Il sindaco-catamarano dà un mattone in testa a Milano e alla sinistra
DI PINO CORRIAS
A Milano non c’è il mare. Ma Beppe Sala, che si vanta di essere un notevole velista, se la cava benissimo essendo la migliore evoluzione politica del catamarano. Da quando si affilò le meningi alla Bocconi, in Pirelli, in Telecom per poi virare nella politica, viaggia su due scafi. Uno buono per navigare a destra. L’altro per deviare nell’alto mare della sinistra. L’ideale per governare Milano in modalità bipartisan, lungo la rotta che in una quindicina d’anni ha trasformato la “città dal cuore in mano” in un Riccodromo che le mani le tiene strette sul portafoglio. E il suo skyline in un tripudio di cristalli ad alto reddito. Via le polveri della città che fu. Via i poveri, gli artigiani di quartiere, i precari, gli insegnanti, gli impiegati di seconda e di terza classe. Largo ai ricconi con tasse una tantum. Apoteosi della città che sale, con l’inno dei costruttori: “Evviva la velocità dei cantieri!”. L’inno dei politici: “Evviva l’efficienza delle procedure!”. L’inno degli architetti: “Evviva la rigenerazione urbana!”. Ogni laboratorio trasformato in loft per single d’avanzatissimo terziario. Ogni cortile nella cubatura buona per un nuovo palazzo: “Disegniamolo più basso – dice un costruttore all’architetto –. Dopo l’approvazione lo alziamo”. Dunque avanti con i grattacieli come a Porta Nuova, a City Life, alla Fiera Campionaria a Gioia 20, Tortona 25, alle Park Towers di Crescenzago, al Villaggio Olimpico, allo scalo ferroviario di Porta Romana.
Poi, ecco il mattone che dal cantiere lassù, cade fischiando sulla testa della Giunta. E della festa. Quel che le fanfare salutavano come la Milano d’Europa, diventa (udite udite!) “una gestione urbanistica inquinata da una corruzione sistemica e ambientale”. Con “almeno 150 cantieri” nati con “atti falsificati”, “procedure saltate”, “leggi ignorate”. E dunque il Comune in bilico, 6 richieste di arresti, l’assessore alla Rigenerazione urbana Giancarlo Tancredi dimissionario, 74 indagati tra architetti e Archistar, faccendieri, impiegati comunali, politici, costruttori. E il sindaco in cima alla lista. Ma davvero? Beppe Sala fa l’offeso: “Ho le mani pulite”, dichiara in Comune, mentre la tempesta gli vortica in testa come il suo celebre ciuffo alla Tintin. Minaccia dimissioni immediate. Cogita un weekend. Ascolta le brutte previsioni meteo che arrivano da sinistra e da destra. Ci ripensa. Rimette il catamarano al centro: “Serve discontinuità”, dichiara nell’aula di cuoio rosso di Palazzo Marino. Quindi? “Vado avanti”. Ah, ecco.
Beppe Sala salpò nell’anno 1958, infanzia tra i pioppi di Varedo. Puntò la sua navigazione verso l’Isola del Tesoro della Bocconi, laurea in Economia aziendale a pieni voti. Il primo approdo nella Pirelli di Marco Tronchetti Provera, dove naviga per una dozzina d’anni fino a diventare amministratore delegato del reparto pneumatici. È sveglio. È veloce. Entra in Telecom nel 2001 come direttore generale. Poi nel conglomerato giapponese Nomura Bank. Si mette nella scia di uno ancora più sveglio di lui, Bruno Ermolli, capitano degli anni 80, consigliere di Silvio Berlusconi, considerato “il più grande lobbista del Nord Italia”, uno che sta dentro le segrete cose: da Fininvest a JP Morgan, dai Fondi internazionali, alla galassia bancaria, dai colossi aziendali milanesi fino allo scrigno di compensazione della Scala. È lui che nell’anno 2009, lo segnala a Letizia Mestizia Moratti sindaco di centrodestra, per il posto vacante di direttore generale di Palazzo Marino. In un attimo, Sala diventa il “City Manager”, anzi “il manager prestato alla politica” e le cronache lo segnalano come “sobrio, elegante, concreto”. Va in bicicletta. Abita in Brera. Tifa Inter. È cattolico praticante, e pazienza se con tre matrimoni alle spalle, chi è senza peccato, eccetera.
Grazie al doppio scafo, dalla Moratti passa come niente al nuovo sindaco Giuliano Pisapia, area centrosinistra, entra nelle grazie di Enrico Letta, detto “il nipote”, che da Palazzo Chigi lo nomina “commissario straordinario” di Expo, anno 2013, proprio mentre stanno cascando sulla Regione Lombardia le spoglie colorate di Roberto Formigoni, quello che scroccava ai ricchi le aragoste in Sardegna e ai poveri gettava gli avanzi privati della Sanità pubblica.
L’Expo è la sua vera rampa di lancio, padiglioni d’architetture ardite, milioni di visitatori, aree edificabili da moltiplicare all’infinito, nascono le Torri di piazza Gae Aulenti, s’innalza il Bosco verticale di Stefano Boeri, evoluzione ecologista dell’abitare, anche se consuma come un’acciaieria. Gli appalti vanno via come ciliegie, uno tira l’altro e quando la Procura di Milano fa processare Sala per i falsi in atto pubblico su quello della Piastra, insorgono gli addetti alla rinascita di Milano da bere, da abitare, da modernizzare. L’inchiesta finisce in primo grado con la condanna a sei mesi, poi la prescrizione cancella tutto, abbiamo scherzato. E siccome i guai giudiziari – dopo la damnatio memoriae di Mani Pulite – fanno curriculum specialmente a Milano, nell’èra renziana per Sala è pronta la rotta verso la tolda di comando di Palazzo Marino e un fidanzamento di prima classe, con Chiara Bazoli, babbo regnante su Banca Intesa.
Due mandati di fila, dal 2016 a oggi. Il secondo con vittoria già al primo turno, 57 per cento di voti, contro un tale Luca Bernardo, pediatra, talmente sconosciuto, talmente perdente, da suggerire che anche a destra la navigazione di Sala fosse la più desiderata. Fino alla perfezione sistemica di questi ultimi anni, con la politica succube dei costruttori, degli architetti, degli investitori come il nuovo re degli appalti, Manfredi Catella, quello che ha venduto ai Fondi del Qatar per 35 miliardi l’area grattacieli di Porta Nuova, e oggi gestisce altri 10 miliardi di fondi internazionali, pronti a diventare cemento. E pazienza per l’interesse pubblico, l’edilizia popolare, il verde, l’equità sociale. Un intralcio persino la continenza, come accadde durante la grande tempesta del Covid, quando invece di ammainare le vele, Sala innalzò quelle del fatturato al grido di “Milano non si ferma!”. E poi quando, montando le indagini della Procura, ha schierato il Pd, accanto all’ammucchiata di Salvini, Renzi, Calenda e dei camerati di Fratelli d’Italia per pretendere la “Salva Milano” che avrebbe cancellato “tutti gli artifici, le falsità, i raggiri” nell’Italia intera.
“Non ci sono più le condizioni per la Salva Milano”, ha detto Sala, bontà sua. Il catamarano sta a galla, la crociera può continuare. Almeno fino a quando qualcuno si accorgerà che a Milano ci sono 109 mila appartamenti sfitti, un sacco di gente senza casa, una sinistra di governo senza anima, senza senno, senza rotta.
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