La saracinesca dei famosi
DI MICHELE SERRA
Quelli che vanno a farsi i selfie davanti al localino modaiolo di Milano sigillato per prostituzione fanno stringere il cuore. Non credo che saprebbero rispondere alla domanda “ma perché?”, per il semplice motivo che non se la sono mai posta. Passavano di lì e dunque devono aver intravisto, su quella saracinesca chiusa, la bava della notorietà, sperando di coglierne qualche stilla. Di quale sostanza sia fatta quella notorietà, non importa.
“Non sappiamo chi sia, ma ci sembra uno famoso”, pare abbiano detto molti anni fa, a un giornalista che colse casualmente la scena, due ragazze che avevano chiesto l’autografo a Licio Gelli in coda a un autogrill (l’autografo è l’antenato del selfie). La persona da avvicinare nella speranza che la sua scia di celebrità possa sfiorarti, come un farmaco miracoloso che estingue l’anonimato, può essere Hitler o Teresa di Calcutta, Gandhi o Jack lo Squartatore, la differenza non è rilevante. Non più rilevante, comunque, di quella pialla mostruosa che è la fama mediatica, che rende tutti uguali, a partire da quell’acronimo ridicolo, fantozziano, Vip, che oramai usiamo senza ombra di riflessione, senza pensare a che cosa vuol dire: Very important person, una delle parole più stupide e orribili degli ultimi trenta secoli.
Perché per quanto si sia ingrossato fino all’inverosimile l’esercito dei famosi, ormai diviso in sottocategorie le più varie e bizzarre, rimane sterminata e indistinta la massa degli anonimi, delle Not important person. La sola “importanza” convenzionalmente riconosciuta non è chi sei, cosa fai, come vivi: è essere famosi.
Perfino se sei una saracinesca. Nel negozio di fronte, magari, ottime persone fanno ottime cose. Molto più importanti che sniffare cocaina e procacciare escort. Ma nessuno lo saprà mai.
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