Intolleranza: basta la parola
DI MICHELE SERRA
Il dibattito attorno alla legge sulla “buona morte” della Regione Toscana ripropone pari pari, immutabile e irrisolta, l’annosa questione della tolleranza. La differenza tra un’etica imposta per legge, obbligatoria per tutti, e la libera scelta, diversa per tutti, la può capire anche un bambino. Se credo che la vita umana, dalla nascita alla morte, non sia qualcosa di disponibile ai viventi, perché appartiene a Dio, sono libero di imporre a me stesso il rifiuto dell’eutanasia (e dell’aborto, del divorzio, di quant’altro). Ma solamente a me stesso. Perché se impongo questa mia convinzione agli altri, per legge, sono un intollerante, o per dirla con semplicità, sono un prepotente. Un prevaricatore. Pretendo che gli altri, tutti gli altri, vivano e muoiano come me.
Ho profondo rispetto per chi crede che sopportare il dolore sia una testimonianza di fede. Ma questo rispetto svanisce, tutto intero, se mi accorgo che questa legittima credenza viene imposta per legge: diventando oggettivamente illegittima e intollerante. Rifiutare la buona morte può essere una scelta più che rispettabile.
Ma solo se è una scelta personale, e solo se non si pretende che vi sia costretto anche a chi non crede in Dio, o crede in un Dio non così sadico da esigere che si soffra per lui.
Nel momento in cui il rifiuto dell’eutanasia smette di essere una scelta personale, e viene imposta all’intero corpo sociale, e si perseguita e si incrimina chi invece sceglie di andarsene secondo la sua idea di dignità, e di libertà, il torto è clamoroso. Scandaloso. Così evidente che ci si meraviglia che in così tanti (per esempio: il governo al completo, e il Parlamento in sua grande parte) non si rendano conto dell’intolleranza di cui si macchiano, da anni, rifiutando di varare una legge decente sulla buona morte.
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