martedì 31 gennaio 2023

Ad esempio

 


Studio



Lo 0,000032% ha notato il visore…

Dai è solo uno sfottò...

 


L'Amaca

 

Sulla scia del mago Oronzo
DI MICHELE SERRA
Le criptovalute sono un imbroglio colossale”: lo dice, spiegandolo bene, chi se ne intende (Boeri/Perotti su questo giornale) dando sostanza a quello che, per noi profani, è solo un sospetto, forse un pregiudizio dovuto a una carente comprensione dei nuovi tempi.
Vale la pena spiegare il sospetto e il pregiudizio: come è possibile “fare soldi” senza produrre niente, senza rendersi utili a nessuno, senza lasciare un segno, non importa se manuale o intellettuale, del proprio passaggio? Per dirla alla vecchia maniera: senza lavorare? Se nulla si crea e nulla si distrugge, come accidenti si fa a creare ricchezza dal nulla?
Ho letto un po’ di articoli su come funzionano le blockchain, che delle criptovalute sono la matrice. L’ho capita più o meno così: si tratta di una concatenazione di computer che, per accumulo, trasforma la quantità in un salto di qualità, dunque in presunto “valore”. Capisco. Ma mi fa più o meno lo stesso effetto del Mago Oronzo quando promette di risolvere qualunque problema “con la sola imposizione delle mani”.
L’imposizione delle mani è un’attività che conosco. Mi serve (per esempio) per produrre questa Amaca digitando (imposizione delle mani su tastiera).
Bella o brutta che sia, qualcuno la legge e si crea una piccola compravendita — il lavoro intellettuale è anche lui un lavoro, dopotutto. Ma le criptovalute? Non sono forse uno dei sintomi più indicativi della Grande Illusione Tecnologica, quella che garantisce di liberarci tutti e per sempre dal bisogno e dalla fatica, come per magia? Avevo capito che la tecnologia fosse una categoria scientifica, non una branca della magia.

Meditativo

 

La morte del giovane fattorino apre una riflessione necessaria Occorre un nuovo umanesimo
La sagoma a terra del rider investito I dem ripartano da questa foto
DI STEFANO MASSINI
Se la domanda è da dove dovrebbe ricominciare, il Pd, la risposta potrebbe essere: da questa fotografia. È stata scattata a pochi passi dal cuore della nostra capitale, in piazza dei Re di Roma. È stata scattata ben 48 ore dopo che un rider di 23 anni era stato ucciso dalla manovra di un bus. Faceva consegne a piedi, il ragazzo kenyota figlio come tanti di quella gigantesca galassia del precariato che per necessità contrae l’estensione del tempo all’orizzonte circoscritto di un presente afferrato, strappato a morsi. Di quel rider, invisibile fra gli invisibili, è però, per paradosso, rimasto il segno. Ci è rimasto letteralmente. Ci è rimasto perché a distanza di due giorni, nessuno ha ritenuto di togliere dall’asfalto la sagoma in gesso del suo corpo steso, e la chiazza nero-rossastra del sangue. Sta ancora tutto là, come un monito, come un monumento, come un promemoria di cui a nessuno infischia assolutamente niente, tanto che macchine e scooter ci transitano sopra con allegria, nel traffico convulso di un lunedì mattina al Tuscolano.
Perché proprio da qui potrebbe ripartire la missione di un partito che si è perso? Per tante ragioni. In fondo quella sagoma a terra, senza un corpo dentro, è un po’ il paradigma di un contenitore senza più il contenuto, è il perimetro tratteggiato in gesso di quella che era un’entità viva, un lavoratore giovanissimo venuto in Occidente a costruirsi una possibilità, che invece l’ha portato al cimitero. Il punto è che queste 48 ore, trascorse spudoratamente senza che nessuno ne rimuovesse il sangue dalla carreggiata, sono davvero l’istantanea del nostro tempo, del suo cinismo, della sua boria, del suo anti-umanesimo che prese forma come effetto di un neo-habitat di avatar e si è radicalizzato in disprezzo dell’altro, della sua storia, dei suoi diritti. Guardo le automobili passare sopra la macchia del sangue, e dico a me stesso che quegli pneumatici declinano la marcia di una collettività legittimata nel suo menefreghismo, nella sottovalutazione, nella negazione sbruffona di tutto ciò che viene dall’altro. L’altro non esiste più, è stato azzerato, eliminato come sinonimo o di falso o di minaccia, e come tale si è pezzo per pezzo destrutturato l’edificio di solidarietà che era stato costruito in nome di un’alleanza sociale. Non esiste più niente di tutto ciò, è stato spazzato via dalla logica opportunistica per cui chi è debole non merita nulla se non l’epiteto di cretino (copyright di Donald Trump, nientemeno Presidente degli Stati Uniti). Il sostantivo pietà è scomparso dai radar. Il solo menzionarlo fa alzare il ticchettio del contatore Geiger che invece della radioattività misura tassi di buonismo e di retorica, eppure è anche dalla pietà che un partito di massa dovrebbe ricominciare, se pietà significa vedere, guardare, aprire gli occhi su chi non ce la fa, aborrendo chi ne fa solo una sagoma di gesso a terra, da archiviare prima possibile.
Abbiamo appreso sulle colonne di questo giornale che 2 giovani su 3 vedono il futuro nero, senza possibilità. Fra loro c’era anche il ventitreenne falciato da quel bus in un sabato pomeriggio di gennaio, il cui nome neppure ci è dato sapere, ma tanto che vale, tanto cosa significa, tanto cosa cambia?
Sono rimasto circa un quarto d’ora a fissare il tratto disegnato di un ex-rider, il suo sangue rappreso, il mazzolino di fiori mezzo sfatto dai motorini e monopattini di chi ci sfreccia sopra parlando al cellulare.
Credo davvero che l’umanesimo sia l’unica chance possibile. Anteporre l’essere umano a tutto, al profitto, all’interesse, alla tecnologia, alla deriva che in nome dell’identità ci svuota di unicità, e ci raggruppa in greggi da recintare. Sì, credo che tutto possa iniziare dallo scandalo mancato di questa fotografia.

Grande articolo Maurizio!

 

Cara Liliana Segre ricordare la Shoah a molti serve solo a lavare la coscienza

di Maurizio Maggiani

E anche quest'anno la Giornata della Memoria è venuta e com'è venuta se n'è andata. E mai come quest'anno me la ricordo così affollata, così madida, di buone parole, di nobili intenti, di interessanti spettacoli, di belle iniziative. E mai prima di quest'anno ho provato forte la sensazione dell'inflazione, il sentimento di esserne stufo, di non poterne più. Ci ho pensato a lungo, ci ho pensato sul serio giorno e notte, da quando giovedì scorso ho letto questo titolo, citazione da Liliana Segre, «Il Giorno della Memoria è inflazionato, la gente è stufa di sentire parlare degli ebrei». E questa è una pubblica lettera indirizzata a lei, a Liliana Segre, bambina ebrea deportata nel campo di Auschwitz-Birkenau, senatrice della Repubblica, alla persona di cui in questo momento so riconoscere al riguardo, unica assieme al presidente di questa Repubblica, non solo la sua autorevolezza, ma anche la sua autorità morale.
Della memoria, signora Liliana, me ne sono fatto una passione di vita, addirittura di lavoro, racconto storie per fare la mia pur piccola parte nel rendere giustizia delle vite dei dimenticati della storia, dei dispersi nella sconfitta, di chi non ha avuto voce o non gli è stata concessa. E della memoria so questo, quello che credo sappia anche lei, che non la si può imporre per decreto. La smemoratezza sì, è stato fatto più volte e con buoni esiti, e quella che stiamo vivendo è epoca di smemoratezze, di pagine voltate senza nemmeno essersi presi la briga di leggerle; la memoria no, la memoria non si può imporre. Perché la memoria è elezione, è promessa, è giuramento, è passione; la memoria è assunzione di responsabilità, è disponibilità alla testimonianza, al martirio dunque. Per un testimone non c'è un giorno, c'è solo tutta una vita, celebrare il rito annuale della memoria è costringerla nell'immota consuetudine della circostanza; la memoria ha bisogno del costante movimento, del continuo rinnovarsi, per poter essere non solo viva, ma vitale, fecondo mandato. Chi porta memoria da sé non è niente, esiste solo quando c'è chi lo accoglie, lo ascolta, lo vede, lo legge, e nel farlo si fa partecipe, a sua volta testimone. È disperante il lavoro della memoria, è un lavoro di una fatica senza fine destinata a non avere mai un punto di arrivo, un traguardo da poter dire, ora il mio l'ho fatto; non l'hai mai fatto davvero il tuo, i decreti della smemoratezza sono rinnovati giorno dopo giorno, a disposizione hanno mezzi di persuasione, di coercizione, di punizione incommensurabili rispetto alla fragilità della tua voce.

Che ne è allora della memoria nel Giorno della Memoria? Leggo dal sito del Senato della Repubblica che questa giornata è dedicata «In ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici nei campi di sterminio nazisti». Mi sbaglierò, ma non mi risultano eclatanti discorsi né molte interessanti e visibili iniziative riguardo ai 23.826 deportati politici italiani di cui 10.129 uccisi nei campi, né riguardo ai 600.000 militari del regio esercito di cui 37.550 uccisi, questi nella memoria li abbiamo già messi a tacere. È rimasta la memoria della Shoah, ma come? A parte i superstiti, i testimoni, i pochi martiri ancora vivi, e temo con lei che domani saranno ancora di meno e presto non saranno affatto, cosa ci ha consegnato di feconda, vitale verità questo giorno? Io so che il genocidio degli ebrei è un debito inestinguibile contratto dalla civiltà a cui apparteniamo nei confronti non solo del popolo ebraico ma dell'umanità intera. Inestinguibile, non c'è prezzo per riscattarlo, qualunque sia. E penso anche che se è unico negli strumenti, nei metodi e negli esiti, non lo sia stato negli intenti, altri debiti abbiamo contratto nel corso della storia, e pochi tra loro estinguibili e forse nessuno estinto. Mio nipote ha appena appreso a scuola che l'età moderna ha per data di inizio la scoperta dell'America, non dimenticherei che la nostra modernità ha prosperato sul genocidio di 70 milioni di nativi soppressi in un secolo di conquista, l'82% della popolazione. Penso allora che l'unico gesto di vera civiltà che potremmo fare è assumerci questo carico e provvedere perché il nostro cammino, seppur affaticato da tanto peso, non incontri mai più l'evenienza di contarne altri; e allora sarà la memoria che ci renderà più leggeri, la memoria che si fa giuramento universale, e il giuramento azione. È tutta in questo la fecondità della memoria, che pretende di agire, e genera non solo azione riparatrice, ma azione creatrice; smemorati potremmo mai erigere dalle macerie di cui abbiamo disseminato la contemporaneità quel mondo di giustizia, di fraternità, di pace, a cui parrebbe che tutti aspiriamo? Agire, diceva Hannah Arendt, è aggiungere qualcosa a quello che c'è, e quello che c'è è il mandato di ciò che è stato; solo assumendo la coscienza di questo potremo scegliere se agire per il bene o per il male. Ma evidentemente troviamo il peso del nostro debito intollerabile, perché tutto il nostro sforzo si è proteso ad escogitare i modi per liberarcene, e ne abbiamo trovati almeno due. Negarlo, semplicemente negare che sia accaduto ciò che è inoppugnabile, o trovare il modo di proclamarlo risarcibile, e con questo escogitare un riscatto al prezzo più conveniente; meglio ancora, liberarci in fretta di quel debito e con quello dichiarare chiusa la partita, altri debiti non ci sono stati, non ci sono, non si saranno, questuanti di tutto il mondo astenersi.
Io sinceramente non credo che il pericolo maggiore all'accettazione di verità e giustizia sia nel negazionismo. Non lo credo perché una palese menzogna, un intrallazzo così palesemente schifoso, non avrà mai la possibilità di imporsi sotto gli occhi del mondo intero. La mia non è né bella speranza né fiducia cieca, ma la semplice constatazione di come sia poco conveniente, di come sia assai più faticoso negare che fingere di accettare, liberarsi il più in fretta possibile del debito pagando il meno che si può.
Vorrei citarle signora Liliana un breve scritto del filosofo di origine ebraica Gunter Anders, che credo lei conosca. Fa parte dei suoi Stenogrammi filosofici del 1965, consideri la data, e ha per titolo Il Nascondiglio Migliore.
Certamente sono migliaia e migliaia quelli che non solo non hanno niente da obiettare al dibattito sulla «rielaborazione del passato», ma ci esortano anche al rimorso, raccomandando addirittura vivamente la lettura di «Anna Frank». Attenzione! Tra queste migliaia, sono centinaia coloro la cui esortazione diventa puro tatticismo giustificazionista. Ciò che sperano di realizzare con essa non è solo di rendere invisibile la propria colpa, includendola in una colpa collettiva, ma soprattutto di avere in questo modo l'opportunità di ripetere il passato. Quando c'invitano a piangere il passato è perché sanno che l'occhio velato dalle lacrime non riconosce mai il presente o il futuro e che per loro non c'è nascondiglio migliore della società dei contriti.

Ecco, io penso questo, penso che il Giorno della Memoria stia diventando il nascondiglio migliore per coloro che intendono sistemare la faccenda dei loro debiti e sistemare sé stessi nella generale contrizione; naturalmente sono solo centinaia tra le migliaia, ma visto quanto sia conveniente e facile, le centinaia si vanno facendo migliaia. E a questo voglio aggiungere un altro mio grande tormento. Se la memoria non si può imporre, non la si può neppure istituzionalizzare senza che si dissangui della sua verità, senza che si faccia memoria selettiva; anche al di là delle intenzioni, delle buone intenzioni, per la semplice ragione che è nella natura stessa delle istituzioni la selettività, le istituzioni scelgono. E la combinazione di istituzione e nascondiglio, o quando addirittura l'istituzione si fa nascondiglio, è esiziale, mortale. Per esempio, proprio in occasione del Giorno della Memoria, la seconda carica dello stato, il presidente del Senato della Repubblica Ignazio B. La Russa, ha dichiarato «infami» le leggi razziali del 17 novembre 1938 e ha proposto di istituire una apposita giornata memoriale. Bene, ma mi chiedo, e me lo chiedo perché proprio non lo so, se conseguentemente ritiene infame anche colui che considera il suo leader politico prediletto, Giorgio Almirante; il quale Giorgio Almirante, è stato il segretario di redazione della rivista La Difesa della Razza sin dal suo primo numero, agosto 1938. A proposito di memoria selettiva, quella rivista ha nella copertina del primo numero l'immagine esemplificativa della sua missione, ci sono tre volti in scala ascendente, al gradino più basso un negroide, poi un semita e alla sommità un ariano di razza italica, una spada separa l'eletto dai reietti. Chissà se Ignazio B. La Russa ricorda, o ha voglia di ricordare, quella immagine e con quella non solo le leggi del '38, ma pure la legge del '37, la prima legge squisitamente razziale dopo mezzo secolo di pratica razzista nella gestione delle colonie, con l'esclusione dei nativi in quanto sudditi da ogni diritto di cittadinanza e da ogni occupazione che non fosse meramente esecutiva. Quella legge puniva con il carcere chi ospitava nel suo letto e alla sua mensa una femmina nativa delle colonie imperiali per più di una settimana; attenzione, era tollerato il commercio carnale, dati i naturali istinti del maschio e la necessità di dar sfogo alla sua potenza sessuale, ma non l'oltraggio del «madamato», del more uxorio, che ripugna allo stesso principio del prestigio di razza. 

Possiamo forse non riconoscere nello spirito delle leggi del '38 quello del '37? Possiamo forse non riconoscere nell'odierno rifiuto della cittadinanza ai bambini nati in Italia dai discendenti dei colonizzati, l'eredità del nostro razzismo coloniale? Possiamo forse non riconoscere nella definizione di «carico residuale» che il ministro della Repubblica Matteo Piantedosi ha dato dei migranti in esubero agli accettabili sul territorio nazionale, la riduzione dell'umano ad oggetto, premessa indispensabile a ogni politica razzista. E ancora, non mi pare di aver udito una sola volta nel lungo discorso del primo ministro Giorgia Meloni in occasione del Giorno della Memoria la parola fascismo; possiamo in coscienza anche solo immaginare l'affermarsi del nazionalsocialismo senza che ci fosse stata la marcia su Roma? Adolf Hitler pensava di no. E poi, spulciando tra le mille iniziative, scopro che il sindaco di Lucca ne ha promossa una accoppiando la Shoah con le Foibe; possiamo forse in coscienza affermare che ci sia verità in questo, che ci sia giustizia per l'una e per l'altra tragedia della nostra storia? Francamente io tutto questo non riesco proprio a sopportarlo, e non riesco a tollerare l'idea che sarà sempre più così, in questo nuovo regime di contrizione generale infettata dall'ipocrisia se non dalla mala fede, ci prepariamo con gli occhi velati da tenerissime lacrime all'inanità e all'indifferenza di domani. Quando il partito di un ministro della Repubblica propone di escludere dal diritto di asilo i richiedenti per persecuzione di genere, non è questo forse un nuovo inizio di qualcosa che è già stato? E come lei ricorda, signora Liliana, i morti nel nostro mare non ci fanno forse tornare alla mente i bastimenti alla deriva degli ebrei in fuga che nessuno al mondo voleva accogliere? Certo, lo sterminio degli ebrei è la vetta assoluta, ma all'assoluto ci si arriva sempre per passaggi, un gradino alla volta. La contrizione fa volentieri a meno della vicinanza, dell'imbarazzante contatto con l'oggetto che ci ha imposto la scomodante afflizione, per questo non sono affatto sicuro che un mattino a venire, riaperto nottetempo se non a Milano Centrale, magari in un'altra stazione meno appariscente o in un piccolo porto di mare, un binario 21, ci saranno sguardi alzati verso quell'inconsueto accalcarsi di umanità su ferrigni carri bestiame, sguardi che impongano ai cuori e alle mani di agire.

La Shoah è storia e questo dà forza alla memoria, e la memoria costringe la storia alla verità, e questo ne informa le ragioni. Ma perché della Shoah non rimanga che un rigo su un libro scolastico, è indispensabile che la memoria si insedi nella comunità, accolta certo nei suoi atti costitutivi, ma quotidianamente nel suo agire, che lo conformi, che sia parte dell'assunzione di responsabilità di ognuno nei confronti di tutti. È solo così che il testimone passa di consegna, che si moltiplica nelle generazioni, che non muore mai. E questo è un lavoro ancora tutto da fare, perché questa che ci siamo costruiti è epoca di smemoratezze in una società e in un sistema che non conosce l'interesse generale, ma riconosce solo, e ne va fiera, gli interessi, l'interesse di una nazione, l'interesse di un ceto, di una lobby, di un partito; un lavoro che non è alleggerito dalla ritualità, ma semmai appesantito, un lavoro a cui tutti sono chiamati, un bracciante di questa mia campagna non meno che un insegnante di scuola, il costante lavoro dei giusti. Intanto il suo lavoro signora Liliana non finirà mai, mai nel tempo, mai nello spazio, e così potrò anch'io essere un piccolo compagno di strada che non si stuferà mai di quanto sarà lunga, che non ne avrà mai abbastanza.
Voglia, la prego, accogliere assieme alla mia stima il mio affetto, le voglio bene signora Liliana, senatrice della Repubblica. —

News dal post terremoto

 


Per vostra opinione

 

Quale guerra. O si trova un accordo con Putin, o l’Ucraina verrà distrutta
di Alessandro Orsini
Due Stati non hanno mai interessi perfettamente coincidenti. Figuriamoci i 30 coalizzati nella Nato. La sola geografia crea continue differenze. La guerra in Ucraina non affligge il Canada come la Polonia. Vale anche per gli Usa e i principali Paesi europei. Biden è entusiasta della guerra in Ucraina che separa l’Europa dalla Russia. Abituato alle guerre, i morti non lo turbano. Era vicepresidente quando la Nato bombardava la Libia nel 2011 e non fu impressionato nel vedere Gheddafi trucidato dalla folla. Era vicepresidente anche quando è scoppiata la guerra civile in Siria nel 2011, una mattanza che ha alimentato dall’esterno. Era vicepresidente quando è iniziata la guerra in Yemen nel 2015, che ha allevato come un bimbo nella culla fino all’arrivo di Trump nel 2017. Biden è stato anche protagonista del bombardamento delle postazioni dell’Isis in Siria e in Iraq, ed è stata la mente degli Stati Uniti in Ucraina nel 2014 quando Yanukovich veniva rovesciato. Ha visto in diretta l’uccisione di Bin Laden nel 2011 e ha sparato per otto anni in Afghanistan contro i talebani. La strage di Haditha in Iraq, un orrore paragonabile al massacro del Bataclan o di Charlie Ebdo, è stata compiuta dai soldati americani sotto Biden nel 2015.
Per Joe stomaco-duro, morti e distruzioni sono un fatto normale. Fosse per la sua coscienza, la guerra in Ucraina potrebbe andare avanti per vent’anni purché sia “moderata”, affinché Putin non usi l’arma nucleare contraria agli interessi americani, e “prolungata”, affinché la separazione tra Europa e Russia sia completa. Quanto a Italia, Francia e Germania la questione è più complessa. Colti di sorpresa dall’invasione, Roma, Parigi e Berlino hanno operato come dilettanti allo sbaraglio. Draghi è stato teleguidato da Biden, mentre Macron e Scholz sono apparsi come due bambini smarriti nel bosco all’imbrunire. All’inizio, hanno creduto che i russi avrebbero perso o che si sarebbero ritirati in fretta. Ma poi hanno capito che Putin userebbe l’arma nucleare piuttosto che perdere la guerra. E, così, Macron, Scholz e Meloni hanno iniziato a tifare per la Russia. La speranza che Putin vinca questa guerra al più presto cresce in loro con l’avanzare dei russi in Donbass e lo sventramento dell’Ucraina. Ecco perché Italia, Francia e Germania impediscono all’Ucraina di respingere l’attacco russo negando a Kiev le armi necessarie. Le armi che inviano sono tante in termini assoluti, ma poche in termini relativi. Rispetto alle armi di cui dispongono, sono tante (una batteria Samp-T su cinque); rispetto alle armi di cui dispone la Russia, sono poche. Quindi, o trovano un accordo con Putin o l’Ucraina viene distrutta. Chiunque vinca, l’Europa rimarrà instabile. Con una differenza: una cosa è una super-potenza revanscista con 6.000 testate nucleari e un territorio sconfinato come le sue risorse; altra cosa è uno Stato fallito che gridi vendetta senza voce. È più probabile che il sistema-Italia sopravviva alla vittoria della Russia che a quella dell’Ucraina, e Crosetto lo sa bene. La sconfitta della Russia – pensano Macron, Meloni e Scholz – sarebbe l’inizio della fine dell’Europa; la sconfitta dell’Ucraina, invece, sarebbe soprattutto la sconfitta di Biden: persino Enrico Letta ha capito che Putin non ha alcuna intenzione di andare oltre l’Ucraina. Il trio europeo si oppone a ogni iniziativa di pace e dà armi insufficienti che prolungano lo strazio. Mancano alcuni mesi alla grande offensiva di terra della Russia. Macron, Meloni e Scholz non vogliono utilizzarli per trattare. Paralizzati dalla loro inanità, si rifugiano in un cinismo da cui rischiano di essere sepolti.

Travagliamente sovranisti

 



Cercansi sovranisti

di Marco Travaglio

Mai come oggi che (così almeno dicono) abbiamo la prima premier “sovranista”, si avverte un gran bisogno di “sovranismo”. Servirebbe un governo che andasse su Google, cercasse “interesse nazionale” e “sovranità nazionale”, poi li confrontasse con la nostra politica estera. Che, negli ultimi 50 anni, non è mai stata meno sovranista, cioè meno attenta all’interesse e alla sovranità nazionale, di oggi. Da quando ci è capitata la sciagura del draghismo, siamo finiti su un nastro trasportatore pilotato da Washington che ci trascina verso orizzonti sempre più nefasti, inimmaginabili solo un anno fa. Li scopriamo ogni giorno con crescente angoscia, perché non ci riguardano, non ci convengono, calpestano la nostra sovranità e danneggiano i nostri interessi. Prima le auto-sanzioni a Mosca, che colpiscono più i sanzionatori che il sanzionato, e le armi all’Ucraina (paese aggredito come centinaia di altri negli anni e non alleato), prima difensive, poi offensive ma leggere, ora pesanti, domani i cacciabombardieri e magari pure le truppe. Il tutto in nome dell’“euro-atlantismo”, che è come dire “cannibalismo vegano”, perché mai come oggi gli interessi europei sono opposti a quelli anglo-americani: un pietoso eufemismo per nascondere il più bieco servilismo agli Usa. Che, nella storia, ha un solo precedente: quello tra il 1948 e gli anni 50, che però coincideva col nostro interesse nazionale. Gli Usa, oltre ad averci liberati dal nazifascismo (insieme all’Urss, peraltro), destinarono il 2% del loro Pil al Piano Marshall per ricostruire l’Europa. Oggi ci chiedono di destinare il 2% del nostro Pil alle spese militari di una Nato che non ci protegge dai veri pericoli, quelli sul fianco Sud, ma si concentra sul fronte Est perché gli Usa hanno la fissa di Russia e Cina, che non minacciano né l’Italia né la Ue. Quindi dobbiamo svenarci, sì, per l’interesse nazionale: ma americano.

E ora, incollati sul tapis roulant teleguidato dalla Casa Bianca, scopriamo di essere in guerra non solo con la Russia, ma pure con l’Iran e la Cina. L’altroieri qualche squilibrato seduto a Washington, o a Gerusalemme, o in entrambe le capitali ha deciso di bombardare una fabbrica di Teheran; e il generale dell’Aeronautica Usa Michael Minihan ha avvertito i suoi uomini di prepararsi alla guerra con Pechino nel 2025. Ove mai vi sopravvivesse un grammo di sovranismo, il governo italiano dovrebbe avvertire gli “alleati” che a noi l’Iran e la Cina non hanno fatto nulla e che l’articolo 11 della nostra Costituzione ci vieta di risolvere le controversie internazionali a mano armata. Quindi bombardino pure chi pare a loro, ma lascino in pace la Nato, cioè anche noi. Quelle sono le loro guerre, non le nostre. Noi abbiamo già dato.

lunedì 30 gennaio 2023

E io che...


 ... mi sforzavo ad immaginare la faccia del demonio!! 


“Quando arriva McKinsey”, il libro che racconta le ombre della “più prestigiosa società di consulenza al mondo”

Uscito lo scorso ottobre negli Stati Uniti (non esiste ancora una traduzione italiana) il libro When McKinsey comes to town, scritto dai giornalisti investigativi del New York Times Walt Bogdanich e Michael Forsythe racconta che per la società i profitti vengono prima di tutto

di Mauro Del Corno dal Fatto Quotidiano


A torto o a ragione McKinsey è considerata la società di consulenza più prestigiosa al mondo. Qualche anno passato nei suoi uffici apre spesso le porte a prestigiose carriere manageriali, anche grazie alla vasta e potente rete di networking che mantiene saldi i legami tra dipendenti ed ex. Sono molti i capi d’azienda che amano ricordare il loro trascorso nel gruppo statunitense. Tra quelli italiani, l’attuale amministratore delegato di Leonardo ed ex numero uno di Unicredit Alessandro Profumo, l’ex amministratore delegato di Intesa Sanpaolo ed ex ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera o Vittorio Colao, ministro per la Transizione digitale nel governo Draghi ed ex capo di Vodafone. Come per tutte le società di consulenza, il lavoro di McKinsey è quello di suggerire alle aziende strategie per ridefinire i loro modelli di business e fare più soldi. Benché le presentazioni in power point consentano di sbizzarrirsi con la fantasia, quantomeno nelle illustrazioni, alla fine la ricetta è più o meno sempre la stessa: delocalizzare, tagliare personale e ridurre gli stipendi. In poche parole rosicchiare quote della ricchezza ai lavoratori per destinarla ai proprietari delle aziende. McKinsey ha però tra le sue peculiarità anche quella di presentarsi suoi clienti, e all’opinione pubblica, come una società ispirata da valori profondi e radicati, affermando di agire in base a principi che dovrebbero “rendere il mondo un posto migliore”.

Uscito lo scorso ottobre negli Stati Uniti (non esiste ancora una traduzione italiana) il libro When McKinsey comes to town, scritto dai giornalisti investigativi del New York Times Walt Bogdanich e Michael Forsythe racconta una storia un (bel) po’ differente. I due giornalisti si sono avvalsi tra l’altro delle testimonianze di un centinaio di dipendenti ed ex del gruppo. Dalla colossale bancarotta di Enron alla crisi dei mutui subprime, dalle epidemie di dipendenza da oppioidi, alla diffusione del fumo di sigaretta, sono molti i disastri finanziari e/o sociali in cui Mckinsey fa capolino. Raramente, precisano gli autori, con implicazioni legali. Ma quello che emerge è qualcosa forse scontato ma in contrasto con i principi propagandati: i profitti prima di tutto.

Questa la premessa dei due autori: “Poiché McKinsey non rende nota la lista dei suoi clienti né i consigli che ha dato, i cittadini statunitensi e, in misura crescente del mondo intero, non possono essere consapevoli della profonda influenza che la società di consulenza ha avuto ed ha sulle loro vite, alle loro retribuzioni alla qualità dell’assistenza medica che ricevono e all’educazione a cui accedono i loro figli”. “La cultura della segretezza è la base su cui è costruito questo business” scriveranno poi i due autori nell’epilogo. Ispirata dalla convinzione che il “mercato fa sempre meglio”, la società di consulenza, ha ad esempio avuto un ruolo nel plasmare politiche come la privatizzazione dei servizi sanitari e nel taglio dei budget per la sanità, nell’adozione di pratiche finanziarie spregiudicate, sfociate nella crisi del 2008, nell’aumento della conflittualità tra compagnie assicurative e i loro clienti con la riduzione dell’entità dei rimborsi effettivamente versati.

Una delle vicende più note è quella del lungo lavoro svolto da McKinsey con la società farmaceutica Purdue, produttrice del farmaco antidolorifico oppioide Oxycontin, che tra il 2004 e il 2019 ha pagato commissioni per poco meno di 84 milioni di dollari. La dipendenza da questo medicinale, non di rado degenerata in quella da eroina e/o fentanyl, ha causato 700mila vittime solo negli Stati Uniti. McKinsey ha elaborato strategie per facilitare le prescrizioni del farmaco, immettere sul mercato confezioni con maggiore quantità del prodotto, sminuirne gli effetti collaterali, screditare le testimonianze dei genitori di giovani vittime. La società non ha mai ammesso di aver tenuto comportamenti sbagliati ma ha pagato 641 milioni di dollari per chiudere i contenziosi legali sulla vicenda.

Valori in fumo – Da 70 anni McKinsey è consulente dell’industria del tabacco. Nel 1956 iniziò la collaborazione con Philip Morris, dopo aver consigliato una riduzione dell’organico la società iniziò ad occuparsi anche delle strategie per vendere più sigarette. In particolare l’industria del tabacco iniziò a dosare la nicotina nei quantitativi più idonei per creare dipendenza tra i consumatori. Nel 1964 vennero resi pubblici gli studi che mostravano una diretta correlazione tra fumo e cancro al polmone, probabilmente già ben noti ai produttori di sigarette. Negli anni seguenti McKinsey fornì lo stesso servizio a British American Tobacco e R.J. Reynolds a cui consigliò di investire il più possibile in strategie di marketing per rivitalizzare i suoi marchi (Camel soprattutto) prima che entrassero in vigore regole più restrittive per la pubblicizzazione delle sigarette. E mentre aiutava le aziende a vendere più sigarette la società incassava commissioni dalle agenzie governative e dagli ospedali, consigliando loro come ridurre i costi della sanità appesantiti anche dalle patologie legate al fumo.

Nel 2006 la giudice statunitense che si era occupata delle pratiche dell’industria del tabacco emise una sentenza di 600 pagine. Vi si legge tra l’altro: “I dirigenti delle aziende erano a conoscenza dei danni provocati dal fumo da almeno 50 anni. Nonostante questa consapevolezza hanno costantemente e ripetutamente, con furbizia e inganno, negato queste evidenze al pubblico. Hanno promosso e venduto i loro prodotti letali con zelo avendo come unico obiettivo il successo finanziario senza alcuna considerazione per la tragedia umana e per i costi sociali che questo successo comportava“. Dieci anni dopo questa sentenza, nota il libro, McKinsey era ancora consulente di Philip Morris (diventata Altria) per aiutarla a vendere più sigarette. La società ha tra i suoi clienti anche Juul, il più grande produttore di sigarette elettroniche.

A tutto gas – Un altro terreno di caccia di McKinsey è l’industria petrolifera. Tra i clienti di McKinsey si annoverano Exxon Mobil, Shell, Chevron, British Petroleum, la saudita Aramco, la russa Gazprom, la venezuelana Pdvsa oltre alla compagnia carbonifera australiana Bhp. Tra i principi a cui dice di ispirarsi la società c’è anche “la protezione del pianeta” ma l’attività svolta per queste società non sembra essere stata ispirata dall’obiettivi di ridurne l’impatto sull’ambiente. Anzi, in più di un’occasione il lavoro è stato quello di aumentare il più possibile la produzione di giacimenti di fonti fossili, incluso la più inquinante di tutte ovvero il carbone. Nel 2020 tra i clienti di McKinsey non compariva nessuna società impegnata esclusivamente nello sviluppo di fonti rinnovabili. L’opportunità di continuare a lavorare per l’industria petrolifera è stata messa in discussione da un gruppo dei dipendenti più giovani della società che non hanno però trovato supporto nei partner senior. “Se non lo faremo noi lo farà Boston Consulting” è stata la risposta tranchant.

Conflitto d’interesse in pillole – Un altro degli ambiti in cui McKinsey è molto attiva e fa una buona fetta dei suoi guadagni è la sanità. In più occasioni la società è stata consulente degli enti governativi e di vigilanza (in particolare la Food and drug administration statunitense) e contemporaneamente delle società farmaceutiche e ospedali privati. Durante i 4 anni della presidenza Trump, ad esempio, la società ha incassato 77 milioni di dollari dalla Fda mentre negli ultimi 3 anni circa 400 milioni dalle 9 case farmaceutiche che assiste. Il potenziale conflitto di interessi viene scansato dalla società affermando che i diversi team non condividono informazioni tra di loro. In realtà proprio è questa promiscuità che rende i consulenti McKinsey particolarmente appetibili per chi deve fare approvare un farmaco e incassare miliardi dalla sua vendita. Il libro narra il caso di Biogen e del suo costoso farmaco aducanumab contro l’Alzheimer. Nonostante risultati deludenti della fase di sperimentazione, la Fda ha approvato il medicinale. McKinsey, consulente di entrambe le parti, ha sostenuto vigorosamente il lancio del farmaco che, secondo gli esperti, ha generato false speranze per milioni di malati aumentando a dismisura, e inutilmente, i costi per i programmi di assistenza sanitari. Come consulente del governo britannico McKinsey ha suggerito tagli a spesa e personale del servizio sanitario nazionale e un maggior ricorso ad operatori privati, indicando tra i soggetti più idonei alcuni suoi clienti.

Resistere, resistere, resistere – Le pratiche adottate dalla compagnia assicurativa statunitense Allstate su suggerimento di McKinsey hanno rivoluzionato il settore. In meglio per gli azionisti, in peggio per i clienti. La società ha elaborato strategie per risparmiare il più possibile sui rimborsi. La compagnia assicurativa si è rifiutata di fornire ai giudici che esaminavano una vertenza le “ricette” elaborate dai consulenti nonostante una multa di 25mila dollari al giorno per ogni giorno di ritardo, pagando alla fine 7 milioni di dollari. Alla fine le indicazioni sono venute alla luce. Semplici, in fondo. Cercare di concordare rimborsi veloci ma ridotti, al di sotto di quelli previsti nelle polizze, nel 90% dei casi. Nel rimanente 10% la sollecitazione è stata di ingaggiare un legale e trascinare la vertenza il più in lungo possibile. Poiché questo modo ruvido di porsi nei confronti dei propri clienti ha consentito ad Allstate di aumentare sensibilmente i profitti e quindi i dividendi per i soci, la tecnica si è diffusa a macchia d’olio in tutta l’industria assicurativa.

La democrazia può attendere – Sono diversi i contratti di consulenza di McKinsey con governi non propriamente democratici o con società ad essi riconducibili. Molti i lavori con le agenzie cinesi e con società riconducibili al governo centrali. Il caso più discutibile è probabilmente quello della collaborazione con il regime del principe saudita Mohamed bin Salman, ritenuto dalla Cia il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khassoggi. In particolare la società ha collaborato allo sviluppo di sistemi di monitoraggio del dissenso espresso attraverso i social media. Dopo l’uccisione di Khassoggi, e a differenza di altre società occidentali, McKinsey non ha ritenuto necessario interrompere i suoi affari nel paese mediorientale.

La replica di McKinsey – Il libro, che ha da poco ispirato anche un caustico editoriale del commentatore di Bloomberg Adrian Wooldridge dal titolo “I passi falsi di McKinsey evidenziano un problema dell’intero settore”, ha indotto la società ad emettere una nota sulla questione. Secondo l’azienda di consulenza il libro “travisa radicalmente la nostra società e il nostro lavoro”. Viene quindi negata qualsiasi implicazione nella crisi finanziaria del 2008 e si rimarca come le consulenze della società abbiano contribuito a far crescere il Pil globale, aumentare i posti di lavoro, ridurre le emissioni di Co2 (nel 2022 a record storico secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia, ndr). McKinsey ricorda di aver lavorato anche per il New York Times, sebbene non si capisca bene perché questo dovrebbe indurre i giornalisti del quotidiano statunitense a non condurre approfondimenti sulla società. “Per quasi 100 anni, la nostra azienda ha lavorato duramente per anteporre il successo di altre istituzioni al nostro. Anche se non siamo perfetti, crediamo che questa missione sia più importante che mai“, conclude la nota.

Memento




domenica 29 gennaio 2023

Satiricamente


Bravo Crosetto!

di Marco Travaglio

Dobbiamo delle scuse al ministro Guido Crosetto. Altro che Cicciobomba Cannoniere, Crosetto-Moschetto, ministro della Guerra. È un “pacifinto” come noi del “Fatto Putiniano”. Anzi, per i nostri gusti esagera un po’, perché noi Putin l’abbiamo sempre duramente combattuto, mentre lui vuole “rapporti con la Russia di collaborazione industriale” e perfino militare, con “una joint venture tra Iveco e un’azienda russa” per fabbricare i blindati “Lince” perché siano “adottati dalle forze russe”, essendo “il mezzo migliore al mondo nella sua categoria”. Invece concordiamo toto corde col suo coraggioso tweet sull’ennesima provocazione americana contro Mosca: “Assurdo e gratuito atto ostile della Nato nei confronti della Russia: non si schierano centinaia di carri armati su un confine all’improvviso”. Sante parole, cui replica il solito troll yankee: “Ma se la Russia è anni che sconfina con i suoi aerei nello spazio Nato”. E Crosetto, sferzante: “Ah, allora hanno fatto benissimo. Ma mi faccia il piacere!”. L’altro però insiste: “Forse le è sfuggito anche che hanno invaso uno stato sovrano. Se mandassero i tank a Tallin con la scusa di minoranze russe?”. E Crosetto, impeccabile: “Non penso siano così pazzi da scatenare la terza guerra mondiale”. Ma quello incalza: “Perché la Nato lo è? Sta spostando forze sul suo territorio. Dobbiamo chiedere il permesso anche per muoverci a casa nostra?”. E Crosetto, tetragono: “È evidente che sto parlando con un commentatore da bar sport”. Ma l’altro ribatte: “Noi persone normali non capiamo nulla… i politici sanno cosa è giusto o sbagliato”. E Crosetto, inflessibile: “La Nato che sposta 3.600 carri armati (3.600!!) è una stupidaggine spaventosa spiegabile solo con il delirio attuale di Obama”.
Alla parola Obama, mentre già stiamo digitando il numero di Crosetto per invitarlo a scrivere sul Fatto, ci sorge un dubbio: il ministro non sa che ora c’è Biden? E controlliamo la data della dichiarazione sui Lince in joint venture con la Russia e dei tweet anti-Nato. Quella è del 27 ottobre 2010, quando Crosetto era sottosegretario alla Difesa del governo B.. E questi sono del 9 e 10 gennaio 2017, quando Obama inviò in Polonia per la prima volta nella storia 3.500 soldati, 87 carri armati e 141 mezzi corazzati in funzione anti-russa. A quell’epoca Crosetto, pur confondendo 3.500 militari con “3.600 carri armati”, aveva le idee chiare sulla complessità del concetto di “aggressore e aggredito”. Poi capì che non gli conveniva averle, quindi purtroppo non potrà collaborare al Fatto. Ma è bello scoprire che, quando si applica, ragiona anche lui. La differenza fra Crosetto e un orologio rotto è che l’orologio rotto segna l’ora esatta due volte al giorno: lui una volta nella vita.

Così è

 


sabato 28 gennaio 2023

Indovinello




Estika!



E un bel paio di ciufoli! Gli aggressori in questo caso sono gli israeliani (fascisti) mentre i palestinesi sono gli aggrediti! A meno che Vespa…

Chic!


Entrare nel tempio dello chicchismo spezzino (niente nomi naturally) è una delle golosità che a volte mi regalo per divertimento sommo. Sentire “guardi questo dopodoccia alla rosa di Terif è qualcosa di unico!” oppure le modalità d’uso di creme dai nomi inequivocabilmente francesi ed esotici, la certezza scientifica, di una scienza edulcorata per ovvii scopi, che avvinghiarsi col sapone nero del Marocco per poi risciacquarsi frizionandosi con un “amour friccassé enable over le petit cor” sia uno scaccia rughe e un dispensatore voluttuoso di altri anni chicchosi - pare infatti che una contessa della zona che da lustri usa questi metodi naturali abbia testé festeggiato il duecentesimo genetliaco scalando in solitario il Monte Rosa - trascorsi senza mai dimenticarsi del centro chiccoso per antonomasia. Veder entrare signore in modalità vaporosa, con aurei movimenti e tocchi abbacinanti d’abbigliamento, quel parlare soffuso, evaporante come il profumo stillato dal caffè artisticamente esposto e dalle continue prove di essenze rigorosamente non impattanti con l’ambiente, fa sussultare il cuore per come lo chiccoso lotti per la buona causa del riscaldamento globale, e il probabile Suv che amorevolmente trasporta dette chiccose impegnate non conta ed è solo un volgare moto d’invidia di chi usa il classico bagnoschiuma da supermarket.

Gran Paese il nostro!

 


Messaggio

 




Per meditare sull'allocchismo

 

Questa guerra è follia: dobbiamo manifestare
DI TOMASO MONTANARI
La partecipazione del presidente Zelensky al Festival di Sanremo è un piccolo dettaglio grottesco in una tragedia che ci sta palesemente sfuggendo di mano. Ed è assai significativo che la stampa di sistema dedichi molto più spazio alla discussione di quel dettaglio di quanto non ne dedichi a un vero esame di tutto il quadro a cui esso appartiene: oscurando così l’aspetto che sembra più importante, e cioè la mostruosa miopia delle leadership occidentali (che si tratti di decisori, o di osservatori). Ogni segmento della guerra viene letto come se non avesse un prima e non dovesse necessariamente avere un dopo: cioè prescindendo totalmente dalle cause, e dagli effetti. In una inversione del pregiudizio corrente, a predicare lucidità sono pacifisti e militari, mentre a parlare per slogan, brandendo la bandiera della libertà, sono le cancellerie e i giornalisti mainstream.
E così, nel dibattito sull’invio dei carri armati non è riuscita ad a entrare la domanda cruciale: ammettiamo di mandarli, e dopo che faremo? La risposta del fronte bellicista non è arrivata. Arriva, invece, una contro-domanda: “e se non li mandiamo, non vincerebbe forse Putin?”. È così fin dal 24 febbraio scorso, per ogni tornante di questo incubo che divora tutto il paese aggredito e una generazione intera di quello aggressore. E il risultato è che, via via che Putin comunque vince, dobbiamo innalzare il livello del coinvolgimento occidentale, evitando accuratamente di chiedersi quale sarà il passo successivo, e coprendo questa mancanza di analisi con l’enfasi machista della retorica della vittoria: un’enfasi che dimentica che contro una potenza nucleare non c’è vittoria, ma semmai mutua distruzione.
Uno dei pochi che, con la consueta lucidità, invece questa domanda la pone, è Lucio Caracciolo, che ha così commentato la querelle sui carri armati: “Ciò dovrebbe aprirci gli occhi sulla deriva del conflitto. Continuando lungo questo piano inclinato, prima o poi l’invio periodico e limitato di armi ai combattenti ucraini non basterà più. Bisognerà considerare l’invio di nostre truppe in Ucraina”. Cioè fare la guerra alla Russia: oppure lasciarle prendere tutta l’Ucraina. Caracciolo conclude così: “Questo bivio ‘impossibile’ si sta avvicinando, a vantaggio di Mosca. La consapevolezza dei costi umani, morali e geopolitici di un eventuale collasso di Kiev potrebbe indurre noi occidentali – americani con contorno di satelliti europei – a tentare di congelare lo scontro per il tempo necessario a inventare una convivenza pacifica fra russi e ucraini. Altrimenti ci resterà la scelta fra una catastrofe e una vergogna. Peggio: una miscela delle due”. Difficile dirlo meglio. E la via suggerita da Caracciolo è l’unica possibile: quella della diplomazia, del dialogo, del tentativo di accordo. Ricordo distintamente come nelle prime settimane della guerra noi “pacifisti” venissimo irrisi, quando si parlava di trattative, dicendo che non era quello il tempo: perché, prima di farla sedere a un tavolo, la Russia avrebbe dovuto subire delle serie perdite, ci si diceva. Ebbene, quel tempo non è venuto mai: e ora siamo costretti a innalzare costantemente il livello dello scontro, altrimenti la Russia continua a vincere. Ecco il risultato del cosiddetto realismo dei nostri governanti, dei nostri esperti: un clamoroso disastro. Ed è questo l’aspetto che mette i brividi: l’inettitudine di chi ci governa. Continuando così, se nulla cambia, arriveremo alla guerra nucleare un passo “necessario” dietro l’altro. Miopi: anzi, ciechi. E se un cieco segue un altro cieco, entrambi cadranno nell’abisso.
E allora gli stessi che oggi lo escludono categoricamente, si stringeranno nelle spalle: un minuto prima di volare via anche loro (magrissima consolazione) nel vento nucleare.
La combinazione tra mercato delle armi, interessi economici, sete di potere e pura e semplice stupidità rischia di essere quella fatale, definitiva. Del resto, non è questa la cifra vera di un tempo che corre verso la catastrofe climatica: la totale assenza di una qualsiasi lungimiranza? Inchiodati a un segmento di presente sempre più breve e immediato, non sappiamo nemmeno capire che mandare ora i carri armati significa mandare domani gli aerei, e poi le testate nucleari: e che su questa linea bisogna fermarsi, non correre a rotta di collo.
Siamo tutti stanchi e disillusi, ma è tempo di tornare a manifestare, a parlare, ad argomentare. Sappiamo su chi può contare il fronte della pace, in Italia: su Papa Francesco e un pezzo di mondo cattolico, sulla Cgil, su questo e qualche altro giornale, su pochi intellettuali liberi.
George Orwell diceva che ci vuole uno sforzo costante per vedere cosa abbiamo sotto il naso: cerchiamo di fare questo sforzo, e mostriamolo a tutti. Il bivio tra trattativa e olocausto nucleare è sempre più vicino.

Perfetto (al solito)

 

Begli amici
di Marco Travaglio
L’abbiamo scritto e detto non so quante volte ai governanti e ai media dominanti: attenzione, a furia di dissanguarci con le auto-sanzioni, con invii di armi sempre più potenti e costose, con spese militari sempre più imponenti mentre le bollette e l’inflazione si impennano e si taglia sul Welfare, sulla scuola, sulla sanità, persino sul Reddito di cittadinanza agli ultimi fra gli ultimi, con una retorica bellicista totalmente stonata rispetto al comune sentire di un popolo pacifico e in gran parte pacifista, finirete per danneggiare coloro che dite di voler aiutare. E cioè il popolo ucraino, principale vittima di questa guerra per procura fra Russia e Nato. Perché lo sdegno per gli orrori bellici non dura in eterno, ben presto finisce e sfinisce. E cede il passo all’assuefazione per la contabilità dei morti, dei feriti, dei profughi e delle devastazioni, che diventano aridi numeri senza più carne né sangue né cuore. Dài e dài, quel momento, terribile ma inevitabile, è arrivato. E toccherà l’acme con l’ospitata di Zelensky alla serata finale di Sanremo, da lui chiesta a Bruno Vespa e prontamente concessa da Amadeus (non si sa se perché è più furbo o è più fesso) e da quei geni che guidano la Rai. Qualcuno spegnerà la tv, qualcuno non l’accenderà neppure, qualcuno ne approfitterà per andare al bagno in attesa del vincitore, qualcun altro guarderà il presidente ucraino in t-shirt verdeoliva e si domanderà che diavolo ci faccia in quel contesto di sorrisi, canzoni e cazzoni, col terrore di vederselo spuntare l’indomani dall’oblò della lavatrice. Faceva quasi tenerezza l’altra sera il suo paraninfo Vespa che, affranto per l’ennesimo sondaggio sugli italiani contrari al riarmo dell’Italia e dell’Ucraina, domandava agli ospiti (tutti bellicisti, ci mancherebbe) perché il popolo bue si ostina a non capire quanto è bella la guerra, specie se atomica. E nessuno osava dirgli che gli basterebbe guardarsi allo specchio.
Poco dopo la Liberazione, Leo Longanesi progettava di fondare la sua casa editrice e, da gran conoscitore degli italiani, spiegò a Montanelli che si doveva partire con un’apologia di Mussolini: “Vedrai, da qui a tre mesi saremo sommersi di patacche sulla Resistenza. E da qui a un anno il pubblico comincerà, giustamente, a vomitarli. Voglio un’apologia del Duce coglione”. A furia di retorica resistenziale, spesso in bocca a chi era stato fascista fino al 24 luglio ’43 o addirittura al 24 aprile ’45, Longanesi sentiva avvicinarsi l’urlo Aridatece er Puzzone. Lo stesso effetto boomerang sortirà a lungo andare la petulante retorica zelenskiana, se i presunti amici degli ucraini non li aiuteranno a evitarla. Possibilmente prima che qualcuno organizzi una manifestazione per inviare le armi a Putin. E riempia la piazza.

L'Amaca

 

Grande ritorno: il buon costume
DI MICHELE SERRA
Contrastare “il degrado morale”, sanzionare chi attenta al “buon costume”.
E la “nudità” come pietra dello scandalo, specie se sulla pubblica via. Nella proposta di legge sulla prostituzione del viceministro Cirielli, meloniano, nessuna traccia di mezzo secolo di lavoro e di lotta delle donne, anche delle prostitute, sul tema arduo e spesso doloroso dell’uso del proprio corpo, della seduzione, della sventura di vendersi ma anche della libertà di farlo; e sul solo vistoso obbrobrio che quella pratica antica patisce, che è lo sfruttamento (soprattutto maschile, ma non solo) del corpo altrui. Il solo vero scandalo è il magnaccia, questo ci illudemmo si fosse imparato per sempre. Non era vero.
Non si pretende che Cirielli abbia consultato Carla Corso e Pia Covre, storiche leader del movimento di liberazione delle “lucciole”, esse stesse prostitute politicizzate, donne intelligenti e coraggiose che negli anni Settanta e Ottanta molto fecero, e molto scrissero, perché essere prostitute non volesse dire essere anche schiave, carne da macello.
Ma ritrovarsi, 65 anni dopo la legge Merlin, alle prese con un linguaggio e una mentalità precedenti la legge Merlin, è abbastanza impressionante.
Covre e Corso come Franco Basaglia, come i primi antiproibizionisti, come tutti i protagonisti di quella folle e breve parentesi di pochi anni. Gente che credeva fosse possibile spezzare ogni tipo di catena, di soggezione, di dipendenza. Per poi ritrovarsi, mezzo secolo dopo, un governo che parla di “buon costume” e niente sa, niente vuole sapere di ciò che gli sembra solo errore, scandalo, impurità.
L’egemonia culturale della sinistra è una grossa balla messa in giro solo per coprire la schiacciante egemonia culturale della destra.

venerdì 27 gennaio 2023

Riflettente

 

«Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti…»

                                                                  Wiston Churchill

Mai dimenticare!



In questa foto del bimbo Istvan Reiner, di 4 anni, sorridente prima di andare a morire, sono racchiusi tutti i motivi per non dimenticare mai la vergogna massima dell’Umanità.

Tuttoaposto?

 




Chapeau!

 

La nostra unica arma
di Marco Travaglio
Sembra un secolo che ci siamo ritrovati in oltre 100 mila in piazza San Giovanni a Roma per un’iniziativa italiana sul cessate il fuoco e il negoziato in Ucraina. Invece era solo il 5 novembre. Speravamo che quella marea umana scalfisse il monolite della lobby delle armi che soffia sul fuoco attraverso i suoi camerieri infiltrati nei governi europei, compreso il nostro. Ma ci vuol altro per intaccarlo. A questo serve l’ossessiva e tragicomica caccia a giornalisti, spie, hacker, troll, influencer e hater putiniani che s’infilano pure nelle urne, ribaltando le elezioni dell’intero orbe terracqueo: a nascondere le asfissianti e scandalose ingerenze americane in Europa. Non solo in Italia dove, sotto il duo Draghi-Meloni, si obbedisce agli ordini yankee ancor prima di riceverli. Ma anche in Germania, dove il saggio cancelliere Scholz ha dovuto rinunciare alla saggia ministra della Difesa Christine Lambrecht perché osava difendere l’interesse nazionale ed europeo dalle pressioni Usa sui Leopard. Scholz ha resistito fino all’altroieri. Poi Biden, di nuovo in mano ai falchi, ha ignorato gli inviti alla prudenza del Pentagono e del generale Milley (anche lì le teste più lucide sono i militari) e annunciato l’invio di 21 Abrams per piegare Berlino, salvo poi precisare che – pur avendone migliaia in giro – quei 21 tank gli Usa devono ancora costruirli. Invece i Leopard tedeschi arrivano a marzo.
Quando si scoprirà che non bastano neppure quelli, l’escalation salirà ancora. Fino all’invio di truppe, che poi è l’unica mossa in grado di fare la differenza sul campo, dove la controffensiva ucraina s’è fermata e si attende quella russa. Sarebbe l’ufficializzazione della terza guerra mondiale che, nella dottrina militare di Mosca (ma anche della Nato), prevede l’atomica tattica. Qua e là, nei talk, le Sturmtruppen da divano già ne parlano: “Eh certo, se ci verrà chiesto anche questo sacrificio, dovremo pensarci…”. Non sanno, gli idioti, che una guerra atomica non ti dà neppure il tempo di telefonargli, alle truppe. Ma a questo siamo. Giorgia Meloni l’aveva detto il 26 ottobre alla Camera in un passaggio, da tutti sottovalutato, della sua replica prima della fiducia: “A una pace giusta non si arriva sventolando bandiere arcobaleno nelle manifestazioni… L’unica possibilità di favorire un negoziato nei conflitti è che ci sia un equilibrio tra le forze in campo”. Quindi, siccome la Russia possiede 5.977 testate nucleari e l’Ucraina zero, per garantire “l’equilibrio delle forze in campo” invieremo a Kiev anche 5.977 testate nucleari e fino ad allora non sosterremo alcun negoziato? In attesa di risposte, è l’ora di tornare in piazza a sventolare bandiere arcobaleno: l’unica arma che abbiamo contro questa banda di squilibrati.

giovedì 26 gennaio 2023

Come no!

 


Ma certo si figuri, ci mancherebbe! Il signor MMD, boss che si vanta di aver ucciso così tante persone da riempire un cimitero, chiede le miglior terapie e cure per la sua malattia! 

Mentre gente comune, onesta lotta negli ambulatori per accorciare le code frutto di una gestione da terzo mondo, mentre i ricchi possono andare a consulto dai luminari oncologici e i poveri no, mentre le cliniche di super lusso sorgono come funghi, questo assassino che non si pente dei suoi misfatti, esige cure e medicinali all'avanguardia. 

E un vaffanculo no? 

Dovere di uno stato democratico è garantire le cure per tutti, carcerati compresi. 

Ma da lì a cercare le miglior medicine irraggiungibili per i comuni mortali, è tutta un'altra cosa! 

E rivaffanculo!  

Molto interessante

 

La posta di Daniele Luttazzi. Molto, molto interessante. 

L’altra metà di Agnelli: tra Bilderberg, P2, soldi offshore e il tribunale

E ora, per la serie “Una pentolaccia piena di vespe”, la posta della settimana.

Caro Daniele, mi è parsa molto fuori luogo la beatificazione di Gianni Agnelli. Il presidente Mattarella lo ha addirittura definito “alfiere del prestigio della Repubblica”. Da quando evadere le tasse per centinaia di milioni con società offshore è prestigioso? Da quando vale tutto? (Rita M.)

di Daniele Luttazzi 

Dal 1994, ovvero da quando il piano piduista di rinascita democratica cominciò a essere implementato: i lavori sono ancora in corso. Certo, nessuno ha ricordato quello che scrisse Luigi Cipriani (“Nel 1952 nacque ufficialmente il Bilderberg Group. Nel 1967 venne alla luce che il Bilderberg era finanziato dalla Cia. Fra i componenti italiani del Bilderberg c’erano Giovanni Agnelli, Vittorio Valletta, Guido Carli, Amintore Fanfani e Giovanni Malagodi. Tra gli statunitensi: Gerald Ford, Henry Kissinger, David Rockefeller, Andrew Goodpaster, comandante delle forze Usa in Europa, Allen Dulles della Cia, e il generale Morstad, comandante della Nato. Nel 1973 Giovanni Agnelli e David Rockefeller si fecero promotori di una sorta di nuovo Bilderberg, allargato al Giappone: la Trilateral, con funzioni analoghe a quelle del Bilderberg (…). Il massone Valletta inventò le schedature dei lavoratori Fiat. 
A capo del servizio di spionaggio interno Fiat c’era un ex colonnello di aviazione, Mario Cellerino, pilota personale di Gianni Agnelli, che per vent’anni era stato nei Servizi segreti. Per la Fiat lavorava anche Marcello Guida, questore, ex carceriere di Pertini a Ventotene, implicato nel caso Pinelli a Milano e costruttore della pista anarchica per piazza Fontana. (…) Roberto Fabiani, giornalista de L’Espresso (massone e confidente di Licio Gelli) scrisse nel libro I massoni in Italia (1978) che Gianni Agnelli, con altri industriali, faceva parte della massoneria, nella quale fu introdotto da Valletta, e della P2. Agnelli disse ai giudici che la Fiat aveva finanziato la massoneria di Lino Salvini. Fra il 1971 e il 1976, 15 miliardi, una cifra enorme. Sappiamo che attraverso Edgardo Sogno, iscritto alla P2, i finanziamenti finirono anche alla loggia di Gelli, ma in un Paese che riabilita pure Craxi (basta definire la sua latitanza ‘esilio’, e anche lui diventa un alfiere del prestigio della Repubblica), cosa vuoi pretendere? A me ha colpito, nell’intervista concessa in simultanea ai due giornali di cui è editore, Repubblica e La Stampa, la franchezza con cui John Elkann ha risposto alle domande dell’ex direttore Ezio Mauro e del direttore Massimo Giannini per tracciare un ricordo di Gianni Agnelli a 20 anni dalla morte (“La lezione di mio nonno: mi ha insegnato a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite”). 
Fa il paio con la franchezza degli ex operai Fiat intervistati dai due giornali per il panegirico dell’Avvocato (“Per 30 anni ci hanno mangiato tutti”). Da incorniciare l’incipit: “Privatizzare gli utili e socializzare le perdite col ricatto dei licenziamenti: è il lascito morale che Gianni Agnelli ha consegnato a John Elkann, che col fratello Lapo e la sorella Ginevra è in causa con la madre, Margherita, la quale sostiene di essere stata fregata al momento degli accordi sull’eredità Agnelli: non era a conoscenza dell’ingente patrimonio offshore, non dichiarato al Fisco, dell’Avvocato. ‘Ma se lo sapevano tutti!’: questo in soldoni l’argomento sarcastico degli avvocati difensori dei tre figli. Sono in ballo miliardi di euro, soldi che tutti sapremmo come utilizzare. Se il tribunale riconoscerà a Margherita la legittima (il 50%) dell’eredità di mamma Marella, Margherita toglierà a John il controllo della società Dicembre, che gli dà la maggioranza in Exor attraverso l’accomandita olandese ‘Giovanni Agnelli B.V.’. Andrea Agnelli: ‘Vorrei avere io i vostri problemi’”.

A volte...

 


Booom!

 

Aspetta e spara
di Marco Travaglio
La situazione in Ucraina è così scandalosamente chiara che nemmeno l’atlantista più ottuso osa ripetere la barzelletta “mandiamo armi per favorire la pace”. Preferiscono l’altra, un filo meno spudorata: “Negoziare non si può perché Putin non vuole”. Strano, perché è Zelensky ad aver proibito per decreto agli ucraini, dunque anche a se stesso, di negoziare con la Russia di Putin. Strano, perché il principe dei negoziatori, Kissinger, che a cent’anni è più lucido di chi potrebbe essere suo pronipote, continua a dire che negoziare con Putin è l’unica cosa che si può, anzi si deve fare per evitare la catastrofe nucleare. Tantopiù in una fase di stallo militare sul campo congelato dal Generale Inverno. Invece, per far dimenticare le carte top secret nel suo garage, Biden arruola in call Scholz, Macron, Sunak e Meloni, ma “non contro la Russia”, per carità: tanto, almeno in Italia, è tutto segretato e ci siamo già assuefatti a 250mila morti in 11 mesi. Fortuna che a informarci provvede il vicecapo dell’intelligence ucraina, Vadym Skibitsky: “Ora possiamo colpire il Cremlino”. Cioè fare, anche con le nostre armi, ciò che la nostra Costituzione “ripudia”: la guerra per risolvere le controversie internazionali.
Il ministro della Guerra Crosetto-Moschetto, previa telefonata yankee con la lista della spesa, manda lo scudo anti-aereo Samp-T, che costa 800 milioni (l’intero bottino rapinato ai disoccupati col taglio del Rdc), ma ovviamente andrà rimpiazzato con nuove spese militari, sennò si resta “senza scorte”. E giù nuove commesse ai suoi ex soci, clienti e committenti della lobby armata. Intanto a Kiev salta mezzo governo perché è uno dei più corrotti d’Europa – infatti lo vogliono tutti nell’Ue – e ruba a man bassa sui nostri “aiuti” (un giorno scopriremo dove finiscono le armi, ma già si intuisce). Però Zelensky sarà al Festival di Sanremo, fra un amore e un cuore, col celebre tormentone “Armi armi armi”. E i giornaloni sono tutti eccitati per gli Abrams e i Leopard. Repubblica: “Svolta nella guerra”, “Il patto dei panzer”, “Escalation”. Evvai! Corriere: “Così il G7 affiancherà la Nato. Adesso Biden vuole guidare un largo fronte unificato contro Russia e Cina”. Hurrah! Stampa: “Arrivano i carri armati”: Slurp! Finché c’è guerra c’è speranza. E giù botte a quei disertori di Scotto, Boldrini, Camusso e il pericoloso cattolico del Pd Paolo Ciani che votano finalmente contro le armi con 5Stelle e Sinistra. Una Spectre subito smascherata dall’agente segreto Paolo Mieli: “Tra i parlamentari recalcitranti alle armi all’Ucraina c’è Paolo Ciani in rappresentanza di Sant’Egidio, si forma così un crogiolo con i dalemiani, quelli di Sant’Egidio e i 5Stelle. Questo nucleo d’acciaio sarà quello che comanderà sulla sinistra italiana”. Ma magari.

L'Amaca

 

Ripulire il saloon
DI MICHELE SERRA
Chiunque abbia pregiudizi sugli americani di destra (io, per esempio) farà bene a non leggere il libro di Mike Pompeo Never Give an Inch, perché i pregiudizi ne uscirebbero tragicamente rafforzati.

A partire dal titolo — che potremmo tradurre Non mollare di un centimetro — e dal sottotitolo Fighting for the America , il libro sembrerebbe ambientato nel mondo del wrestling. E in un certo senso lo è. Dalle anticipazioni, purtroppo generose di citazioni, emerge una concezione della politica rudemente muscolare, molto diffidente nei confronti di assurde incombenze come la diplomazia, il dibattito, le trattative, la dialettica e altre svenevolezze poco virili. Un cazzotto assestato al momento giusto basterebbe a ripulire il saloon (ecco, “Ripulire il saloon” sarebbe un ottimo titolo per il sequel, l’editore americano tenga presente).

A Pompeo non piacciono il Papa, ritenuto un mollaccione perché sulla libertà di culto vuole trattare con i cinesi invece di invaderli con le guardie svizzere; l’Europa, infestata di comunisti e di “agenti ingenui della sinistra”; e i leader europei, che, testuale, “non hanno l’istinto di vedere la Cina come una minaccia”. Non hanno l’istinto. E dire che basta vederli, i musi gialli, per intuire che sono pericolosi.
Non senza avere espresso la più viva solidarietà all’editor di mister Pompeo (“è proprio sicuro di voler scrivere ‘istinto’?”, deve avergli inutilmente detto), ricordiamo ai lettori che questo illuminato statista è stato capo della politica estera degli Stati Uniti sotto Trump, e potrebbe candidarsi alla Casa Bianca. Viene l’istinto di emigrare su Marte, non fosse che rischiamo di incontrarci Elon Musk.

Daniela e il Mito (?)

 



Agnelli: lo sciatore pieno di charme contro i comunisti

NEL VENTENNALE DELLA MORTE - Macchine, Juve, donne e finanza Giovanni Agnelli ha segnato la storia industriale e del costume del Paese degli anni 70 e 80

di Daniela Ranieri 

Agnelli santo subito . O di come un playboy miliardario con molto potere e molti averi diventa, a vent’anni dalla morte, un principe rinascimentale, un santo, un sex symbol, un genio. E dello strano caso di due giornali che intervistano in stereo il proprio editore che parla di suo nonno, di cui è erede assoluto, in una specie di doppia riunione aziendale noiosissima sull’argenteria di famiglia, tutta numeri e auto-elogi. E di come l’unico a essere guarito dalla piaggeria verso Agnelli (e relativa dinastia) sembra essere Berlusconi, che ai tempi d’oro teneva la foto di Gianni sul comodino “al posto del santino della Madonna”. E del trasferimento di adulazioni e lusinghe da Gianni a John (evidentemente si ereditano pure quelle).

Come può un uomo che porta una cravatta così (accorciata, ndr) essere l’uomo meglio vestito in Italia? Lui però lo era. Agnelli, documentario Sky.

Una grande allucinazione collettiva prese l’Italia negli anni 80. Chi si faceva di eroina, chi pensava che la disco music fosse musica, chi credeva che Agnelli, siccome abbiente, fosse l’epitome dell’eleganza.

Il sistema ha rivelato una forte vitalità. Per il capitalismo familiare legato al territorio, che è grande parte del nostro tessuto economico, il ventennio che abbiamo alle spalle è stato positivo. John Elkann, ad di Exor e presidente del gruppo Gedi, editore di Stampa e Repubblica, su Repubblica.

Non c’è dubbio che il capitalismo familiare stia benone; per John questo è sintomo di ottima salute del mondo del lavoro, festeggiata oggi dai migliaia di operai in cassa integrazione, dagli esuberi di Pomigliano, dai licenziati di Termini Imerese, dai 4 mila cacciati da Mirafiori, etc. Lo testimoniano i suoi giornali.

Aveva uno charme leggendario, a cui anche io, sulle prime, ho cercato di resistere.Henry Kissinger, Stampa. Aveva la saliva (degli altri) sul polsino.

Agnelli ha rappresentato il sogno degli yuppies, il desiderio di milf, cougar e signorinelle pallide… Uno scatto, nel ranch argentino Los Cardos, nel 1978, ritrae lo zio in camicia denim, appena sbottonata, i capelli svolazzanti, lo sguardo, fingendo sorpresa, era però attento alla posa: è il ritratto più vero e riassume il portamento, lo stile e l’astuzia ricercata dell’uomo più importante. Il Giornale. Fortebraccio lo chiamava “l’Avvocato Basetta”, e diceva che era abbronzato come un marron glacé. Son gusti.

Restano gli interrogativi sul destino della Fiat. Memoria a Torino, cuore ad Amsterdam e cervello a Parigi? Rep & Stampa a John Elkann. Fiat- Chrysler ha sede legale ad Amsterdam. La transumanza di holding e ricconi da tutto il mondo verso Amsterdam, dove fisco e burocrazia sono praticamente assenti e tali da favorire in ogni modo i grandi capitali, mo’ si chiama cuore.

Non abbiamo venduto proprio niente: abbiamo anzi comprato Chrysler per creare FCA. John Elkann, ibidem.

“L’Avvocato avrebbe mai venduto la Fiat?” “Mai. Intuiva che dopo di lui sarebbe accaduto”. Jas Gawronski, intervistato da Aldo Cazzullo, Corriere. Chi mente? Il nipote o l’amico?

Nonostante una gamba distrutta e un tutore, sciava con più eleganza di chiunque altro. Doc Agnelli, Sky. A leggere le apologie odierne, si direbbe che anche da morto se la cava.

In barca mangiava più volentieri: pasta al pomodoro e pesce fresco. Si divertiva a tirare sul prezzo: il pescatore chiedeva 100, lui chiudeva a 80. Poi gli dava 100 lo stesso. Ma voleva far vedere che sapeva trattare. Jas Gawronski. L’umanità si divide in due: chi trova divertenti e chi ripugnanti le tirchierie e le stravaganze dei ricchi.

Il sistema bancario e finanziario italiano, che da sempre aveva beneficiato della Fiat, in quel momento non ci ha sostenuto. Una vera e propria violenza. John Elkann, Rep. Nel 2002 banche nazionali a internazionali diedero alla Fiat un prestito da 3 miliardi di euro. Una violenza inaudita.

Ma quello è stato anche il momento in cui la mia famiglia si è unita per fare fronte comune. John Elkann, ibidem.

Infatti lui è in causa con sua madre, figlia di Gianni, per contendersi l’eredità del nonno.

Mi colpisce quanto, a 20 anni dalla sua morte, il ricordo di “Gianni” – qui a New York nessuno lo chiama l’Avvocato – sia sempre vivo, affettuoso, nostalgico… Tory Burch, la grande creatrice di moda, per qualche ragione finisce col parlare di lui e mi confessa che per lei è un “Role Model per l’eleganza e il fascino” . Mario Platero, Rep. Coraggio, fatevi forza.

La gente saliva sulla rampa del Lingotto dove c’era la bara di Gianni Agnelli come i musulmani vanno alla Mecca. Doc Agnelli, Sky.

No comment.

Il vero pericolo lo corse su un’altra barca, lo Stealth: sbagliò manovra, finì su uno scoglio, il timone che teneva sino a un attimo prima saltò in aria, per poco non lo trapassò. Visse l’incidente come uno smacco, perché era un ottimo velista.
Jas Gawronski.

Una metafora più precisa per le sorti dell’industria italiana in mano ad Agnelli & Eredi non si poteva trovare.

“L’Avv. Agnelli vorrebbe conoscerla, siamo qui alla prima fila”. Questo biglietto mi venne recapitato da un commesso in un auditorium torinese… fu un tuffo al cuore. Dovevo essere rosso in volto. Gestii con cura – da minuscolo pianeta – i momenti di vicinanza a quel sole. Un sole irresistibile per fascino.
Mario Monti, Rep.

Professore, si contenga.

I comunisti conquistarono Torino e il Piemonte, un vero choc per Agnelli. Carlo De Benedetti, doc Agnelli, Sky.

“Il miracolo italiano ha fra le sue condizioni e i suoi costi situazioni come questa del 1957 a Pisa: la Marzotto chiude, la sezione Fiat di Marina di Pisa, una vecchia fabbrica di aeroplani licenzia, nel 1957, 290 operai; 279 sono iscritti alla Fiom, quasi tutti comunisti e socialisti, 30 segretari di sezioni comuniste” (Mario Isnenghi, Storia d’Italia). Fu un vero choc la Fiat per i comunisti, semmai.

Chiamato a svolgere la funzione di senatore a vita dal Presidente Cossiga portò in Parlamento una acuta sensibilità verso quelli che riteneva essere gli interessi comuni della società italiana. Sergio Mattarella, Rep. Di Agnelli si ricorda la fiducia votata nel ’94 al gov. Berlusconi; fino ad allora i senatori a vita si erano sempre astenuti.

La borghesia non si mobilita come la classe operaia e la sua presenza non è nelle piazze, la sua reazione è stata troppo sentimentale, doveva essere più razionale. Gianni Agnelli, nel doc a lui dedicato. Da qui, nel 1980, la marcia dei 40 mila a Torino che chiedevano “il diritto di poter tornare al lavoro”. La vittoria del Bene, di cui oggi si raccolgono i frutti.

mercoledì 25 gennaio 2023

Chiarisco



Mi dichiaro contrarissimo all’ennesimo invio di armi all’Ucraina, a questa escalation molto pericolosa per tutti gli esseri umani, a questo andare dietro a questo appisolato anziano che ci fa credere che con la forza piegheremo le belliche volontà di un aggressore che sappiamo storicamente mai e poi mai s’arrenderà. Mi rifiuto di condividere la scelta politica di spendere altre centinaia di milioni in armi per mano del Crosetto che fino a poco tempo fa rappresentava le italiche industrie belliche, mentre nel paese molti sono attanagliati da seri problemi economici. La guerra, ogni guerra, ogni conflitto, è una pazzia che foraggia multinazionali di morte. È l’unico concetto valido e da normodotato, proferito da Papa Francesco. Ogni altro tentativo di convincermi al proposito resta vacuo e vano. Solo il confronto, la dialettica, lo scendere a patti in prospettiva di pace rimangono l’unica via, stretta, per costruire un mondo migliore. L’escalation guidata dall’appisolato statunitense - a proposito: mi raccomando dategli il Nobel per la Pace come avete fatto con altri - l’accondiscendenza di un governo che non mi rappresenta, il bellicismo eclatante della Nato, costituiscono motivo d’inasprimento della già troppo cruenta guerra in corso. Il messaggio del presidente ucraino al festival di Sanremo oltre ad essere fuori luogo, ribadisce la sua speranza: farci entrare nel conflitto. Una pazzia spacciata per umanità, ad uso e consumo degli allocchi. Che siamo noi!