La luna, i diritti e il passo indietro
di MELANIA MAZZUCCO
La luna è divina. Millenni prima che gli astronomi scoprissero che è un globo di roccia, condannato dalla forza gravitazionale a ruotare intorno alla terra e, insieme con essa, intorno al sole, i mortali ne avevano riconosciuto la sacralità. Maschile, nella mitologia mesopotamica, giapponese e norrena. Femminile in quella mediorientale, mediterranea e poi occidentale. I greci la chiamavano Artemis, gli Etruschi Artume, i romani Diana. Vergine casta, cacciatrice e solitaria, patrona di animali selvatici, fanciulle, levatrici. Terribili le sue vendette, dolce la sua protezione. La scelta della Nasa di intitolare Artemis il prossimo programma — la missione che nel 2027 ricondurrà gli abitanti del pianeta azzurro sull’astro d’argento, per studiarvi le condizioni per viverci — era dunque un dovuto risarcimento al fatto che il programma precedente, che nel 1969 portò i primi umani sul satellite, era intitolato invece ad Apollo, il dio del Sole maschio, di lei gemello; e che finora, nei sei allunaggi, sia stato accordato solo a maschi (dodici) il privilegio di calpestare il sacro suolo del corpo celeste. Del resto i distributori italiani avevano tradotto Uomini sulla luna il neutrale titolo Destination Moon del film di George Pal, che nel 1950 aveva profetizzato l’allunaggio. Che venisse anche il turno delle astronaute, era l’altro riconoscimento — per quanto tardivo — che la rivoluzione femminile del XX secolo si è ormai compiuta. Che poi l’equipaggio dovesse includere un membro non bianco (“persona di colore”) e un astronauta “internazionale” pareva l’annuncio che il XXI secolo sarà di tutti — anche degli esclusi, finora, dalla storia dominante, gli oppressi, i discriminati, e gli altri, di qualunque nazione siano cittadini. Questi obiettivi sono spariti dalla pagina del programma Artemis sul sito della Nasa. Un aggiornamento del linguaggio? O qualcosa di più subdolo: una cancellazione? Sarebbe — per parafrasare la celebre frase di Neil Armstrong — un gigantesco passo indietro nella storia dell’umanità. Un flash back straniato, anacronistico. Un ritorno agli scienziati maschi bianchi e barbuti del filmino di Méliès, di cui ho scritto su queste pagine due mesi fa. Alla luna-colonia, proprietà privata di chi detiene il potere sulla terra. Così del resto l’ha raccontata la letteratura fantastica del secondo Novecento, che usiamo oggi definire distopica, mentre forse era soltanto visionaria — e perfino realistica. Nei romanzi e nei film di fantascienza, l’universo è spesso uno spazio invaso e colonizzato, dominato da spietate dittature classiste. Pochi, pochissimi, controllano risorse, ricchezze, mezzi di trasporto; molti, quasi tutti, sono forza lavoro e schiavi sventurati; i coraggiosi ribelli sono destinati a epiche rivolte e a fughe che possano condurli oltre le galassie conosciute.
Ma la luna — signora delle acque, delle maree e del sangue — custodisce il suo lato oscuro, e nessuno può possederla. Poiché non è solo l’inospitale detrito di remote collisioni, appartiene all’immaginario che è, per definizione, il luogo dell’alterità. Si possono eliminare gli obiettivi dal programma, per compiacere l’opinione pubblica suprematista, ma non fermare la storia. La luna è anche la signora del tempo, inesorabile nel suo sorgere a ogni tramonto del sole. Nel prossimo equipaggio ci saranno comunque astronaute e astronauti di ogni colore e provenienza, perché anche la terra gira, e ogni giorno Apollo scaglia i suoi dardi. Finirà anche questa notte che adesso ci abbuia: ma se pure venissero relegati nel lato in ombra della luna, i sogni e la fede nei diritti e nella libertà di tutti continuerebbero a esistere.
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