Boeri, l’archistar dagli occhiali tatuati che scruta dai rami
DI PINO CORRIAS
Stefano Boeri si è reso memorabile per gli occhiali tridimensionali tatuati sulla fronte che perfezionano il suo incedere nerovestito, come si conviene agli architetti di moderna architettura. Nonché per il suo Bosco Verticale che doppiamente svetta sul nuovo cuore pulsante di Milano – la piazza intitolata all’incolpevole Gae Aulenti – con i suoi 360 inquilini che hanno scucito 15 mila euro al metro quadro, in cambio del privilegio di vivere nel “grattacielo più bello del mondo”, tra le zanzare, 21 specie di uccelli residenti, 800 alberi, 21 mila tra piante e arbusti. Tutti accatastati intorno agli appartamenti, purtroppo al buio.
I magistrati che indagano sul Miracolo (del Mattone) a Milano – milioni di metri quadri destinati al cemento nella più classista tra le rigenerazioni edilizie di una metropoli sempre meno democratica – gli hanno perlustrato i progetti, le amicizie e il cellulare. Mettendo al centro dell’inchiesta le sue multiple relazioni con il carissimo sindaco Beppe Sala, con il dominus tra i costruttori, Manfredi Catella, con gli assessori funzionali, con i titolari della potente Commissione Paesaggio, più l’intero jet set della capitale morale, che gli hanno fruttato preziosi appalti a partire dal D Day dell’alta finanza internazionale sbarcata alla conquista di Expo 2015. Oltre che a tre avvisi di garanzia collezionati in due anni, uno per la riqualificazione del Pirellino, il secondo per turbativa d’asta e false dichiarazioni nel progetto della Beic, la Biblioteca europea di informazione e cultura; il terzo per lottizzazione abusiva e abuso edilizio nel progetto del Bosconavigli.
“Ho fiducia nell’autorità giudiziaria – ha detto Boeri in tutte e tre le spiacevoli occasioni –. E confido nella verità”. Giusto. Ma anche un po’ confida nella buona stella della sua carriera, nella fama mondiale conquistata a colpi di grattacieli costruiti nel mondo, da Shenzhen a Tirana, grazie ai progetti di riqualificazione dei porti di Marsiglia, Napoli, Trieste, alle risistemazioni di stazioni ferroviarie, centri storici, nonché per la sontuosa Casa del Mare all’isola della Maddalena, l’hotel extralusso costruito per ospitare il G8 di Berlusconi in Sardegna, anno 2009, abbandonato per i lavori troppo in ritardo e con troppi guai: 629 milioni di euro buttati nel mare blu, i cristalli masticati dalla ruggine, Obama e gli altri capi di Stato trasferiti sulle macerie di L’Aquila, monito involontario alle vanità di ogni architettura.
È imbottita meglio di un divano De Padova la storia di Stefano Boeri, nato nell’anno 1956, predestinato alla permanente prima classe con salottino insonorizzato. Formidabile fu la famiglia: Renato Boeri, il padre, neurologo di fama, direttore sanitario del Besta di Milano, oltre che comandante partigiano ai tempi suoi. Cini Boeri, la madre, anche lei staffetta partigiana in gioventù, mosca bianca dell’architettura al femminile, titolare di studio e carriera internazionali, allieva comunista di Portaluppi, Aldo Rossi e di Giò Ponti, signora social d’alta classe, amica di Giorgio Strehler, Aldo Aniasi, Giulio Einaudi. Una scheggia di nobiltà incorporata ai guanti bianchi dei maggiordomi che servono a tavola, anche quando vengono i ragazzi del Movimento studentesco, compagni di Stefano e dei due fratelli, Sandro, il più grande che farà il giornalista, Tito, il più piccolo, economista svezzato all’Ocse a Parigi, consulente della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale.
Tutti rampolli di quella tormentata e colta e democratica borghesia milanese, con patrimonio annesso, casa su tre piani in piazza Sant’Ambrogio, davanti al Cenacolo di Leonardo, vacanze estive nella villa in Sardegna, vacanze invernali a Celerina, a due passi da St. Moritz, ma con più charme e meno gioiellerie.
Archiviato l’estremismo di gioventù, un po’ meno la spocchia, Stefano decide di seguire le orme di mamma. Laurea al Politecnico. Master a Venezia. Studio a suo nome. Dice da sempre di “essere ossessionato dagli alberi” e dall’idea di “guardare il mondo dai rami”. Anche se per lavorare non disdegna nulla di mattoni e calcestruzzo. Lavora per Letizia Moratti sindaco. Per Berlusconi premier. Per Salvatore Ligresti palazzinaro. E avendo sposato la nipote di Piergaetano Marchetti, plenipotenziario di Rcs, anche per la nuova sede di Rizzoli.
Tra i rami del suo futuro, intravede la carriera politica: nel 2010 si candida alle primarie del Pd contro Giuliano Pisapia, avvocato, anche lui d’alto lignaggio milanese. Perde. Non scende da cavallo e a Pisapia sindaco, chiede l’assessorato alla Cultura. Lo ottiene. Ma fare il numero 2 non gli si addice. Convoca conferenze stampa e annuncia progetti all’insaputa del sindaco, che lo sopporta per una ventina di mesi prima di convocarlo alle sette di sera del 13 marzo 2013 per licenziarlo in 15 minuti. Boeri fa il finto tonto e su Facebook scrive: “È una decisione che non mi è stata motivata”.
Non conoscendo il vuoto, torna all’architettura. L’idea del Bosco Verticale racconta di averla avuta leggendo Il Barone rampante di Italo Calvino. Quasi mai aggiunge di avere studiato e ammirato i Muri vegetali, realizzati da Patrick Blanc, artista e paesaggista francese. Guai a dirgli che il suo Bosco Verticale costruito nel 2014 dalla Coima del suo amico Manfredi Catella, rappresenta un ecologismo di facciata, destinato alla falsa coscienza dei super ricchi che vanno ai meeting sui disastri climatici usando il jet personale e fingono di non sapere che l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio. O che tra costruzione, manutenzione, irrigazione, il doppio capolavoro dell’orgoglio milanese ha costi spropositati. Compresi quelli dei flying gardeners, i “giardinieri volanti” che ogni tre mesi si calano dal tetto delle due torri con corde lunghe 300 metri per disinfestare, disboscare, lavare.
Boeri sale anche lui sui tetti della carriera. Insegna Urbanistica al Politecnico di Milano e a Harvard. Dirige il Future City Lab di Shangai. Partecipa a tutti i Forum su Biodiversità e Forestazione urbana nel mondo. Nel frattempo dirige Domus e Abitare, le due più autorevoli riviste italiane di architettura, per poi trasferirsi alla presidenza della Triennale a Milano. Alla quale, nel 2020, associa la Fondation Cartier di Parigi firmando un accordo di collaborazione per otto anni, ottimo per il prestigio della Triennale, ma anche fortunata circostanza per lui, che viene scelto per arredare la nuova “Residence Cartier” di via Montenapoleone, definita “spazio flessibile tra sontuosità e minimalismo” qualunque cosa voglia dire. Gli odierni inciampi giudiziari, sono macchie d’inchiostro tra i rami. Se lavabili dai giardinieri volanti della procura, vedremo.
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