giovedì 31 agosto 2023

Raccogliete i Tocci

 

Palla di lardo
di Marco Travaglio
Era da un po’ che ci mancava Nathalie Tocci, cappellana militare delle truppe Nato in Ucraina e nel mondo. Quella che “non può parlare di Russia chi non è stato in Russia”, ma neppure chi ci è stato o ci sta perché è russo. Quella che le parole non le scrive o le pronuncia: le mitraglia, crivellando persone e cose tutto intorno. Temevamo che il trasloco dal Cda di Eni a quello di Acea e il tragico flop della controffensiva ucraina l’avessero dirottata su temi più consoni, tipo i lampioni fulminati nelle vie di Roma. Invece no: dopo il meritato riposo, la guerriera è tornata più cazzuta che pria a inalare l’odore del napalm al mattino e a marciare avanti e ’ndré sul divano. Ieri, con un fondo sulla Stampa e un’intervista al Giornale, ha giustiziato nell’ordine: quel fottuto putiniano del Papa (“parole gravi” che “riesumano un ricordo di violenza e prevaricazione”); e quel palla di lardo di Zelensky, che osa evocare la “via diplomatica” in Crimea senza chiederle il permesso (“Se apre ai negoziati, gli ucraini lo cacciano dopo due minuti” e, se non lo fanno loro, ci pensa lei).
Incurante della realtà (non è un suo problema), la sergenta maggiore Tocci-Hartman parla come se fosse sempre il 24 febbraio 2022: “Non c’è un compromesso, la guerra andrà avanti finché uno vince e l’altro perde” e vince l’Ucraina perché lo dice lei: “la guerra finirà quando la Russia si ridefinirà come Stato-nazione”, cioè diventerà spontaneamente ciò che vuole la Tocci, si ritirerà dalle 5 regioni occupate, farà fuori Putin e si infliggerà da sola “una sconfitta che le faccia capire che non è più una potenza imperiale”: intanto attendiamo con ansia “un cambiamento politico, caos, tentativi di golpe, crollo del regime”, magari “un nuovo Prigozhin che non si fermerà a 200 km da Mosca” e altre delizie sfuse. Che ritroviamo pari pari nell’intervista al Corriere del consigliere di Zelensky Mykhalo Podolyak, roba da far sospettare che Tocci e Podolyak siano la stessa persona: il Papa “incoraggia le manie genocide di Putin” e, con buona pace di Palla di lardo, “è impossibile negoziare col criminale”. Bontà sua, il consigliere aggiunge che “preferiamo il ritiro volontario dei russi a battaglie su larga scala”, perché “la Russia deve perdere”. E qui il sospetto è che Podolyak sia la reincarnazione di Max Catalano (“Meglio sposare una donna ricca, bella e intelligente che una donna brutta, povera e stupida”). In attesa degli infermieri, il NYT dà lo “sconcertante” bilancio Usa della controffensiva: pochi chilometri riconquistati al prezzo di 70mila soldati ucraini morti da aprile (nell’intero 2022 furono 120mila) in un esercito di 500mila effettivi (inclusi riservisti e paramilitari). Quando li avranno finiti, Podolyak faccia un fischio: così gli paracadutiamo la Tocci.

L'Amaca

 

Una star sottopagata
DI MICHELE SERRA
Per quanto poco io possa capire di pubblicità e promozione, il concepimento della grandiosa campagna nazional-patriottica “Open to meraviglia” è costato molto poco, meno di cinquecentomila euro. Come un trilocale a Torvaianica. È un ingaggio che la Venere di Botticelli avrebbe dovuto respingere con sdegno: non si tratta così una star.
E dunque, al netto dei dovuti accertamenti procedurali e amministrativi, che certamente interessano, ma francamente non appassionano, il sospetto è che l’ilarità destata da quella povera Venere travestita dipenda anche dalla penuria economica dello Stato, che per promuovere il suo asset più rilevante, il turismo, non dispone nemmeno di quel paio di milioncini che si penserebbero necessari per sfornare un’idea all’altezza della gran fama mondiale dell’Italia dell’arte e del turismo.
Poi ci sarebbe anche il buon gusto, naturalmente, ma quello, come il coraggio di don Abbondio, non è che uno se lo può dare da solo. Fatto sta che il combinato disposto (pochi quattrini, poco buon gusto) minaccia di produrre nuovi inciampi, per esempio dotare la Venere dei tacchi tredici che come è noto non aiutano a mantenere l’equilibrio; o mandarla a sciare a Cortina, come si minaccia in queste ore, senza metterle in tasca i soldi per difendersi dal caro-scontrino; oppure a Venezia nel cuore del weekend, dove rischia l’asfissia da calca, lei così esile.
Il colpo di scena finale sarebbe che gli eredi Botticelli, veri o falsi, scendessero in campo per chiedere quanto di loro spettanza. Anche se è già chiaro che, con cinquecentomila euro a disposizione, non c’è trippa per i gatti.

Sorteggi!

 


mercoledì 30 agosto 2023

A Francesca

 


Ogni giorno

 


Ragogna!

 


Babbania

 

Maestri di vita
di Marco Travaglio
Dopo il ministro-cognato e quello delle piante e delle dosi, anche il giornalista-principe consorte ci regala una lezione di vita. Ricapitolando. 1) Tutorial di Lollobrigida per una sana alimentazione: per mangiare veramente bene è consigliabile essere poveri o – per i più sfortunati, cioè per i ricchi – diventarlo al più presto, perché “da noi spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi: cercando dal produttore l’acquisto a basso costo, spesso comprano qualità”. E poi chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane. 2) Avviso ai naviganti di Piantedosi: “Il naufragio di Cutro è colpa di genitori irresponsabili che fanno partire i figli. La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”. Quindi, cari migranti, se a casa vostra vi torturano o vi bombardano e la cosa non vi garba, imbarcatevi su yacht o navi da crociera, ma evitate i barconi, sennò poi non venite a lamentarvi se affogate. 3) Consigli di Giambruno contro gli stupri: “Se vai a ballare, tu hai tutto il diritto di ubriacarti, ma se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche, perché poi il lupo lo trovi”. Lo dicono le statistiche: le ragazze sobrie non le violenta nessuno, perché gli stupratori prediligono quelle che alzano il gomito. Se poi, oltre ad astenersi dall’alcol, le donne si lucchettassero pure gli slip con una cintura di castità, o li presidiassero col filo spinato tipo cilicio o con trappole per topi, sarebbero in una botte di ferro. Certo, per mettersi definitivamente al sicuro, dovrebbero evitare proprio di uscire di casa. Invece pretendono di andare in giro senza il bodyguard e poi si lamentano se le violentano. Ma allora lo dicano che cercano grane.
Prendiamo la lobby più privilegiata: quella dei poveri. Oltre a sfruttare l’indubbio vantaggio di mangiare meglio, o di non mangiare proprio evitando i grassi in eccesso, le indigestioni, le intossicazioni, i bocconi per traverso e la regola delle tre ore prima di fare il bagno, il miserabile ha anche altri vantaggi. Non avendo soldi, nessuno glieli può rubare. Non avendo una casa, non teme rapine, terremoti, cadute dalle scale o dal balcone o dalla finestra, rumori dei vicini, puzze di fritto o di cipolle dalla porta accanto. E il caro-affitti e il caro-bollette gli fanno un baffo. Siccome non ha neppure la macchina, glielo mette in quel posto al caro-Rca, al caro benzina, al caro-accise. E in più va a piedi, cioè fa sport, che è tutta salute. Anche la lobby dei migranti, anziché lamentarsi sempre, dovrebbe ringraziare: se il tuo barcone affonda, puoi fartela a nuoto, che è uno sport olimpico, e metti su muscoli. Ma, se non ci sali proprio, non puoi proprio naufragare. E soprattutto: se tieni la bocca chiusa, le cazzate non escono.

Paparusso

 

Francesco sgamato da Kiev: anche lui fa propaganda a Putin
DI DANIELA RANIERI
Ormai è certo: il Papa fa propaganda a favore della Russia. Poiché il 25 agosto, in collegamento video per la Giornata della gioventù russa San Pietroburgo, ha osato esortare i giovani a non dimenticare di essere eredi della “grande Russia dei santi, dei re, la grande Russia di Pietro I, Caterina II, quell’impero grande, colto, di grande cultura e grande umanità”, ha praticamente confessato di tifare per Putin.
Il portavoce del ministero degli Affari esteri ucraino, Oleg Nikolenko, lo ha smascherato su Facebook: “È con tale propaganda imperialista e la ‘necessità’ di salvare ‘la grande Madre Russia’ che il Cremlino giustifica l’assassinio di migliaia di uomini e donne ucraini e la distruzione di centinaia di città e villaggi ucraini”. Perbacco. A parte il dettaglio che il Papa non ha parlato di necessità di salvare alcunché, se vale la proprietà transitiva deve ritenersi che anch’egli “giustifichi” assassinî e distruzione. Importa poco che il Papa abbia precisato cosa intendesse invitando i giovani a essere “costruttori di ponti tra le generazioni”: non certo essere imperialisti e zaristi, ma “mantenere viva la storia e la cultura di un popolo” per diventare “artigiani di pace in mezzo a tanti conflitti”, “seminatori di riconciliazione”; per le autorità ucraine, invece, celebrando la grandezza del popolo russo intendeva proprio lodare la volontà di potenza di Putin.
La Chiesa cattolica ucraina ha chiesto alla Santa Sede immediate “spiegazioni”. Come già un anno fa, quando pretese di educare il Papa su come si fa la Via Crucis (il Vaticano aveva scandalosamente deciso di far portare la croce a una donna russa e una donna ucraina insieme), l’arcivescovo di Kiev Sviatoslav Shevchuk ha espresso “dolore e preoccupazione” perché quelle parole possono essere “comprese da alcuni come un incoraggiamento di nazionalismo e imperialismo” e “ispirare le ambizioni neocoloniali del Paese aggressore”. Cioè, ricordare ai giovani che vengono da un grande passato, come è scritto su tutti i libri firmati da storici e non da propagandisti Nato, vuol dire esortarli a sostenere Putin e, perché no, a invadere l’Europa “fino a Lisbona”.
La pistola fumante del filo-putinismo del Papa, secondo un’interpretazione pedestre pari solo a quella dei nostri commentatori (Galli della Loggia definì la posizione del Papa “filo-russa” tout court), è che Mosca ha accolto favorevolmente le sue parole (avrebbe dovuto rigettarle).
Questa polemica è la prova che la guerra (comprensibilmente per chi la vive, meno comprensibilmente per chi la fomenta da casa) causa la resa del pensiero, la capitolazione dello spirito critico. Non si accorgono nemmeno, i russofobi, di cadere in contraddizione: non solo perché già da erede al trono Pietro viaggiò si aprì alla cultura occidentale, ciò che lo porterà a operare una rivoluzione economica, sociale, culturale; ma anche perché il popolo russo e quello ucraino, lungi dall’essere “la stessa cosa” per ragioni etniche e culturali, non erano certo popoli irriducibilmente distinti che Pietro Il Grande unificò d’imperio (infatti nei territori contesi esistono popolazioni russofone, ciò che è all’origine del conflitto nel Donbass). Gogol’ era ucraino, così Bulgakov: non sono forse scrittori di quella grande Russia?
Ma cosa avrebbe dovuto raccomandare il Papa ai giovani russi: di essere indegni del Paese che ha prodotto cultura e bellezza eterne, patrimonio dell’umanità? Di rifiutarsi di dirsi russi per fare un dispetto a Putin? Di guardare la fiction di Zelensky?
La verità è che il Papa è uno dei pochi cercatori di pace e la sua è una delle poche voci che si oppongono al riarmo (una “follia”), quindi per i fanatici degli eserciti è amico di Putin e nemico dell’Ucraina, della Nato e dell’Europa che ne è succuba. Poco importa che abbia definito l’aggressione russa un “atto sacrilego e ripugnante”; se non offende il popolo russo e la sua grande storia, è un agente della propaganda imperialista. Così va ultimamente.

L'Amaca

 

L’unica “bonifica” che serve davvero
DI MICHELE SERRA
La presidente Meloni fa benissimo ad andare a Caivano di persona, la presenza fisica delle autorità, in epoca social, vale il doppio e anche il triplo. Si spera, tra le altre cose, che abbia occasione di verificare che il termine «bonifica», da lei usato per illustrare le intenzioni del governo per quel territorio e la sua gente, si adatti alle paludi e ai terreni contaminati, non agli esseri umani e alla loro vita sociale.
Si capisce che le tradizioni del Ventennio, che seppe bonificare qualche acquitrino malarico anche grazie alla semi-deportazione di manodopera povera del Nord (i veneti, nell’Agro Pontino, fecero miracoli), influenzino il lessico meloniano.
Ma più che «bonificare» i posti come Caivano, tenendo meglio a bada i ceffi vecchi e giovani della malavita, ci sarebbe da valorizzare e finanziare il lavoro inestimabile e coraggioso degli insegnanti, degli assistenti sociali, dei volontari e delle associazioni che in mezzo a quel deserto cercano di sventolare, ostinatamente, la bandierina della cultura, della solidarietà, del rispetto e, non ultima, della democrazia. Ogni ragazzino e ragazzina sottratto ai modi bruti e all’estetica ripugnante della sopraffazione, esposto a qualche parola di valore che lo aiuti a contraddire la miseria morale che lo alleva (“famiglia” è un concetto, da quelle parti, non sempre rassicurante) è un mattone in più per costruire gentilezza e umanità. Servono quattrini, scuole, impianti sportivi, biblioteche, serve politica sociale, presenza dello Stato, e serve soprattutto che gli italiani paghino le tasse per finanziare il tutto.
Da bonificare, in questo senso, c’è la palude infetta nella quale allignano l’egoismo sociale e la tirchieria degli evasori. Ne parli, Meloni, con il suo vice Salvini, vedrà che da quell’orecchio non ci sente.

Grande Alessandro!


Al rogo, al rogo! Nel fasciopanettone estivo sono tutti dei Giordano Bruno

di Alessandro Robecchi 

Per un normale istinto di prudenza, per evitare il baratro più pericoloso, che è sempre quello del ridicolo, e per altri millemila motivi, vorrei mettere in guardia vip, sottovip, famosetti generici per un quarto d’ora e altri esseri umani, dalla tentazione irresistibile del paragone storico. Il trucchetto è noto e, purtroppo, assai diffuso anche ai livelli più alti, cioè quelli della similitudine geopolitica, della metafora che si aggrappa al passato con un certo stato confusionale. Il triste caso Putin, per citare il più recente, ne ha dato plastica rappresentazione. È Hitler, no, è Stalin, no, è lo zar, come se tutto fosse uguale, ribollente nello stesso calderone, e come se – per inciso – uno non potesse essere un fior di farabutto in piena autonomia, senza scomodare farabutti più antichi e famosi.

Ancor più ridicolo il paragone, diciamo così, autoinferto, cioè quando il parallelo con qualche personaggio storico è condotto in prima persona. Il caso di Marcello De Angelis, portavoce della Regione Lazio, è ancora fresco fresco. Dopo aver detto le sue fregnacce sulla strage di Bologna (i camerati stragisti sarebbero innocenti perché “lo sanno tutti”) non ha esitato a scivolare dalla padella alla brace, anzi direttamente alla pira fiammante: “Sulla strage di Bologna io al rogo come Giordano Bruno, pagherò con orgoglio”. Niente male, considerato che poi non c’è stato nessun rogo, nemmeno un licenziamento, nemmeno una condanna univoca, nemmeno un buffetto, fino alle dimissioni di ieri. E quanto all’orgoglio lascerei perdere: i soliti umilianti balbettii della retromarcia.

Il povero Giordano Bruno, se potesse, dovrebbe querelare, e De Angelis non è il solo aspirante ustionato. È seguito a ruota, infatti, il volitivo generale Vannacci, quello dei libretto nero. Anche lui intriso di paragoni storici, e anche lui avvicinato a Giordano Bruno, ovvio, con la differenza che mentre quello l’hanno bruciato su un rogo, lui l’hanno semplicemente sospeso da un confortevole ufficio, e non è detto che la punizione sia definitiva: dal rogo non si torna, all’ufficetto sì.

Si esagera, insomma. Ma si esagera in modo così grottescamente smaccato e risibile che tutto piomba immediatamente nella farsa, una specie di pochade, un cinepanettone, anzi un fasciopanettone che fa solo un po’ ridere a denti stretti. Aggrava la faccenda il fatto che il generale citi tra i suoi ispiratori anche Giulio Cesare, il che denota un’assoluta mancanza di ironia, perché nelle barzellette chi si paragona a Giulio Cesare finisce solitamente nella stessa stanza (imbottita) di chi si crede Napoleone. Alla fine, il meccanismo è chiaro: si dice una cretinata – più grande è e più ci si aggrappa alla metafora storica – e quando molti si alzano a dire che è una cretinata, scatta il paragone: “Ecco: sono come Giordano Bruno!”.

La moda prende piede. Et voilà Roberto Mancini, neo-commissario tecnico della nazionale Saudita, che frigna seduto su una montagna di milioni: “Mi hanno trattato come il mostro di Firenze!”, per dire che qualcuno lo ha contestato, e lui c’è rimasto maluccio. Ecco, bisogna ringraziare che, per una volta, si sia lasciato in pace Giordano Bruno buonanima, o Galileo Galilei, o Giovanna d’Arco, a vantaggio di un paragone più pop, ma ugualmente storico. Certo, uno ci rimane male, se si considera paragonato a un tizio che ammazzava la gente e la faceva a pezzetti, c’è da capirlo. Ma è anche vero che il mostro di Firenze, con tutte le cose bruttissime che ha fatto, non è mai stato eliminato dalla Macedonia del Nord. Una prece.

martedì 29 agosto 2023

Probabilmente



Non sarà che Giambruno e “Gino” Lollobrigida frequentino lo stesso analista che, a ben vedere, in realtà è un callista?

Emozioni

 


Spie e travagli

 

Agente zerozerotette

di Marco Travaglio 

Si sperava che la morte presunta di Prigozhin placasse per qualche giorno i complottisti dell’anticomplottismo altrui. Invece niente: più complotti di prima. Repubblica, che li alleva come avannotti, apre la prima pagina con tre foto segnaletiche di una bionda signora russa, Natalia Burlinova Wanted by the Fbi, e un titolo inequivocabile: “L’agente russa ricercata negli Usa reclutava in Italia”. Roba grossa, che fa il paio con lo scoop di un anno esatto fa: “Una spia russa nella Nato in Italia”, “Il dossier: un terzo dei diplomatici del Cremlino in Italia sono 007”, “L’offensiva dello Zar”, “Feluche e marinai: l’assalto all’Italia degli agenti di Putin” (Rep, 26.8.’22). Si era scoperto che da dieci anni i russi avevano nientemeno che una spia in Italia: una certa Adela. Che, incredibile ma vero, “telefonava a Mosca”. L’indomani nuovi agghiaccianti particolari: “Spie russe, la rete di Adela”, “Di Maio: ombre sulle elezioni, il nemico è già qui, la Lega sta con loro”. Il 28 altri ancora: “Soldatov (esperto di intelligence russa): ‘Olga cercava i segreti degli ufficiali. Per spiare la Nato il Gru ha budget illimitato’”. Sì, Olga: perché – scoop sullo scoop – Adela si chiamava Olga (o viceversa). Poi, purtroppo, non se ne seppe più nulla.

Ora c’è Natalia, che già nel cognome evoca la beffa: Burlinova. Che fa nella vita? Insegna a Mosca, ha fondato una Ong che, per occultare le sue mire top secret, dichiara nel suo sito di voler “promuovere gli interessi nazionali russi”, “organizza ‘Meeting Russia’”, “pubblica una rivista con lo stesso nome” e “dice di finanziarsi con i sussidi del Presidential Fund del Cremlino”. Insomma, un genio del camuffamento che, per soprammercato, “partecipa a conferenze di alto livello sulla politica estera” in Occidente e “ospita a Mosca studiosi o giovani leader italiani” (quali, non è dato sapere). L’Fbi ha scoperto che “lavora con il Fsb, uno dei famigerati successori del Kgb, per reclutare complici occidentali disposti a diffondere la propaganda del Cremlino” e – udite udite – “magari a spiare”. Apperò. Così è stata sventata la “nuova operazione di vasta scala organizzata dalla Russia per interferire con le nostre democrazie, Italia inclusa”. Già, anche l’Italia: “Nel 2007 Burlinova aveva ospitato la giornalista Maria Michela D’Alessandro, presentata come studentessa, all’università di San Pietroburgo, nel 2019 Karolina Muti, ricercatrice dello Iai e nel 2021 Eleonora Tafuro dell’Ispi” e “nel 2019 ha organizzato un seminario a Milano con l’Ispi”. Tutte notizie che, per nascondersi meglio, ha comunicato lei stessa nel sito della sua Ong: una volpe. È così che, senza farsene accorgere, è riuscita a “infiltrare alcuni dei più autorevoli centri di ricerca sulla politica estera”. Perbacco.

Il fatto che Iai e Ispi, presieduti da Nathalie Tocci e da Giampiero Massolo, siano più antirussi e atlantisti della Cia e dell’MI6 non deve ingannare: fanno finta per non destare sospetti. Il fatto poi che le conferenze non si tenessero nelle catacombe, ma in apposite sale aperte al pubblico, ha una facile spiegazione, almeno per Rep: “Spesso gli individui presi di mira non sono consapevoli di esserlo”. Spìano, ma a loro insaputa. E poi si spera che nessuno vorrà negare la diabolica persuasione occulta di massa delle tre reclute di Natalia: chi non conosce Maria Michela D’Alessandro, Karolina Muti ed Eleonora Tafuro? Noi, per dire, non scriviamo una riga senza consultarle. È così che “si forma il consenso filorusso che abbiamo visto all’opera in Italia dall’invasione dell’Ucraina in poi”. È vero che l’invasione è del 2022, mentre gli Erasmus di Natalia vanno dal 2017 al 2021, ma non sarà certo una banale discrepanza di date a rovinare la spy story. Tantopiù che, mentre la Mata Hari batteva la fiacca proprio quando serviva di più, l’aveva sostituita Olga detta Adela o Adela detta Olga.
E ora chi sarà la nuova testa di ponte di Putin in Italia? Ma il generale Roberto Vannacci, naturalmente. È sempre Rep a rivelarlo in un’intervista a una fonte quantomai autorevole: Fabrizio Cicchitto, ex Psi, FI, Ncd, Ap, ma soprattutto P2 (tessera 2232). Ricorda di essere stato “fra i primi a comprendere la pericolosità di Putin” (infatti era il braccio destro di B.). Poi spiega che grazie a Draghi e Meloni l’Italia, prima colonia russo-cinese, “è diventata punta di diamante dell’atlantismo” già caro a Gelli. Infatti “non credo che non ci sia stata un’influenza” russa già nella “caduta di Draghi voluta da 5Stelle, Lega e FI, forze che peraltro non l’hanno voluto alla presidenza della Repubblica” (e non li hanno ancora arrestati). Quindi ha stato Putin: “Meloni diventa filo-Usa” e lui vuole “spaccare la maggioranza” e “piazzare elementi contrari all’ortodossia atlantica (sic, ndr) al prossimo Europarlamento”. Ergo “Vannacci rappresenta il tentativo di un’operazione” (qualunque cosa voglia dire), “al di là della scrittura del libro” (il fatto che non sia proprio in italiano farebbe pensare a una frettolosa traduzione dal cirillico). Già, perché “Vannacci faceva delle operazioni speciali” (anche lui): “non è uno sprovveduto, per questo ci vedo una mano, un disegno”. Del resto “Putin è stato il primo leader mondiale a capire la capacità di condizionamento e di destabilizzazione delle liberaldemocrazie con un uso spregiudicato di Internet”. Non a caso Google, Facebook, Amazon, WhatsApp, Instagram e Twitter sono nati tutti nei migliori garage di Mosca e di San Pietroburgo. Con la buonanima di Prigozhin ai fornelli.

Anche Luca…


di Luca Bottura

Ora vi racconto una bella storia italiana, ma anche un po’ belga.
Siamo nel 2020, Francesco Fourneau è un promettente arbitro che finora ha sempre diretto in serie B. Al settimo gettone in A gli affidano, come capita spesso a chi ha esordito da poco, l’incontro tra una squadra molto piccola (il Crotone) e una molto grande (la Juventus).
Fourneau dirige in modo magistrale. Assegna un rigore netto per fallo di Bonucci in piena area. Poi Federico Chiesa entra a martello su un avversario, Cigarini: espulso. Infine l’arbitro annulla, dopo lunga analisi al Var, un gol di Morata in fuorigioco. Finisce 1-1.
Tre decisioni corrette, ma tutte contro la grande squadra.
Ne nascono polemiche furiose, Fourneau viene mandato a fare il quarto uomo in serie B e la sua carriera subisce una decisa frenata.
Siamo a ieri. Juve-Bologna. La Juve reclama un rigore per un contatto in area, di quelli che in effetti a squadre come la Juve spesso si danno. Non c’è niente, Di Bello va avanti. Poi chiedono un rigore per un “mani” di Lucumì che però è in caduta e ha il braccio appoggiato a terra: non è rigore. Quindi viene annullato, dopo accurata revisione del video sul campo, un gol per fuorigioco che andava cancellato d’acchito visto che l’uomo in posizione irregolare era sulla traiettoria del tiro.
Poi… poi Iling Jr. falcia Ndoye a un centimetro dalla porta: rigore e rosso diretto, ma stavolta Di Bello si fa di nebbia. Dovrebbe richiamarlo il Var: è un errore così clamoroso che… Solo che sarebbe il quarto episodio “contrario” alla Juve.
Al Var c’è Fourneu. Che tace. Tra le tante possibili opzioni, c’è che abbia imparato la lezione.

Nota bene: questo non è un post “contro la Juve”. Potrebbe valere per molte altre squadre. È un post sul fatto che il Leicester, anni fa, avesse giocato da noi, invece che vincere la Premier sarebbe arrivato sesto “ma tanto alla fine gli episodi si compensano”.

lunedì 28 agosto 2023

Spettacolare!



Un film fantastico, annichilente nella sua bellezza, trasudante la maestria unica di Christopher Nolan, con attori portati dal regista ai massimi livelli di recitazione, primo tra tutti Cillian Murphy - dategli già la statuetta please! -, e poi Robert Downey Jr., un fantastico Matt Damon e via andare! Tre ore evaporate grazie ad una superba sceneggiatura, un turbinio di ricordi, di ritorni dal passato senza pause, sfiancanti ma basilari per la maestosità dell’opera! Un film che entra di diritto nella hit di tutti i tempi! Standing ovation!

Tomaso e...

 

Meloni “bifronte”: maschera da statista e idee di Vannacci
IL COPIONE PERFETTO DELLA PREMIER - Copione. Affidabile interlocutrice degli Usa ma pure autrice di un libro con Alessandro Meluzzi infarcito di idee razziste. Pd e M5s devono scegliere la tattica per contrastarla
DI TOMASO MONTANARI
Ha perfettamente ragione Franco Cardini: Giorgia Meloni è molto brava a recitare. Ed è stata anche brava a scegliere il copione: quello di una destra ortodossamente neoliberista, ultra-conservatrice e soprattutto ferocemente atlantista, occidentalista e guerrafondaia.
Un copione perfetto per essere applaudita in tutte le cancellerie che prendono il la da Washington, e naturalmente perfetto per essere difesa e sostenuta dai garanti del sistema in Italia, tra i colli di Roma e i giornali di Milano. Ma questo non vuol dire affatto che non sia lecito, e anzi doveroso, fare luce su ciò che c’è dietro la recitazione, e dietro il copione. Perché il vero capolavoro della presidente del Consiglio è quello di esser riuscita a far credere che siano esistite due Giorgia Meloni, distinte e in successione: della prima (francamente fascista e razzista, discepola del repubblichino, servo dei nazisti e fucilatore di partigiani Giorgio Almirante) non resterebbe oggi alcuna traccia, mentre a Palazzo Chigi ci sarebbe la seconda (l’affidabile statista interlocutrice di Joe Biden).
Di fronte a tanta fantasia, viene in mente il mito dello sdoppiamento di Elena, per cui Paride avrebbe portato a Troia solo l’immagine della vera moglie di Menelao: anche in quel caso si trattava di salvare ad ogni costo la virtù della protagonista, e l’unico modo era sdoppiarla magicamente. E, dunque, per rimanere al mito di Elena, qual è la vera Giorgia, e quale la sua immagine? Perché la recita non è certo il fine: è ovviamente un mezzo. Una copertura per lavorare indisturbata a quello che davvero le sta a cuore.
Distinguere questi due piani è doveroso, e urgente: perché se, appunto, Giorgia Meloni sta recitando, lo fa per dare agibilità e consenso ad un progetto politico che non coincide affatto con il copione della recita, ma è invece la sua autentica visione della società, il sistema di ‘valori’ sul quale vorrebbe fondare la sua Italia. E mille indizi, sotto gli occhi di tutti, dimostrano che quei ‘valori’ sono davvero molto vicini a quelli espressi in chiaro nel libro del generale Roberto Vannacci. Per questo è sacrosanto discutere del lunare libretto sulla mafia nigeriana pubblicato nel 2019 (cioè ieri) da Giorgia Meloni con Alessandro Meluzzi e con la psicologa Valentina Mercurio.
In qualunque Paese normale, il capo del governo sarebbe messo in gravissimo imbarazzo, se non costretto alle dimissioni, dall’emersione di un simile testo. Innanzitutto, per la compagnia: come si può pensare di affidare il governo del Paese ad una leader politica che firmi un libro con una figura come Meluzzi? Personalmente mi sentirei meno preoccupato se l’avesse firmato con il Mago Otelma. Ma andiamo al contenuto, e lasciando perdere cannibalismo e magia nera, accontentiamoci di un passo, si fa per dire, ‘politico’: i richiedenti asilo sarebbero “una categoria mantenuta da tutti noi, e che gode di una franchigia giudiziaria degna degli abitanti privilegiati di una nobiltà al di sopra della legge. In una specie di razzismo all’incontrario per gli Italiani infatti c’è la legge, mentre per i richiedenti asilo c’è tutto. Un tutto senza legge, senza lavoro, con una protezione assoluta che dà un senso di ingiustizia, insoddisfazione, che alla fine finirà col produrre una qualche follia collettiva”. Le autrici e l’autore proseguono scagliandosi contro “il buonismo che ha generato questa leucemia del migrazionismo e questo senso di ingiustizia”.
Ora, è difficile trovare una narrazione più tossica: prendendo come bersaglio i richiedenti asilo si colpisce al cuore l’articolo 10 della Costituzione, trasformando le vittime in colpevoli. E lo si fa per agitare il fantasma di qualche “follia collettiva”: a cosa si allude, a un pogrom contro i rifugiati? E quale contatto ha con la realtà chi pensa che le migrazioni (definite una leucemia, con un’impennata da discorso di odio degna del codice penale) siano generate dal ‘buonismo’ occidentale, e non da una tragica situazione di bisogno determinata quasi sempre da dinamiche avviate dall’Occidente a proprio vantaggio? Chi racconta il mondo in questi termini, cosa farà del mondo quando avrà raggiunto il potere, sia pure dissimulandosi dietro una buona recita? E io non so francamente dire se insistere su questa evidenza aiuti a diminuire la presa di Giorgia Meloni sull’opinione pubblica, o se invece dicendo la verità quel consenso finisca per aumentare: questo è un problema del Pd e del Movimento 5 Stelle, che devono scegliere una tattica politica (anche se non ci dispiacerebbe riuscire ad intuirne anche la strategia). Per chi studia, legge, scrive sui giornali senza padroni, missioni o doppi fini l’unica tattica è cercare di dire la verità: e “la verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo. E il ruolo dell’intellettuale è tirar fuori la verità. Tirar fuori la verità, e poi spiegare perché è proprio la verità” (Tony Judt).

Travaglio!

 

Il giorno della maromotta
di Marco Travaglio
L’invasione russa dell’Ucraina ha appena compiuto 18 mesi. Un anno e mezzo di guerra (in aggiunta a quella degli otto anni nel Donbass), 500mila fra morti e feriti, una decina di milioni di profughi ucraini in Europa e in Russia, mezzo Paese distrutto che richiederà almeno mille miliardi per la ricostruzione, l’Ue in recessione per le autosanzioni. Dal 24 febbraio 2022 molte cose sono cambiate nel mondo alla velocità della luce. Caduti Johnson, Truss, Marin, Rutte, Sànchez e Draghi, non Putin. L’Italia è passata dalle larghe intese alla destra della Meloni che vi si opponeva solitaria. Ma a Palazzo Chigi è cambiato solo l’inquilino, mentre il mantra resta lo stesso di 550 giorni fa: “C’è un aggressore e un aggredito, con Putin non si tratta, l’unica soluzione è la sua caduta, o la sconfitta della Russia, o il suo ritiro e intanto avanti con invii di armi sempre più micidiali e costose a Zelensky fino alla vittoria”. Mantra che porta malissimo a chi lo ripete e nulla fa pensare che possa diventare realtà.
Le controffensive ucraine sono state l’una modestissima e l’altra fallimentare. La Russia (almeno per ora) controlla la Crimea annessa nel 2014 e le quattro regioni invase nel ‘22. Le sanzioni non l’hanno isolata né mandata in default (anzi, rischiano di mandarci i sanzionatori). Putin appare (almeno finora) più saldo che mai, avendo superato anche la crisi interna più grave dell’ultimo quarto di secolo (il tentato putsch Wagner-Prigozhin). La Germania dissanguata rinvia sine die l’impegno Nato della spesa militare al 2% del Pil, come Conte impose di fare a Draghi 15 mesi fa. La Francia non vede l’ora di sfilarsi. E persino gli atlantisti più oltranzisti vacillano. La Polonia è furente con Kiev per il dumping sul grano. Usa e Uk concordano sul flop dell’offensiva ucraina. Biden (o chi per lui), persa la speranza di vendersi alle elezioni del ‘44 una vittoria militare, inizia a virare sull’unico successo possibile: quello diplomatico, anche per non farsi rubare il tempo e la scena dalla Cina. Il n. 2 della Nato ipotizza apertamente che Kiev ceda territori. E il mondo, che 18 mesi fa pareva tornato bipolare come nella guerra fredda, si scopre ancor più multipolare, con la nuova superpotenza Brics che unisce amici vecchi come Cina, Russia, Brasile, India, Sudafrica e nuovi come la strana coppia Iran-Arabia (che fino all’altroieri si sparavano in Yemen), minacciando l’impero del dollaro con una moneta concorrente. Persino nel Pd, con la Schlein, si muove qualcosa. Ma, nel governo italiano, niente. Come nel giorno della marmotta, è sempre il 24 febbraio 2022. Meloni&C., fermi sull’attenti davanti a Biden, non osano neppure domandargli se per caso, nel frattempo, gli ordini non siano cambiati.

Via al sano sfottò!

 


domenica 27 agosto 2023

E siamo solo alla seconda!

 


L'Amaca

 

L’imitazione al potere
DI MICHELE SERRA
La foto segnaletica di Trump è inclassificabile.
Tecnicamente, sarebbe cronaca: è — appunto — una foto segnaletica, scattata all’interno di una prigione presumibilmente con lestesse identiche modalità di altre istantanee “burocratiche”. Ma al nostro sguardo quel volto in posa da “cattivo” che promette vendetta sembra pura fiction: il manifesto di una serie su Trump non potrebbe scegliere un’immagine più efficace. Sembra selezionata tra decine di scatti in un teatro di posa.
Quella foto, subito iconica in tutto il mondo, sancisce una volta per sempre che il confine tra realtà e fiction è oramai irrintracciabile — una fessura quasi invisibile sotto una patina ormai pluridecennale di imitazioni reciproche tra i fatti e lo spettacolo dei fatti. Non c’è angolo della vita sociale nella quale sembri netta e bene intellegibile la distanza tra la realtà e il suo spettacolo. La criminalità, il sesso, la guerra, infine la politica sono perennemente sospesi tra la carne di cui sono fatti e il relativo show. E così come il criminale vero è sospettabile di emulare l’estetica e il linguaggio delle varie serie sulla criminalità (rovesciando il rapporto causa/effetto) e lo stupratore, tra i suoi moventi, ha l’impulso di avere qualcosa di forte da filmare e mettere in rete, Trump interpreta Trump con la passione folle dell’attore che non potrà mai interpretare un altro ruolo.
Quando si dice che “per Trump la verità non esiste”, si dice questo. Esiste un copione secondo il quale lui e il popolo americano sono defraudati e ingannati. È su quel copione che si andrà a votare negli Usa. E molti atti e pensieri, nel mondo, accadono al solo scopo di entrare a far parte del palinsesto.

Becere modifiche

 

Non aprite quelle porte
di Marco Travaglio
Mentre la libera stampa insegue l’ultima minchiata del penultimo ministro e del generale Catenacci o come diavolo si chiama, un trust di 26 cervelli messo insieme da Nordio a sua immagine e somiglianza partorisce la bozza di decreto attuativo della legge delega sull’ordinamento giudiziario escogitata da quell’altro genio della Cartabia. Con due ideone. La prima – nata dalla fertile mente dell’ex forzista e ora calendiano Costa – è una nuova voce nel “fascicolo per la valutazione del magistrato”: quella sul “complesso dell’attività svolta, compresa quella di natura cautelare”, la “tempestività nell’adozione dei provvedimenti” e le “gravi anomalie in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi”. Il Csm dovrà tenerne conto per valutare promozioni, sanzioni e radiazioni (automatiche con due bocciature consecutive). La seconda genialata è quella che gli italiani hanno bocciato appena un anno fa bocciando i referendum contro la giustizia: far giudicare i magistrati nei Consigli giudiziari (le sezioni locali del Csm) anche dagli avvocati. A Palermo, per dire, il legale di Messina Denaro potrebbe dire la sua sul pm e il gip che hanno scovato e arrestato il suo cliente.
Il combinato disposto delle due ideone sarà una magistratura ancor più intimorita, pavida, conformista e riverente al potere di quanto già non sia dopo le cure da cavallo degli ultimi 25 anni. Se la carriera dei magistrati dipende dal giudizio degli avvocati e ancor di più dalle conferme dei loro provvedimenti nei successivi gradi di giudizio, le conseguenze possono essere solo due, entrambe nefaste. Molti giudici saranno portati a confermare le decisioni dei colleghi sottostanti, anche se non le condividono, per salvare loro la carriera (l’“appiattimento” sempre deplorato dai “garantisti”). E molti pm, gip e gup saranno indotti a chiudere gli occhi sui delitti dei potenti e ad archiviare i processi più complessi (quelli indiziari, senza pistole fumanti o confessioni), nel timore o nella certezza che i colleghi di tribunale, appello e Cassazione vedano il bicchiere mezzo vuoto o cerchino il pelo nell’uovo per allontanare l’amaro calice. Quando Falcone e Borsellino istruirono il maxiprocesso a Cosa Nostra, Corrado Carnevale divenne presidente della I sezione della Cassazione, monopolista dei processi di mafia. E iniziò a cassare condanne e arresti di mafiosi (500 in tutto) guadagnandosi la fama di “ammazzasentenze”. Ma Falcone e Borsellino continuarono ad arrestare e a processare mafiosi fino all’estremo sacrificio, perché nessuno poteva cacciarli per gli annullamenti dei loro provvedimenti. Con i “riformatori” di oggi, Cosa Nostra avrebbe risparmiato un bel po’ di guai. E di tritolo.

sabato 26 agosto 2023

L'Amaca

 

Polemiche senza sapore
DI MICHELE SERRA
Un’alta percentuale delle polemiche social, che i media “tradizionali” rilanciano con irriflessiva passività, mi sembra fuori misura, dettata dai nervi o dall’antipatia politicaassai più che dalla ragione. Sono polemiche fuori contesto e sempre più spesso anche fuori testo, nel senso che drammatizzano e alterano frasette non sempre memorabili, trattate come dichiarazioni solenni anche quando non lo sono né per l’intenzione, né per lo spessore.
Un esempio fra tanti: la frase del ministro dell’Agricoltura Lollobrigida sui «poveri» che in Italia «spesso mangiano meglio dei ricchi» è sicuramente discutibile (molte frasi lo sono), e fa un uso abbastanza equivoco del concetto di «poveri». Ma non è tale da giustificare l’ondata di sdegno che l’ha accolta. La famosa “cucina povera” è, in Italia, spesso di alto valore gastronomico, e difatti ne meniamo gran vanto, specie nel confronto con i cugini francesi, maestri della tavola “alta”, meno bravi di noi nei piatti di tutti i giorni. Con il riciclo degli avanzi i nostri antenati, e soprattutto le nostre antenate, hanno costruito monumenti al sapore e al risparmio. Lollobrigida, per giunta, faceva il paragone con iljunk food che nutre quotidianamente gli americani non di classe alta: robaccia, decisamente, e doppiamente robaccia se confrontata con l’alimentazione popolare italiana.
Lollobrigida non è — diciamo così — tra i miei punti di riferimento. Il suo caso vale però, insieme a mille altri, come eccellente esempio di una polemica fondata sul quasi nulla, e però ripresa da quasi tutti, perfino da leader politici dal clic troppo facile. Abbiamo davvero, noi tutti, così tanto tempo da perdere?

Risveglio

 


Gli affetti travagliati


Una catena d’affetti

di Marco Travaglio

La promozione di Arianna Meloni, sorella di Giorgia e moglie del di lei cognato Francesco Lollobrigida, a capo della segreteria FdI ha ingiustamente oscurato quella di Giovanbattista Fazzolari a responsabile Comunicazione del governo, dopo la prematura dipartita di Mario Tafazzi Sechi, protagonista dell’epica conferenza stampa di Cutro e di altre immani sciagure, dunque prossimo direttore di Libero. Fazzolari, detto “Spugna” per le doti di incassatore, è stato definito dalla premier “la persona più intelligente che abbia conosciuto” (figurarsi le altre). E cumula il nuovo incarico a quello di sottosegretario all’Attuazione del Programma, che comprensibilmente gli lascia molto tempo libero. Essendo un ex dirigente della Regione Lazio laureato in Economia, non sa nulla di comunicazione, ma questo è un vantaggio rispetto a Sechi che se ne intendeva. Il guaio è un altro: in un governo di spara-cazzate seriali, il portavoce dovrebbe correggerle, scoraggiarle o limitarle al minimo: lui invece ne è un generatore automatico in proprio: l’equivoco sulle lezioni di pistola a scuola; le dichiarazioni di guerra alla Francia e all’Ue; e il bombardamento su Bankitalia, che osava criticare le norme anti-Pos e pro cash, e che lui definì “partecipata da banche private” e quindi innamorata “della moneta elettronica privata del circuito bancario” (è il suo modo di definire i bancomat e le carte di credito, notoriamente ignoti nel resto del mondo). Gli andò dietro solo l’on. Filini, che non è il ragioniere di Fantozzi, ma nientemeno che il responsabile del Centro studi di FdI, ora promosso capo-dipartimento Programma.
Ecco: se Fazzolari sarà il comunicatore, chi rettificherà le sue fazzolate? Urge un comunicatore sul comunicatore. E, siccome la Meloni diffida di tutti gli altri i suoi (e fa benissimo) e si fida solo della cerchietta famigliare (e fa malissimo), si teme che la scelta del vice-comunicatore non possa che ricadere su un parente stretto. Già, ma quale? La famiglia, pur allargata, è già tutta piazzata e, come disse il Sassaroli al Melandri in Amici miei, “è tutta una catena di affetti che né io né lei possiamo spezzare”: Meloni a Palazzo Chigi, il compagno Giambruno a Rete4, la sorella Arianna a FdI, il cognato Lollo all’Agricoltura, la segretaria di Lollo nella Fondazione An con Arianna, la madre dell’ex portavoce di Giorgia, Nicola Procaccini (Maria Burani) alla Consulta del dialogo interreligioso, l’ex cognato Marcello De Angelis (fratello dell’ex fidanzato di Giorgia) portavoce della giunta laziale, il cognato di De Angelis (Edoardo Di Rocco) nello staff di De Angelis, la migliore amica di Giorgia (Milka Di Nunzio) al ministero dello Sport. Non manca più nessuno, solo non si vedono i due liocorni.Ma 

venerdì 25 agosto 2023

Grande Vauro!




Grande Flagello!!!




Incassatore

 


Aridaje!

 


Splendida!

 


Ciak!

 


Fantastica!

 

Il ministro Gino
di Marco Travaglio
Attanagliato dal sospetto che gli preferissimo Nordio e Sangiuliano, il ministro Lollobrigida ce l’ha messa tutta per entrare nelle nostre grazie. E, dobbiamo riconoscerglielo, ci è riuscito. Le sue uscite su “sostituzione etnica” ed “etnia italiana”, che ne avevano fatto l’idolo del Ku Klux Klan e l’antesignano del generale Vannacci, non erano male. E neppure l’alibi di ferro sfoderato per discolparsene: “Sono ignorante, non razzista”, che poi è il motto dell’intero governo. Ma c’era sempre un che di fuori tema o di fuor d’opera, nelle sue esternazioni, essendo lui il ministro dell’Agricoltura e Sovranità Alimentare. Mancava una bella scempiaggine attinente alle deleghe spiritosamente assegnategli dalla premier-cognata. E ieri è arrivata nel luogo più consono: il Meeting di Rimini, dove l’uditorio applaudirebbe anche il gobbo del Quarticciolo, il Canaro della Magliana e la saponificatrice di Correggio. Lì, fra le standing ovation, Francesco Lollobrigida detto Gino ha testualmente espettorato: “L’ho detto spesso agli amici degli Stati Uniti, e lo condividono anche loro (lui infatti è solito rivolgersi direttamente alle nazioni, non si sa in quale lingua, e quelle gli rispondono, ndr): sono un grande popolo, ci hanno liberati, ci hanno difesi e lo fanno ancora; ma su una cosa non ci possono insegnare niente, a mangiare”. Già, perché in Italia “c’è una grande educazione alimentare, anche interclassista: infatti da noi spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi perché cercando dal produttore l’acquisto a basso costo comprano qualità”.
Basta andare nei negozi di prodotti naturali, biologici, chilometro zero per trovare file di mendicanti da far invidia alla Caritas e a Sant’Egidio. I ricchi invece sono tutti a sfondarsi nei McDonald’s, dai kebabbari e nei baracci più malfamati. Ecco perché il governo ha deciso di moltiplicare i poveri levando il reddito di cittadinanza, negando il salario minimo e lasciando impazzire i prezzi al carrello e alla pompa su pressione della potente lobby dei nullatenenti. Non per far la guerra ai poveri, ma per migliorare la qualità della loro alimentazione e consentire anche agli ex benestanti, finalmente piombati nella miseria, di assaporare le delizie della migliore cucina italiana. Ora, per dire, è allo studio un nuovo sms dell’Inps con le istruzioni per la tessera annonaria Dedicata a Te: “Se sei fortunato avrai 382,5 euro l’anno, ma potrai spenderli solo al banco del contadino e al negozio bio”. Novità anche in quello che leverà il Rdc ai pochi che ancora lo prendono: “Ora che sei diventato o tornato povero, sappi che lo facciamo per migliorare la tua dieta. A proposito: hai mai provato il digiuno intermittente? Mangi la prima settimana e salti le altre tre. È una figata, i ricchi se la sognano”.

L'Amaca

 

Cavalcare la tigre
DI MICHELE SERRA
La paura. Se la sinistra (termine che uso per convenzione) riuscisse a capire che la vera benzina della destra è la paura del domani, magari riuscirebbe a riscoprire la propria identità e la propria funzione: non avere paura del futuro, e anzi cercare di indovinarlo e anticiparlo, il solo modo, poi, per governarlo senza subirlo passivamente: cavalcare la tigre.
Paura dei migranti, paura delle relazioni sessuali che mutano, paura della globalizzazione (che rimescola e contraddice i concetti rassicuranti di Nazione e di Tradizione), paura che “italiano” diventi concetto di concittadinanza e non di “razza”, paura dell’ibridazione, della contaminazione, della novità, del cambiamento. In fondo è tutto abbastanza ben detto in quel ruvido bigino del pensiero reazionario del quale si è tanto parlato negli ultimi giorni, scritto da un parà che ha fatto carriera.
Io mi sono sentito (umanamente, non ideologicamente) di sinistra quando, forse trent’anni fa, nella cassetta delle lettere, a Milano, trovai un volantino in arabo: e ne fui incuriosito ben più che disturbato. Mi sento di destra ogni volta che penso al futuro come una degenerazione del presente, una violazione del mio quieto vivere, delle mie abitudini, di quello che già so. Per dire che non è solo ideologico, è soprattutto psicologico il confine tra le due modalità di guardare il mondo: e ciascuno di noi, nel suo piccolo, è un riassunto della grande dialettica paura/coraggio, abitudine/novità, destra/sinistra.
La sinistra, questa vecchia sinistra confusa e logora, dovrebbe imparare un mantra: domani sarà meglio, o comunque meno peggio.

giovedì 24 agosto 2023

Due anni!



Oggi sono due anni senza Charlie! ❤️❤️❤️

Annuncio



Potrebbe sembrare un annuncio pubblicitario, uno dei tanti… ma guardando bene questo rettangolino apparso sulla Hachney Gazzette, nasconde un tesoro maestoso. Leggendo infatti tra le righe si scoprono parole molto accostabili alla leggenda del Rock: Satisfaction, Gimme Shelter, Shattered… e poi guardate il puntino sulla “i” che è una lingua…eh sì, direi che ci siamo! Hackney Diamonds il nuovo album della band più grande! Se non sapete chi sono, siete dei Donzelli! Vamos!

Belpaese


Una lunga storia di tagli e favori ai
privati. Un quarto della spesa fuori dal
pubblico

di Chiara Giorgi

Bandiera bianca. Così è stato stravolto il modello della riforma del 1979
La sanità pubblica italiana attraversa un momento molto difficile. La riduzione della spesa
sanitaria in termini reali, la delega fiscale del governo, i tagli al Pnrr, le mani avanti del
ministro Giorgetti in vista della legge di bilancio, il progetto di autonomia regionale
differenziata stanno minando alcuni principi costitutivi del Servizio sanitario nazionale,
mettendone a rischio attività e tenuta. Da tempo la sanità pubblica subisce tagli alla spesa
(in particolare dopo il 2011), riduzioni di personale e servizi, ridimensionamento delle
attività di prevenzione, dell’assistenza territoriale, mentre cresce di continuo lo spazio
lasciato alla sanità privata.
La riforma sanitaria del 1978 segnò il momento di maggior rinnovamento del welfare
italiano, creando un servizio pubblico con universalità di copertura, equità di accesso e
uguaglianza di trattamento, globalità dell’intervento sanitario, uniformità territoriale,
partecipazione democratica, finanziato tramite la fiscalità generale progressiva. Da almeno
trent’anni assistiamo a un’inversione di rotta rispetto alle origini del Servizio sanitario
nazionale che non è sfuggito alla riorganizzazione del capitalismo in chiave neoliberale.
La pandemia da Covid-19 ha portato alla luce le conseguenze più gravi: la carenza di
personale, il depotenziamento della medicina generale e territoriale, la subalternità alle
imprese farmaceutiche nella ricerca e nella produzione di farmaci e vaccini. Tuttavia,
proprio la pandemia sembrava aver riportato al centro dell’attenzione pubblica il diritto alla
salute, fisica e psichica, individuale e collettiva e, con esso, la necessità di un rinnovamento
del welfare socio-sanitario. Poteva essere l’occasione per rafforzare l’assetto sanitario del
paese a partire dalle cure primarie.
NELLA GESTIONE del Covid-19 e nelle politiche successive la direzione presa è stata
tutt’altra. La fotografia più recente è venuta dai nuovi dati Ocse, che mostrano come in
Italia la spesa sanitaria per abitante (pubblica e privata) nel 2022 è stata pari a 4.290
dollari, poco più della metà di quanto si è speso in Germania (oltre ottomila dollari), mentre
in Francia la spesa è stata di 6.500 dollari. Le previsioni per la sanità pubblica per il 2025
prevedono una spesa del 6,2% del Pil, un dato al di sotto dei livelli pre-covid in Italia e
molto inferiore alla spesa dei maggiori paesi europei.
Il governo Meloni ha portato a una grave accelerazione di questi processi. Il piano di riforma
fiscale, che abolisce l’Irap (finora destinata a finanziare la sanità), estende la flat tax contro
il principio della progressività, aumenta le agevolazioni per le assicurazioni private, avrà un
effetto immediato di riduzione delle risorse pubbliche per la salute. Si registra una grave
carenza di medici e infermieri: l’ultimo Rapporto Crea-sanità calcola, con riferimento alla
popolazione anziana, una carenza di 30mila medici e di circa 220mila infermieri (che
salirebbero a 320mila in riferimento alla popolazione over 75).
E tuttavia, vengono mantenuti i tetti di spesa per il personale sanitario che vive condizionidi lavoro sempre più difficili, con diffusi contratti precari e la crescente tentazione di fuga,
soprattutto dai settori più usuranti, verso strutture private o verso altri paesi, mentre
aumentano il ricorso e gli incentivi ai costosissimi medici a gettone. Il risultato è una
riduzione dei servizi, lunghissime liste d’attesa, ricorso alle prestazioni dei medici che
lavorano intramoenia nelle strutture pubbliche, crescenti divari tra le regioni nella qualità e
quantità dei servizi forniti, espansione della sanità privata.
E POI C’È IL PNRR, che non prevedeva sin dagli inizi gli aumenti di spesa corrente
necessari a far funzionare le nuove strutture previste, le Case e gli Ospedali di comunità,
che peraltro rischiano un ridimensionamento con le recenti proposte di revisione del
governo.
Il processo di privatizzazione marcia dunque velocemente attraverso il definanziamento del
servizio sanitario nazionale e il dirottamento di risorse pubbliche verso la sanità privata.
Crescono l’affidamento di servizi a privati accreditati e le esternalizzazioni; attraverso
convenzioni e contratti, viene trasferita la responsabilità parziale o totale della fornitura di
servizi clinici o non clinici al privato. In Italia la quota della spesa sanitaria pubblica
destinata a operatori privati per i servizi svolti è arrivata al 22%, con Lazio e Lombardia che
raggiungono il 30%.
In questo contesto, si registra un progressivo incremento della spesa sanitaria sostenuta
direttamente dai cittadini per l’acquisto di servizi sanitari privati out of pocket, che
rappresenta più del 20% della spesa sanitaria complessiva. Queste risorse si traducono in
nuova domanda per ospedali e centri diagnostici privati e per le aziende farmaceutiche,
così come cresce il ruolo delle società di assicurazione che forniscono servizi in campo
sanitario, favorite dagli incentivi offerti al welfare aziendale con la defiscalizzazione dei
contributi pagati dalle imprese. È un settore in rapida trasformazione, con processi di
concentrazione e l’affermarsi di multinazionali straniere in campo diagnostico, assicurativo
e farmaceutico.

Altro che!

 


Dolore e sgomento

 



Chi meglio di Pino?

 

Spinaus “il contabile”, silenzioso guardiano di olgettine (e balle)
DI PINO CORRIAS
Ruby al telefono: “Se passo me li dai 5.000? Sono nella merda”. Nelle ultime 40 stagioni della Grande Abbuffata berlusconiana, non era il cuoco Michele a preparare i pasti migliori nel serraglio di Arcore, ma Giuseppe Spinelli, detto il Contabile, quello che maneggia la carne cruda del contante da dare in pasto ai grandi carnivori – Marcello Dell’Utri, Fedele Confalonieri, Giancarlo Foscale, il fratello Paolo – e a lanciare le frattaglie alle faine che nei dopocena eleganti assaltavano i divani del sultano – Ruby, Iris, Aris, Marysthell, Barbara, Nicole, Raissa, Ioana – tutte armate di tacchi a spillo e telefonino, tutte affamate di proteine al sangue (Iris al telefono con Aris: “Cazzo devo andare da Spinaus, non c’ho più un euro, amo’”; Aris: “A chi lo dici, anch’io, devo chiamare Spin, cazzo!”) che Spinelli distribuiva in forma di banconote da 500 euro, 4 per una cena, 10 per la nanna con doccia, 5 al mese per stare buone. Tariffe stabilite dall’anziano regnante, Silvio B. che alla mamma, alle mogli, ai figli e agli elettori diceva “Non ho mai pagato una donna in vita mia”. Gli hanno creduto tutti. Tranne uno. Tranne Spin, Spinaus, il Contabile, che quei soldi li faceva cantare tra il pollice e il dito medio.
La storia di Giuseppe Spinelli – guardiano immobile del Forziere – fa piangere e insieme fa ridere. Intorno a lui accadono l’alfa e l’omega della recente storia italiana, si fanno e si disfano i governi della Repubblica, compaiono mafiosi, mignotte, faccendieri, banchieri, agenti segreti, si dilapidano fortune e se ne accumulano altrettante, si moltiplicano leggi su misura, spuntano oligarchi russi, rais libici, trafficanti di gas, ville imperiali per le mogli da salvaguardare e appartamentini a schiera per le escort da buttare. I bilocali della celebre via Olgettina, gestiti da Nicole Minetti, “Ah, che zoccolame questa casa! – dirà Iris al telefono – Questo condominio è diventato un puttanaio, cazzo!”.
Spinelli è la perfetta funzione e finzione del Ragioniere di Famiglia. Il ragiunatt con occhiali da miope, onestà da chierichetto, fedeltà da erbivoro. Obbedisce senza chiedere. Paga senza sapere. Esegue senza capire. O almeno è così che la racconta. È lui che rifornisce di contanti l’animale più pericoloso del serraglio, il palermitano Marcello Dell’Utri, attraverso la moglie Miranda, 32,7 milioni di euro in dieci anni, tra il 2011 e il 2021, più la villa sul Lago di Como ricomprata per 21 milioni, più 30mila euro mensili, nell’ultimo anno, più le parcelle per gli avvocati negli anni dei processi, fino alla condanna per mafia a sette anni di carcere passati come tutta la vita in quel silenzio funzionale che i magistrati di Palermo e di Milano hanno provato invano a dissigillare.
Oggi ci prova l’indagine fiorentina sulle stragi e gli attentati del 1993, le bombe a Firenze, Milano, Roma, che secondo i magistrati vedrebbero coinvolti i fratelli Graviano nei panni degli esecutori e la coppia Berlusconi-Dell’Utri in quella degli ispiratori, per tornaconto politico elettorale.
Ne sa niente Spinelli? Ma figuriamoci. I soldi che passano per le sue mani sono fuochi di artificio che si illuminano per un solo istante, quando li preleva dal Monte dei Paschi di Siena, filiale di Segrete, e si spengono nel villone di Arcore.
Dichiara: “Prelevavo circa 250-300mila euro al mese. A volte anche due volte al mese”. Negli anni delle escort, il 2009 e 2010, “ho portato ad Arcore circa 20 milioni di euro”. Negli anni di Dell’Utri, pure il doppio. Ma lui che ne sa per quali fini? “Lavoro da 43 anni per il dottor Berlusconi. Facevo tutto su sua disposizione. Non ho mai preso soldi di mia iniziativa”.
Qualcuno (però) lo ha guadagnato dal fortunatissimo giorno in cui Silvio B. lo ha assunto alla Edilnord, anno 1978, quando dal nulla sono spuntati i miliardi di lire necessari per costruire l’intero quartiere di Milano Due. Da allora Spinelli, ragionier Giuseppe, nato nell’anno 1941 a Settala, provincia di Milano, cattolico fervente, la messa ogni domenica, risulta amministratore in almeno otto holding dell’impero Fininvest. Gestisce gli immobili della Idra e della Dolcedrago. È consigliere in 13 società del gruppo. Oltre che depositario di immensi giacimenti di segreti che gli dormono accanto nell’appartamento che abita, all’ottavo piano di un palazzone a Bresso, insieme con la moglie Anna.
Mai è cambiato il suo ufficio, dietro gli specchi della Residenza Parco di Milano Due, che per tanti anni, durante le inchieste per corruzione, frodi fiscali, fondi neri, movimenti bancari sospetti, è sempre risultato “di pertinenza dell’Ufficio politico di Silvio B”, dunque inviolabile per gli investigatori che ogni tanto provavano a scavalcare le disposizioni parlamentari e l’inflessibile Contabile che sulla soglia li respingeva con il suo gentilissimo sorriso dedicato non agli intrusi, ma alla manzoniana provvidenza.
Una sola interferenza – nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2012 – ha movimentato la sua vita in grigio. Quando una banda di rapitori, un italiano, due albanesi, gli entrarono in casa, alle nove di sera, offrendo “registrazioni segrete contro il nemico De Benedetti” in cambio di 35 milioni di euro. Restano tutta la notte, sonnecchiando armati sul divano di casa, mentre lui e la moglie vengono chiusi nella camera da letto. Alle 7:30, Spinaus prima prepara il caffè per tutti, poi telefona al Dottore ad Arcore. Il quale non chiama i carabinieri – mica si fida dello Stato che gestisce da una ventina d’anni – ma l’avvocato Ghedini. Che a sua volta chiede maggiori ragguagli sui fantomatici documenti. Dalla nebbia delle ricostruzioni risulta che i rapitori a metà mattina se ne vanno, forse hanno concordato un riscatto di 8 milioni, forse nulla. Solo a quel punto vengono chiamati polizia e magistratura. Toccherà a Ilda Boccassini arrestare la banda dopo un mese di indagini. Tutti confessano il sequestro, nessuno il movente. Berlusconi e Ghedini muovono i burattini in scena. Il sipario del tempo archivia anche loro. Ma non il Contabile, che ancora presidia il bancomat delle meraviglie terrene. C’è da saldare l’ultima rata da 30 milioni a Marcello. I 100 milioni a Marta, la finta moglie. I 90 di debiti ai vivi morenti di Forza Italia. Per poi correre ogni domenica in chiesa a espiare i molti peccati dei carnivori ricchi, con qualche spicciolo ai poveri.