Ciò che mi è successo, in fondo, non mi è successo per caso? Perbacco, io ero un professore totalmente sconosciuto. Come potevo dire a me stesso: “Ora manovro le cose in modo da diventare internazionalmente famoso”? Sarebbe stata pura follia. Volevo essere dove accadono le cose, sì, ma non ho mai pagato un prezzo per esserci. Non ho mai fatto concessioni. Mi son sempre lasciato guidare dalle decisioni spontanee. Uno potrebbe dire: allora è successo perché doveva succedere. Si dice sempre così quando le cose sono successe. Non si dice mai così delle cose che non succedono: non è mai stata scritta la storia delle cose non successe. In un certo senso, però, io sono un fatalista. Credo nel destino. Sono convinto, sì, che ci si debba battere per raggiungere uno scopo. Ma credo anche che vi siano limiti alla lotta che l’uomo può fare per raggiungere uno scopo».

L’ho capito, dottor Kissinger. Non ho mai intervistato qualcuno che sfuggisse come lei alle domande e alle definizioni precise, nessuno che si difendesse come lei dall’altrui tentativo di penetrare la sua personalità. È timido, lei, dottor Kissinger?

«Sì. Abbastanza. Però in compenso credo d’essere assai equilibrato. Vede, c’è chi mi dipinge come un personaggio tormentato, misterioso, e chi mi dipinge come un tipo quasi allegro che sorride sempre, ride sempre. Entrambe le immagini sono inesatte. Io non sono né l’uno né l’altro. Sono... Non le dirò cosa sono. Non lo dirò mai a nessuno».

(Washington, novembre 1972)


Se ne è andato




È stato un compendio di ciò che chiamiamo comunemente politica: tessitore del golpe cileno che portò al potere quel bastardo di Pinochet, premio Nobel per la pace, non si capisce ancora di quale tipologia. Abile manovratore di scacchiere, ce lo fanno passare come abile, scaltro e preveggente: tutto quanto non fa Politica.

Commenti esterni

 


L'Amaca

 

Leghisti, moderati ma muti
DI MICHELE SERRA
Ogni volta che si legge dei malumori dei “leghisti moderati” o dei “leghisti della prima ora” nei confronti del Salvini (che ha dimezzato i voti senza perdere un solo grammo della sua leadership), ci si fa sempre la stessa domanda: ma in tutti questi anni questi signori, vedendo il loro partito, secondo il fondatore Bossi nato “antifascista”, rappresentare, specie in Europa, l’estrema destra, passando da Carlo Cattaneo a Marine Le Pen; scoprendo che il federalismo, con il quale ci hanno fatto una capoccia così per trent’anni, ha lasciato il posto al nazionalismo più esagitato; misurando la faziosità ideologica e l’aggressività personale del leader e dei suoi social, che non c’entrano nulla con il presunto pragmatismo “padano” sbandierato dagli amministratori leghisti, e c’entrano molto con l’intimidazione politica nella quale il Salvini eccelle; ebbene, che cosa hanno detto e fatto questi signori, come atto politico riconoscibile, per evitare che il loro partito diventasse un’appendice del nuovo fascismo europeo?
Del Salvini tutto si può dire, tranne che sia ambiguo. È il più schiettamente “nero” tra i politici italiani, tanto da far sembrare grigi molti meloniani. Lo è anche ufficialmente, in virtù dell’alleanza, del tutto trasparente, con Le Pen. Si prova imbarazzo per i vari governatori locali (Zaia e Fedriga, per fare nomi) che non hanno emesso neppure un belato contro il salvinismo, rendendo lecito pensare, a noi antileghisti della prima ora, che le radici di quel movimento non fossero per nulla democratiche. Ma antidemocratiche e intolleranti. Altrimenti, qualcuno avrebbe per lo meno invocato un congresso, o guidato la rivolta. Macché.
Inchiodati alle loro poltrone, come direbbe un leghista.

Russano in pochi

 

La ritirata di Russia
di Marco Travaglio
Martedì Repubblica ha intervistato in pompa magna Anna Netrebko, “regina della lirica, soprano russa senza confronti, voce da brivido, vigore espressivo, piglio da diva, milioni di follower e carisma ammaliante”, “scoperta dal geniale direttore Valery Gergiev, vicino a Putin”. A dieci giorni dalla prima della Scala che la vedrà mattatrice nel Don Carlo di Verdi, si è concessa in “esclusiva” a Rep “a patto di non citare quei temi” (la guerra in Ucraina). E Rep ha subito accettato: “Bello prendersi una vacanza dai fuochi e affrontare il ritratto del suo personaggio verdiano”. Non bello: bellissimo. Abbiamo atteso 24 ore prima di scriverne per dare modo ai Riotta, Mieli, Polito, Cappellini, Severgnini, Folli, Grasso, Sarzanini, Guerzoni, Iacoboni e gli altri atlantisti nostrani di infilare Rep in una nuova lista di putiniani servi della cyberpropaganda russa. Invece tutti zitti e Mosca.
Sembra passato un secolo, non 18 mesi, da quando la “regina della lirica” dovette ritirarsi dalla Scala perché Sala e il teatro avevano cacciato il “geniale direttore” Gergiev per putinismo molesto. Altri teatri cancellavano i balletti di Tchaikovsky e altri musicisti protoputiniani. La Fiera del libro per ragazzi di Bologna bandiva editori e autori russi. Il Festival della fotografia di Reggio Emilia rimandava indietro il russo Gronsky, così putiniano che appena rientrò a Mosca sfilò in un corteo contro la guerra di Putin e fu arrestato dalla polizia di Putin. Gli atleti russi, olimpici e pure paralimpici, erano banditi dalle gare o costretti a parteciparvi senza bandiere. La Bicocca, dopo approfondite ricerche, scoprì che era russo anche tal Dostoevskij, sedicente scrittore che, con Tolstoj, Cechov, Puskin, Gogol’ e altri putribondi figuri, minacciava di diffondere la propaganda putiniana e sospese il seminario di Paolo Nori sulle sue opere. Mezzo mondo cancellò i film russi e i corsi di russo. Le fiere feline squalificarono i gatti russi per evitare miagolii putinisti. Il concorso Albero dell’Anno espulse la quercia di Turgenev (pure lui proditoriamente russo). Banditi anche gli intellettuali e artisti ucraini che avevano osato nascere o esibirsi in Donbass o in Crimea. La delegazione russa fu estromessa dalle celebrazioni per la liberazione di Auschwitz, notoriamente liberato non dall’Armata Rossa, ma dagli ucraini e dagli americani (come ne La vita è bella di Benigni). Il tutto fra le standing ovation della stampa atlantista. La stessa che ora copia Orsini, relega l’eroico Zelensky nei trafiletti, invoca un compromesso Mosca-Kiev prima che si noti la disfatta Nato e stende tappeti rossi alla regina putiniana della lirica, che si esibirà non a caso dinanzi a La Russa. Di questo passo c’è pure il rischio che riabilitino quel Dostoevskij.

mercoledì 29 novembre 2023

Schiaffo a Roma


Schiaffo Capitale 

di Corrado Augias

In tempi normali un risultato come questo sarebbe stato inconcepibile. Esposizione universale 2030, candidate tre capitali o importanti città di Arabia Saudita, Corea del Sud, Italia - cioè Roma. Le persone ingenue non avevano dubbi sull’esito: Roma, naturalmente anche se l’Arabia Saudita, con Riad, veniva data da più parti per favorita. Le persone più avvertite su ciò che si sta muovendo nel mondo puntavano su un risultato meno duro: ballottaggio tra Roma e Riad, con esclusione dunque della città sudcoreana, famosa per un tempio, un mercato del pesce, alcune belle spiagge. Nulla di nemmeno confrontabile con Roma. Non è andata così. Riad, capitale e grande polo finanziario dell’Arabia Saudita, ha stravinto con 119 voti. Seconda Busan, 29. Ultima Roma 17 (diciassette) voti.

Che io ricordi è la più grave umiliazione che Roma, e l’Italia, abbiano avuto da molti anni a questa parte. Credo che si debba risalire al periodo che seguì immediatamente il fascismo per trovare un affronto equivalente, erano anni quelli in cui la nobile figura di un presidente del Consiglio come Alcide De Gasperi non riusciva a trovare alcun ascolto nei consessi internazionali. È probabile che stia mescolando un po’ emozionalmente le carte di tavoli diversi, ne sono consapevole, ma quello che è accaduto a Issy-les-Moulineaux (dove s’è svolta la votazione) lascia sgomenti. Per attenuare la botta cerco di elencare le possibili attenuanti all’origine dello smacco. Riad dispone di immensi capitali capaci di sedurre, attrarre, compiacere (giro intorno ad un innominabile centro) chiunque, a cominciare dal senatore Matteo Renzi che a Riad è di casa, di Roberto Mancini che lì è velocemente approdato, o di Cristiano Ronaldo che dell’operazione Expo è stato pagatissimo sponsor. L’abbondanza di denaro è tale da aver spinto i sauditi alla sfrontatezza di pagare fior di milioni per avere il marchio della propria pletorica “Riyad season” sulle maglie della città concorrente, cioè Roma. Uno sberleffo preventivo, lo potremmo chiamare a cose fatte. Non credo però che il denaro sia tutto. Un altro elemento in gioco è che il fascino di una città come Roma, che negli anni Sessanta imponeva a livello mondiale il suo nome nella moda e nel cinema, è ormai al tramonto (temporaneamente, spero).
La città è in declino compreso il suo centro storico, i romani lo sanno, i visitatori se ne rendono presto conto. Non si vive di solo Colosseo anche se si toglie di mezzo l’arroganza di gladiatori e centurioni che infastidiscono o taglieggiano i turisti. A Roma basterebbe mettere in piedi un museo con la storia animata della città per farne un’attrazione di potenza inimmaginabile. Non esiste altra città al mondo che abbia una storia di quasi trenta secoli, dalla città arcaica all’impero di papi. Qualche amministrazione ha tentato di lanciare l’idea, subito diventata una palloncino sgonfio. Per di più, ecco un ulteriore elemento, gli equilibri del mondo si stanno spostando verso nuove terre e nuove città, compresa una capitale inverosimile come Riad, con la sua artificiosità tirata su a suon di petrodollari. Agli occhi di molti ormai più attraente di una vecchia capitale del mondo che fu. Anche al netto di queste possibili attenuanti, lo schiaffo di Issy-les-Moulineaux resta bruciante e qui entra in ballo non più la capitale ma l’intero Paese, cioè l’Italia e il governo che la regge. Abbiamo un ministero del Turismo affidato a una donna inesperta e assai discussa, un ministero dell’Agricoltura con la pomposa aggiunta della “sovranità alimentare” (qualunque cosa voglia dire) affidato ad un uomo poco accorto, una presidente del Consiglio la quale confessa che quando il suo ufficio chiama l’Eliseo a Parigi non rispondono nemmeno al telefono. Non voglio dare prova di particolare accanimento antigovernativo, constato solo che il nostro prestigio, dopo la breve fiammata del governo Draghi, è precipitato a livelli molto bassi nella considerazione globale. Sull’Italia in altre parole si può infierire, perché riempirsi la bocca con la parola “nazione” serve a poco quando non si hanno gli strumenti pratici per sostenerla davvero “la nazione”, quando ci si nutre di sogni (come il famoso Ponte), smarriti in una lite continua alla disperata ricerca di qualche voto in più.

Come dargli torto?




Riflessione

 


Eppure...

 



Eppure i preparatori atletici del Milan (qui in foto) smentiscono che gli infortuni dipendano da errori di preparazione…

Scoglio Nati

 

Concessioni. Al governo è riuscito un miracolo: più spiagge per tutti
di Alessandro Robecchi
Non potendo cambiare la Storia – nonostante innumerevoli tentativi – cambiare la geografia deve essere sembrata un’idea entusiasmante al governo della destra italiana. E siccome (da anni) si discute di come regolamentare un po’ meno vergognosamente le concessioni balneari italiane con l’applicazione della famigerata direttiva Bolkestein, è stata istituita una speciale commissione con un compito titanico: contare i chilometri (lineari e quadrati) delle coste italiane. L’obiettivo: dimostrare che le concessioni balneari in Italia (traduco: le spiagge privatizzate cedute dallo Stato per due cipolle e un pomodoro a fronte di ottimi guadagni) non sono poi così tante rispetto al totale dei metri di terra che si affacciano sul mare. E infatti la commissione ha fatto il suo lavoro con il metro in mano e… colpo di scena: le coste italiane sono passate in pochi mesi da circa 8.000 chilometri a più di 11.000, 3.000 chilometri di coste in più, che manco i pani e i pesci del famoso miracolo.
In pratica, i geometri del governo hanno contato aree urbane, il perimetro dei Faraglioni, gli scogli, i frangiflutti, le spiaggette di due metri incastrate tra promontori a strapiombo, le scogliere scoscese. Vai al mare? Portati una picozza e i chiodi da roccia. Tutto quello che affaccia sulle onde fa il totale, e gira che ti rigira, giocando su chilometri quadrati oltre che su quelli lineari, è saltato fuori – vedi a volte i miracoli – che le spiagge date in concessione per turismo sarebbero il 19 per cento dei terreni demaniali anziché il 65. È un po’ come quando si contano i disoccupati che, per dire che sono pochi, vengono calcolati in modo assurdo e risulta occupatissimo anche chi ha lavorato un’oretta a settimana: scienza statistica applicata all’ideologia.
Va bene, allora, abbiamo più accessi al mare di quanti ne abbiamo mai conosciuti, hurrà! Quindi, siamo lieti di dare una buona notizia a chi quest’estate vorrà andare a fare il bagno senza rompere tanto i coglioni al libero mercato e senza svenarsi: potrà recarsi in una zona industriale, una raffineria, un porto commerciale, un’area marina protetta, oppure nuotare fino a posti irraggiungibili, o piantare l’ombrellone su uno scoglio.
La Commissione europea, che i nostri eroi pensavano di inchiodare sul bagnasciuga come da antica tradizione, ha fatto un sonoro marameo, dopo essersi accorta che i calcoli includevano zone escluse dalla possibilità di sfruttamento turistico. Insomma, nonostante il fantasioso tentativo del genio italico, dall’Europa fanno sapere di non avere la sveglia al collo e di non essere così scemi come il nostro governo spererebbe con il suo trucchetto da magliari. E del resto, si può dire che la destra italiana, pur di non affrontare il tema delle concessioni e del malcontento dei balneari, suoi grandi elettori, le ha davvero provate tutte. Ancora si ricorda, ad esempio, la giaculatoria triste del ministro del Turismo (!) Santanchè, che a un incontro con Confesercenti, magnificando le spiagge private italiane (tipo quella di cui era azionista), denunciava il degrado di quelle pubbliche “piene di tossicodipendenti e rifiuti”.
Insomma, allegri! Se siete di quelli che lamentano, una volta arrivati in vacanza, che la spiaggia pubblica sia lunga qualche metro e quella a pagamento alcuni chilometri, avrete la vostra rivincita. Più spiagge per tutti: private quelle dove fare il bagno e sdraiarsi al sole, e pubbliche quelle dove potrete sedervi al tramonto e dire: “Ma guarda che bella raffineria!”.

Travaglio!

 


Il posto giusto

di Marco Travaglio 

Esperimento: prelevare un mafioso detenuto al 41-bis, bendarlo, portarlo a un dibattito in Parlamento senza dirgli dov’è e lasciarlo in ascolto.
“Mi raccontano di riunioni di magistrati che parlano di come fermarci. Siccome ne abbiamo viste di tutti i colori, mi aspetto ricomincino”. “Il pericolo è l’opposizione giudiziaria che ci ha sempre affossati”. “Dopo i casi Tortora, Mannino, Mori e la storia di centinaia di persone dal 1994 a oggi, si può nascondere come si è comportata una parte della magistratura?”. “Non se ne può più, ci vuole una riforma della giustizia”. “Siamo sotto attacco, arriveranno nuove inchieste”. “Se non facciamo qualcosa, verranno a prenderci uno per uno”. “Mi aspetto le solite inchieste a orologeria”. “Fanno politica con le indagini”. “Aveva ragione Silvio, i giudici sono pazzi, antropologicamente estranei alla razza umana: se fai quel mestiere devi essere mentalmente disturbato”. “Bisogna fargli il test psico-attitudinale”. “E dargli le pagelle come a scuola”. “Sì, ma il voto dobbiamo darglielo noi avvocati, così ci divertiamo”. “I magistrati sono un cancro da estirpare”. “Peggio della banda della Uno Bianca”. “Eversori, roba da Brigate rosse”. “Tangentopoli è stata una barbarie”. “Puro Terrore giacobino”. “Invece di inseguire teoremi su di noi, vadano a prendere i veri delinquenti”. “Io non ce l’ho con tutti i magistrati, solo con quelli che mi perseguitano”. “Si sono pure inventati la trattativa Stato-mafia”. “Rovinano il buon nome della Sicilia”. “E della Campania allora?”. “Ma pure della Calabria”. “Danneggiano l’economia e il Pil”. “Le tasse sono un pizzo di Stato”. “L’evasione di chi si vede chiedere il 40 o 50% del guadagno è un diritto naturale nel cuore degli uomini”. “Lasciamo in pace le partite Iva e diamo la caccia ai veri evasori”. “E basta con ’sti Pos e ’sti limiti ai contanti, io pago e incasso cash, mica siamo in Russia”. “Con la mafia bisogna convivere”. “Il Ponte sullo Stretto ce lo invidierà tutto il mondo”. “Basta controlli antimafia, rallentano gli appalti e i lavori”. “Non possiamo mica fare una gara per ogni appalto”. “Le intercettazioni violano la privacy e la Costituzione, sono un inutile spreco di denaro”. “Tanto i veri mafiosi non parlano al telefono”. “Bisogna abolire l’abuso d’ufficio”. “E il traffico di influenze illecite, allora?”. “La blocca-prescrizione di Bonafede è una bomba atomica”. “Bisogna ripristinare la prescrizione, che è una garanzia per tutti”. “O almeno tenerci l’improcedibilità”. “Pure questo Ranucci di Report ha scassato la minchia”. “Sì, ma pure ’sto Fatto Quotidiano”.
A questo punto il mafioso prova a indovinare dove si trova: “Avverto un clima familiare, sento aria di casa… Ci sono: è un summit di cosca?”. La risposta è esatta!

Gustatevelo!

 

Oltre a essere il mio attore preferito, è anche un grandissimo uomo! Bravo Bob!!!




L'Amaca

 

Lo smartphone più veloce del West
DI MICHELE SERRA
De Niro che dà del razzista a John Wayne (la sintesi è mia) non è solo una notizia.
È una gioia non da poco, per noi che siamo cresciuti amando il primo e detestando il secondo; ammirando l’America di De Niro, mal sopportando l’America di John Wayne (due paesi diversi, due mondi diversi: come la democrazia e la forza bruta).
La gioia aumenta, e di parecchio, se si considera il contesto. De Niro stava pronunciando il suo discorso alla consegna dei premi cinematografici Gotham, a New York. Gli organizzatori, senza avvertirlo, avevano tagliato il suo intervento, molto ostile nei confronti di Donald Trump (trattato da bugiardo e da imbroglione), molto empatico con i nativi americani e proprio per questo contro il cowboy Wayne. Insomma, un discorso molto politico e molto antirazzista.
Leggendolo sul “gobbo” elettronico, De Niro si è accorto che alcune parti, già all’inizio, erano state cancellate. Ha denunciato ai presenti il ridicolo tentativo di censura e sorridendo ha estratto il suo smartphone — come John Wayne estraeva la Colt — e ha ricominciato a leggere, daccapo, il testo originale: il suo.
Il pubblico (gente di cinema) ha applaudito non solo il discorso, ma anche la prontezza con la quale il vecchio Bob, ottantenne, ha ribaltato la situazione. Ha giustamente evitato di ringraziare gli organizzatori-censori (Gotham e la Apple) e si è chiesto «come possano avere osato fare questo». Il risultato è che tutto il mondo, anche chi dei premi Gotham se ne infischia, ora sa tutto della censura; e le parole di De Niro hanno avuto una diffusione infinitamente maggiore. Grazie allo smartphone più veloce del West. E alla stupidità dei censori.

Facendo finta di nulla!

 

IL PERSONAGGIO
La condanna di Verdini il banchiere in bancarotta che sussurrava ai potenti
DI LIRIO ABBATE
È un banchiere in bancarotta, che ha sempre avuto il pallino della politica. L’ex senatore Denis Verdini, 72 anni, toscano, a furia di fare affari però è finito prima in carcere — e poi ai domiciliari — per due crac milionari. Proprio ieri la Cassazione gli ha confermato la seconda condanna, cinque anni e mezzo per il fallimento della Ste, che pubblicava “Il giornale della Toscana”, e non gli era andata meglio con il Credito cooperativo. La politica, invece, l’ex parlamentare ha sempre continuato a gestirla, a suggerire strategie e intrecci di vari colori. E in famiglia vanta ancor oggi un ministro della Repubblica, Matteo Salvini, compagno di sua figlia.
Nei corridoi della Lega non si fa mistero del fatto che, in più di un’occasione, sia stato proprio il banchiere a suggerire alcune mosse politiche al leader del Carroccio, a cominciare dalla svolta moderata del “Capitano”. Va detto che l’ex senatore Verdini, nonostante i suoi guai giudiziari, in questi anni ha sempre guardato avanti, a quel che sarebbe venuto dopo Berlusconi, al quale pure si era molto legato. È stato proprio Verdini a consigliare all’ex Cavaliere di benedire, come successore, il genero Matteo. L’investitura è arrivata puntuale in occasione delle finte nozze con Marta Fascina, quando — in favore di telecamere e cellulari — Berlusconi ha abbracciato calorosamente Matteo Salvini, dicendo che era l’unico amico politico di cui si poteva fidare. Senza però calcolare chi Salvini aveva accanto in coalizione: Giorgia Meloni. Questa variabile, Verdini non l’aveva presa in considerazione. Lui però è stato uno che non si è mai posto limiti. D’altronde avrebbe voluto avere un ruolo anche nell’elezione del Capo dello Stato: autorizzato dai giudici, mentre era ai domiciliari, ad andare a Roma due volte alla settimana per alcune cure, dal suo quartier generale in via della Scrofa faceva all’epoca diverse telefonate amichevoli agli amici del centrodestra, suggerendo manovre.
Ed è proprio grazie ai buoni collegamenti con la Lega che il banchiere è riuscito a far avere un posto in Parlamento anche ad Antonio Angelucci, sottraendolo a Forza Italia. Angelucci è un imprenditore della sanità privata e dell’editoria che muove molti capitali, e finanzia anche la Lega. Lui e Verdini sono legati in complessi intrecci, alla cui base ci sono movimenti di denaro. Qualche anno fa la Banca d’Italia, dopo aver commissariato il Credito cooperativo fiorentino di cui Verdini era presidente (crac per il quale il banchiere è finito ai domiciliari), ha imposto a lui e a sua moglie, Maria Simonetta Fossombroni, di coprire il buco e ripianare il “rosso” di oltre nove milioni di euro. A salvare l’allora coordinatore del Pdl è stato proprio Angelucci. Il re delle cliniche private ha infatti elargito ai coniugi Verdini una somma complessiva di nove milioni 334 mila euro. Salvandoli.
Verdini, insomma, dietro le quinte c’è sempre stato. E fino a pochissimo tempo fa, prima della scomparsa di Silvio Berlusconi, ha provato ancora a fare il suggeritore in Forza Italia e nella Lega. I rapporti con Dell’Utri sono sempre stati molto stretti, come pure quelli fra le loro mogli. C’è per esempio una conversazione intercettata dalla Dia di Firenze, nell’ambito dell’inchiesta sulle stragi che coinvolge proprio Dell’Utri, in cui si racconta come le due famiglie fossero in collegamento e condividessero strategie, soprattutto in tema di denaro.
Gli investigatori intercettano Miranda Ratti, moglie di Dell’Utri. La donna, si legge negli atti, «ritiene di essere portatrice, e titolare, di veri e propri diritti economici verso Berlusconi », per cui, parlando con Simonetta Fossombroni, la moglie di Verdini, insiste nel far capire «che il debito verso di loro è ancora aperto ». E afferma: «È un fatto di principio;l’obiettivo va portato fino infondo, io non mollo». Alla base c’è «una storia nostra». Secondo la Dia in queste parole di Ratti c’è «la consapevolezza che tutte le loro richieste, assecondate da Berlusconi, trovano fondamento in una sorta di risarcimento di quanto hanno patito nel tempo per colpa sua, per averlo, probabilmente, coperto». Gli investigatori di Firenze scrivono: «In quest’ottica scatta il ricatto».
La moglie di Dell’Utri si lamenta con quella di Verdini che Berlusconi sta ormai pagando chiunque mentre non ha ancora pagato i loro avvocati. La conclusione cui le due donne giungono è «certamente indicativa di cosa possa stare alla base delle continue dazioni economiche, e tramite cosa continuare ad ottenerle». «E, ma se uno non lo ricatta figlia mia...», dice infatti Simonetta Fossombroni, e Miranda Ratti le risponde: «È quello il punto». Il punto del patatrac di Verdini.

martedì 28 novembre 2023

Massimo


Il testimone Di Pietro e l’Italia gabbata

L’ex magistrato convocato in Antimafia ha ribadito come mafia e mondo imprenditoriale fossero collusi. L’occasione perduta in quella stagione e la vendetta contro i magistrati che dura ancora oggi

di Massimo Fini

È tornato all’onor del mondo Antonio Di Pietro, il frontman di quello straordinario pool di Mani Pulite diretto con polso fermo da quel gran signore di Francesco Saverio Borrelli di cui tutti oggi si vorrebbero dimenticare come si vorrebbe dimenticare Di Pietro. Ma poiché esiste una commissione parlamentare Antimafia è stato giocoforza convocare anche Di Pietro. Qual è la tesi sostanziale dell’ex pm? Che mafia e mondo imprenditoriale erano collusi. Di Pietro spiega anche, carte alla mano, che gli fu in vari modi impedito di indagare su questa collusione con la complicità anche di magistrati. Sono tutte cose note, ma è bene richiamarle alla memoria.
Più interessante è il giudizio che ne dà il Giornale di venerdì 24. Scrive Felice Manti, riassumendo un po’ il pensiero di tutto il mondo berlusconiano e non solo: “Sono passati più di 30 anni da quel dannato 1992 che ha riscritto la storia d’Italia”. Quel 1992 non fu affatto dannato, fu la prima volta, da quando il Pci si era consociato al potere, in cui la magistratura, grazie all’emergere di un movimento nuovo, la Lega di Umberto Bossi, che l’opposizione la faceva davvero, poté indagare liberamente sulla collusione fra mondo imprenditoriale e quello mafioso. Ho raccontato altre volte, ma anche questo va ricordato, come il pretore di Piacenza, Angelo Milana, fece, pochi anni prima delle inchieste di Di Pietro, con una Lega solo nascente, le stesse inchieste di Di Pietro mettendo in galera il sindaco comunista e quello socialista di Piacenza insieme all’importante imprenditore Vincenzo Romagnoli. Apriti cielo, tutto l’“arco costituzionale” e non, compreso quindi il Msi, e persino il vescovo della città, ottenne che il Csm rimuovesse Milana dal suo posto per relegarlo a Trieste, che non è proprio a due passi da Piacenza.
Milana era un vecchio giudice, disse: “Se le cose a voi van bene così, sapete qual è la novità? Io me ne vado in pensione”.
Poiché il vento era cosi cambiato e la magistratura poteva fare il suo dovere, chiamando la classe dirigente politica e imprenditoriale al rispetto di quelle leggi a cui tutti noi, comuni mortali, siamo tenuti, all’inizio da parte dei grandi giornali ci fu un’esaltazione, a sua volta esagerata, dei magistrati di Mani Pulite, esagerata perché il Codice Rocco voleva che fosse sottolineata la funzione della magistratura, non dei singoli magistrati, per evitare una personalizzazione pericolosa, perché il magistrato avrà una moglie, una fidanzata, degli amici, ed è quindi sempre attaccabile, la funzione no.
Se leggete le cronache di allora, potete vedere come sia Borrelli che Di Pietro limitarono al massimo le loro esternazioni. Per quel che mi riguarda, io, che lavoravo allora all’Indipendente, non parlai mai dei singoli magistrati di Mani Pulite, ma della “Procura della Repubblica di Milano”. Ma poi Di Pietro cedette al corteggiamento ossessivo, ricorderò ancora l’infame editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera intitolato “Dieci domande a Tonino”. Tonino, come se ci avesse mangiato insieme a Montenero di Bisaccia.
In seguito, cambiato di nuovo molto velocemente il vento, i magistrati divennero i veri colpevoli (“Sporcano l’immagine dell’Italia”, Berlusconi) colpevoli di aver applicato la legge e i ladri le vittime, spesso diventati giudici dei loro giudici.
Di Pietro, il più esposto, fu aggredito con sette inchieste giudiziarie da cui uscì regolarmente assolto (in una Berlusconi manovrò perché due personaggi testimoniassero contro l’ex pm, costoro furono condannati, ma Berlusconi, il mandante, si salvò come sempre).
Ho chiesto più volte a Di Pietro perché non si fosse presentato alle elezioni politiche, nel clima di quel momento, con tutta l’Italia a favore di Mani Pulite, avrebbe preso il 90 per cento dei voti. Rispose: “Nnon sarebbe stato corretto approfittare della mia notorietà di magistrato”. Gli replicai con una frase che utilizzai poi al Palavobis, il primo grande “girotondo” organizzato da Paolo Flores d’Arcais: “Non si può combattere con una mano dietro la schiena, quando gli altri le usano tutte e due accompagnate da un bastone”. Per quella frase, il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, per soprammercato un leghista, interrogato dal sempiterno Vespa, propose il mio arresto. A parte che non spetta al ministro della Giustizia arrestare chicchessia, in effetti quella frase incitava alla violenza. Riprendendo Sandro Pertini avevo detto: “A brigante, brigante e mezzo”. La violenza noi non abbiamo avuto la forza e il coraggio di farla, è uno dei tanti tabù della Democrazia (se ne parli a Marco Travaglio va in catalessi), eppure è Marx che dice che la violenza è “la levatrice della Storia”. Così ligi, così rispettosi, pecore da tosare, asini al basto, la storia ci è giustamente girata nel culo. Menomale che ogni tanto dalle campagne contadine di Montenero di Bisaccia riemerge Antonio Di Pietro a ricordarci come andarono veramente le cose ai tempi di Mani Pulite. Un crinale che avrebbe potuto cambiare realmente la storia d’Italia e che invece si è rivoltato, come un boomerang, contro i cittadini italiani.
È dal dopo 1992-1994 che è cominciata una campagna contro la magistratura, condotta soprattutto dai media berlusconiani, come rivela ingenuamente il cronista del Giornale, berlusconiani ma non solo per arrivare alla realtà di oggi di un doppio diritto: uno per ‘lorsignori’, un altro per quelli che vengono chiamati sprezzantemente, senza nemmeno accorgersi di questa implicita violenza, i “cittadini comuni”.

Prima pagina

 


Contro i berluscoidi

 

Hamas in toga
di Marco Travaglio
Crosetto sembrava uno dei pochissimi ministri muniti di un cervello funzionante. Abbiamo denunciato il suo conflitto d’interessi di presidente e consulente dei costruttori di armi che diventa ministro della Difesa. Ma, le rare volte in cui siamo d’accordo con lui, non abbiamo difficoltà a dirlo: per esempio sull’urgenza di un compromesso Ucraina-Russia e sulla prudenza nella guerra Israele-Hamas. Perciò, quando gli parte la brocca, ci poniamo domande che per un Lollobrigida, una Santanchè, uno Sgarbi, un Gasparri sarebbero oziose: che gli sta capitando? Che si è bevuto? Quest’estate denunciò un oscuro complotto a base di “dossieraggi” e “nuove P2”: poi si scoprì che un finanziere indagava per un pm su alcuni suoi soci poco raccomandabili. Ora torna alla carica, anzi alla scarica, evocando sul Corriere un’altra congiura perché ha sentito dire di riunioni di magistrati carbonari per colpire il governo a indagine armata. L’attacco preventivo ricorda il metodo Gasparri, che, interpellato da Report sulla società di cybersicurezza da lui presieduta all’insaputa del Parlamento, inscena un interrogatorio a Ranucci a base di carote e cognac per poter dire che, quando il servizio andrà in onda, non è un’inchiesta giornalistica, ma una vendetta personale. Ma il caso di Crosetto è ancor più grave perché nessuno, a parte lui, può sapere se esista un’indagine in grado di terremotare il governo, e a carico di chi. Dunque, appena si scoprirà una qualunque indagine su qualunque esponente di centrodestra, lui potrà alzarsi in piedi e strillare: “Io l’avevo detto!”. E soprattutto: “Non è un’indagine, ma un attentato al governo”. Ma questa, nel dizionario della lingua italiana, si chiama intimidazione.
Se un pm già indaga, magari con l’ausilio di qualche carabiniere, ora sa di essere nel mirino del ministro responsabile dell’Arma dei Carabinieri: se vuole vivere sereno gli conviene archiviare tutto (altrimenti prenderà pure un brutto voto nella “pagella” inventata dalla Cartabia e peggiorata proprio ieri da Nordio). E se in futuro un carabiniere scoprirà una notizia di reato su un esponente o un amico del governo, saprà cosa fare per salvarsi la carriera: inguattare tutto. In un clima del genere, immaginare che esistano frotte di magistrati ansiosi di rovinarsi la vita indagando sui padroni d’Italia, anzi di organizzare apposite riunioni per inventare inchieste contro il governo, è non solo ingenuo, ma ridicolo. Basta controllare i sotterranei delle procure, dove pm e agenti stanno già scavando tunnel come sotto gli ospedali di Gaza: non per cospirare contro la Meloni e i suoi fratelli, ma per nascondersi appena salta fuori un loro reato. Nella speranza di non essere mai più trovati, né tantomeno liberati.

L'Amaca

 

La tempesta e la guerra
DI MICHELE SERRA
Mi succede di simpatizzare per la tremenda ondata di maltempo che si è abbattuta sulla Crimea. Il sogno (ma è solo un sogno) è che gli uomini in guerra ne siano annichiliti, i loro arsenali congelati, le loro strategie travolte come fuscelli dalle raffiche furibonde del vento e dalle onde alte come leviatani. E rimangano al sicuro, asserragliati nelle case, solo le donne, i bambini, i cani e i gatti, con la minestra che bolle sul fuoco — ne sento l’odore. Le case possono resistere al vento. Alle bombe, no.
La tempesta possiede l’innocenza cieca e sorda della natura, non agisce per ideologia, per nazionalismo, per interesse economico, non accampa l’odioso pretesto della benedizione divina (Dio e Patria, un binomio genocida), non c’è pope che la benedica e non c’è ideologo che possa farla sua, non conosce i ridicoli confini tra le Nazioni, se ne infischia di avvantaggiare o di scoraggiare questo o quell’esercito. Non è costretta, per agire e per produrre i suoi danni, all’ipocrisia disgustosa degli Stati maggiori, dei ministri, dei Capi, che per ogni carneficina presentano le loro ridicole pezze d’appoggio.
Per la natura noi siamo uguali ai piccioni, ai cervi, alle nutrie, alle locuste, all’erba e ai boschi, quando capita la natura ci travolge e ci schiaccia senza domandarsi — nemmeno per un attimo — se siamo russi o ucraini, ebrei o palestinesi, l’unico criterio conosciuto, per una tempesta, sono le leggi fisiche che governano la biosfera. Nelle manifestazioni della natura (anche quelle miti, vitali e prospere) potremmo riconoscere quell’unità che ci rende tutti uguali, e che abbiamo tragicamente perduto.

Tristemente utili

 

Il reportage
I segreti della fabbrica più contestata d’Italia Qui nascono le bombe per le guerre del mondo
Viaggio nei capannoni di Domusnovas, in Sardegna, dove vengono prodotte le armi per Nato e Ucraina
Di GIANLUCA DI FEO
DOMUSNOVAS — Un colossale ragno meccanico appeso al soffitto afferra otto bossoli, li solleva contemporaneamente e poi vi riversa l’esplosivo. Terminata l’operazione, li adagia sul pavimento asettico, deponendoli come uova destinate a generare l’inferno. La scena sintetizza la nostra epoca: con questa manovra robotizzata, le munizioni scadute della Guerra Fredda riconquistano la loro forza distruttiva e le armi inutilizzate nel passato più cupo si tramutano negli strumenti letali di un presente drammatico. Così infatti migliaia di residuati bellici pescati nei fondi di magazzino del nostro Esercito si trasformano nella merce più richiesta sui mercati mondiali: i proiettili d’artiglieria da 155 millimetri, destinati in questo caso a raggiungere le batterie ucraine in prima linea. Li vogliono tutti: il governo di Kiev che ne consuma migliaia ogni giorno per respingere l’invasione russa, la Nato che ha esaurito le scorte e adesso anche Israele alle prese con l’offensiva di Gaza. Ma sono introvabili, perché in Europa si era praticamente smesso di produrli da vent’anni. L’unica eccezione è questo stabilimento sardo, il più moderno del Continente.
Siamo nel luogo più segreto e più contestato d’Italia: l’industria di Domusnovas, spesso chiamata “la fabbrica delle bombe insanguinate”. Ottanta ettari di laboratori bunker, protetti da alti reticolati e addossati a colline che ricordano il Far West: pure gli uffici e il portone d’accesso sono stati costruiti in stile Fort Alamo, rendendo distopica l’atmosfera. L’impianto è nato all’inizio del millennio, per volontà della storica impresa Sei di Ghedi (Brescia), poi diventata Rwm e rilevata nel 2011 dal gruppo tedesco Rheinmetall, tra i più attivi nelle forniture all’Ucraina, ma la gestione è rimasta interamente italiana a partire dall’amministratore delegato Fabio Sgarzi. Varcati i cancelli c’è l’intera filiera che trasforma cilindri d’acciaio in ordigni per aereo, mine navali, proiettili d’artiglieria.
Munizioni, d’ogni calibro e potenza prendono forma nei capannoni, dove si lavora con un misto di tecnologie avanzate e competenza artigianale. Si confezionano pure quelle giganti da 2000 libbre, oltre 900 chili, che si usano per distruggere i rifugi sotterranei. Quasi tutte andranno ad aviazioni europee.
Ormai non esistono più bombe generiche; ognuna viene confezionata su misura per un determinato modello di caccia: ci sono quelle per i Rafale francese e quelle per gli F35 olandesi. Dovranno restare agganciate sotto le ali a velocità supersoniche, senza interferire con l’aerodinamica, e spesso venire dotate di testate di guida al laser o gps: la precisione deve essere assoluta, verificata con più apparecchi computerizzati persino nella verniciatura.
Gli involucri vengono forgiati nella prima parte della fabbrica. Poi, divisa dal letto di un torrente, c’è l’area di caricamento degli esplosivi. Dove compaiono le bandiere rosse non si possono usare strumenti elettrici né suole di cuoio per evitare il rischio di scintille. Ogni stanza è serrata da bastioni di terra e cemento, ogni locale a distanza di sicurezza dall’altro: quasi sempre le operazioni sono automatizzate, senza personale presente.
Le fasi più delicate però sono controllate manualmente dagli operai: come la selezione della polvereesplosiva che viene setacciata da due persone, attente che non resti nemmeno un pezzettino di carta. Poi viene mescolata dentro grandi cilindri metallici, che evocano gli alambicchi degli alchimisti, a seconda dell’impiego: la quantità maggiore finisce nel ventre delle mine navali, quasi ottocento chili, appena ordinate dal governo australiano per tenere lontana la flotta cinese. L’attività non conosce soste. Va avanti su tre turni, ventiquattrore al giorno: la mensa interna serve pranzo, cena, colazione e sono state allestite sale relax per la pausa di mezzanotte. Nel 2019 il governo Conte aveva sospeso le forniture di ordigni per l’aviazione saudita ed emiratina, già autorizzate dall’esecutivo Renzi: una campagna umanitaria contro i bombardamenti nello Yemen, che avevano fatto strage di civili.
All’epoca erano la commessa principale e la Rwm ha rischiato di chiudere. Poi, prima ancora che il bando contro i due Paesi arabi venisse revocato da Draghi e Meloni, c’è stata l’invasione dell’Ucraina ed è cambiato il mondo: il ritorno alla corsa agli armamenti ha sommerso Domusnovas di ordini, fino a renderlo soldout . Sono stati riassunti gli operai, altri sono arrivati dalleimprese in crisi del Sulcis e ora Rwm Italia è passata da 300 dipendenti a 480: l’età media è di 34 anni, alcuni sono fratelli, diversi sono laureati. Nei prossimi mesi ne serviranno altri cento ma si fatica a trovarne. Oltre al contratto australiano, sta infatti per partire la costruzione delle loitering munition: i piccoli droni killer protagonisti delle battaglie ucraine, acquistati da alcuni eserciti della Nato.
Per Kiev si mandano avanti le consegne dei colpi da cannone e da tank, pagati dalla Germania. Gli ucraini continuano a domandarne altri, perché le riserve sono quasi esaurite mentre i russi ne hanno ricevuti in quantità dalla Corea del Nord. L’Unione europea pochi giorni fa ha riconosciuto di non potere rispettare la promessa di un milione di munizioni d’artiglieria fatta al governo Zelensky: non ci sono catene di montaggio in grado di produrle. Una situazione paradossale, perché a Domusnovas c’è pure una seconda fabbrica nuova di zecca, ancora più moderna della prima, che è costata 45 milioni ma resta ferma per ricorsi amministrativi. L’azienda mostra i permessi che l’hanno autorizzata, ma una volta ultimata è stata qualificata come impianto per la produzione di sostanze chimiche — mentre Rwm sostiene che ci si limita a mescolarle — che quindi necessita della valutazione di impatto ambientale: la procedura è ripartita da zero.
Più che gli aspetti ecologici, è indubbio che una fabbrica del genere ponga seri problemi etici: ogni settimana sforna centinaia di ordigni e visualizzarne gli effetti devastanti provoca un senso di angoscia. Ma dopo tre decenni di pace, la guerra è tornata in Europa e tutti i governi devono fare i conti con l’onere delle armi e con l’impegno a sostenere la difesa dell’Ucraina. Attualmente da Domusnovas arrivano a Kiev trenta munizioni al giorno: quelle che nello stesso tempo vengono consumate da un singolo obice. Ne sono previste 23 mila, con i nuovi macchinari potrebbero essere subito triplicate. La decisione è nelle mani dei tribunali amministrativi.

lunedì 27 novembre 2023

Mutazioni

 




Celebrazioni

 

Una storia
italiana
Gli azzurri vincono la Coppa Davis 47 anni dopo il primo trionfo in Cile
DI GABRIELE ROMAGNOLI
Una cosa mai vista prima. Se non da chi c’era. E non c’era la diretta televisiva 47 anni fa a Santiago del Cile, perché “non si giocavano volée col boia Pinochet” e fu deciso che ci si notava di più andando e non facendosi vedere. Per i più anziani è stata una leggenda, per i più giovani una docu- serie. E forse quei 5, con quei ritmi e quel montaggio, degli attori. Questa volta invece c’erano due canali, milioni di telespettatori ipnotizzati da giorni, da Torino a Malaga, in un crescendo tecnico-orgiastico come accade quando quel fantasma chiamato “nazione”, evocato in sedute spiritiche da vecchi colonnelli e nuovi ministri, si manifesta in una competizione sportiva. Dal Moro di Venezia al Rosso di Bolzano. Alle 20 e 26 di una domenica di novembre l’Italia rivince la Coppa Davis. E adesso, come si rimedia a tutti quei campi da tennis convertiti (straordinaria offerta 2x1) in gabbie da padel, perché possiate giocare tutti, possiate essere più social e non morire anche quando la palla vi avrà superato? Adesso che torna il mito dell’eccellenza, della squadra e dell’uomo solo al comando che se la porta sulle spalle fin dove nessuno (tranne lui) aveva immaginato?
Alle 20 e 50, prima che l’inno di Mameli preceda la consegna dell’insalatiera, parte Ma il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano. Unoche aveva infilato Panatta nella sfilza dei nuntereggae più ,ma aveva anche dedicato una canzone al figlio del guardiano del circolo (il giovane Adriano) che “trasportando tutta la terra rossa lavora sognando che un giorno lui potrà battere la palla su quella terra rossa”. È la colonna sonora perfetta per l’educata allegria del gruppo che sale sul podio. Chi è venuto a far gruppo. Chi è stato nel doppio. Chi ha solo guardato. Chi ha sempre giocato. Chi si è infortunato. Chi ha capitanato. Ma il cielo è sempre più blu. O almeno lo è in uno di quei momenti, rari e lisergici, esecrati o benedetti in cui un risultato sportivo in un luogo lontano (spesso la Spagna) scaccia le nuvole e la minaccia di tempesta. Femminicidi, echi di guerra, difficoltà economiche, “prendendo in mano la racchetta dimentichiamo tutto così in fretta”. Questo era Domenico Modugno, in quel 1976. Allora i politici fuggivano dai manici scottanti dell’insalatiera; ieri accorrevano, di persona o per interposto avatar. Scansatevi e lasciateci vedere questi ragazzi.
Certo, è un’altra Davis, stia sereno Pietrangeli. Non c’è meglio o peggio, c’è soltanto l’inevitabilmente diverso. L’evento diluito nel corso dell’anno è accorpato in una settimana, le cinque partite ridotte a tre, nello stesso giorno. L’esca funziona: se i nostri vanno avanti ci tengono aggrappati. Èuna specie di maratona di ballo, dove la musica non smette finché non resta un solo danzatore e quell’ultimo è Jannik Sinner, che doveva essere demoralizzato dopo aver perso domenica contro Djokovic e invece l’ha battuto da solo o in compagnia e se erano in tre li menava tutti e tre. Doveva essere stanco dopo i 5 set consecutivi e tirati di sabato e si è presentato davanti a De Minaur come un liquidatore fallimentare: prego, può chiudere bottega, sconsiglio altre attività, sei tre, sei zero. Nella sua maglietta gialla vagante per il campo De Minaur sembrava un uovo strapazzato sospinto ai bordi del padellino, ripreso al centro da un cuoco feroce, armato di spatola e goniometro. Era l’epilogo perfetto, la chiusura del cerchio. Quando Sinner apparve al mondo era il 2019, finale Next Gen a Milano, musica e luci stroboscopiche. Vinse battendo in finale proprio De Minaur. Si sentiva nell’aria la sigla di uno spettacolo annunciato, destinato a durare, l’irruzione di un fuoriclasse che avrebbe marcato i capitoli delle nostre vite come un segnalibro: dove eri quando vinse la Davis, cosa facevi quando conquistò quello Slam e a che punto era la tua esistenza quando infine… Non sappiamo dove arriverà, sappiamo quando è cominciata. L’amore, anche quello collettivo, è la fine dell’attesa. Da anni, troppi, si aspettava un campione popolare, qualcuno che non rilucesse nella gloria bisestile delle Olimpiadi, ma che apparisse con continuità sui nostri schermi, che ci rendesse orgogliosi in Europa e oltre, che facesse interrompere il Festival di Sanremo (anche per la durata di tre set, tutti al tie-break, di un’ora l’uno). Uno con la forza della gentilezza, che va ad abbracciare subito gli avversari, che ringrazia per primo il compagno che non ha giocato, che dopo un colpo sbilanciato e vincente sorride, ma comincia prima di aver toccato la palla, perché sa già come finirà e perché lo diverte un sacco. Poi c’erano gli altri. C’era Sonego che gli faceva da spalla nei momenti del bisogno. C’era questo Arnaldi sbocciato all’improvviso che ha portato l’unico punto non firmato da Sinner. Ma quando Jannik è sceso in campo dopo di lui abbiamo guardato il televisore come se avesse raddoppiato la velocità e non sapessimo quale comando fosse stato sfiorato. C’era Volandri che in doppio avrebbe schierato Sinner da solo, per stare sul sicuro. Da due settimane a milioni abbiamo fatto zapping con ogni sentimento al ribasso per fermarci quando appariva Jannik. Ci siamo abituati alla dose quotidiana di colpi che secchi ma gioiosi rimbombavano nelle nostre stanze. Abbiamo visto affinare le traiettorie, convincendoci che sia possibile, se non la perfezione, il perfezionamento. Sembra strano che oggi non si voli, ma il ragazzo dovrà pur riposarsi dal peso della felicità e dalla grandezza di questa specie di miracoli.

domenica 26 novembre 2023

Invito a cena



Amici australiani che dite? Se portate un po’ di radicchio mangiamo insieme! Noi ci mettiamo l’Insalatiera…