Davvero “noi” siamo migliori dei russi?

Quando ho cominciato a scrivere, nel ’96, c’era una voce che mi diceva, nella mia testa, “Ma vuoi scrivere un romanzo? Ma chi ti credi di essere? Ma non lo sai che sei solo una merda?”. La relazione con quella voce lì, son passati tanti anni, dura ancora. Ogni tanto lei torna fuori, lo scorso fine settimana, per esempio.
Ero a Roma, al Festival Libri Come, e Stefano Feltri mi aveva invitato alla sua trasmissione radiofonica che andava in diretta dall’Auditorium Parco della Musica, sede del Festival; mi aveva scritto, Stefano Feltri, che, siccome io avevo appena pubblicato un podcast che si intitola A cosa servono i russi, gli sarebbe piaciuto che raccontassi a cosa servono i russi all’Europa; io gli ho risposto che quello che serve all’Europa io non lo so; che non so niente di Trump, di Zelensky, di Macron, di Giorgia Meloni, che sono tutte figure che non mi appassionano mentre, non so, Vonnegut, Gogol’, Dostoevskij, Camus o Raffaello Baldini, per dire, loro, sì, mi appassionano, e che di loro avrei parlato volentieri, e che qualcosa di sensato magari sarei riuscito a dire anche sul rapporto tra scrittori russi e potere, russo, di Dostoevskij, per dire, o di Puškin, o di Boris Akunin, che è passato nel giro di cinque anni dall’essere il più celebrato e venduto scrittore russo all’essere dichiarato terrorista e estremista e essere vietato, in Russia (e una delle cose che dovevo fare, al festival di Roma, era presentare l’ultimo libro, di Akuin, L’avvocato del diavolo, appena uscito per Mondadori).
Lui mi ha risposto che andava bene e sono andato, e quando sono arrivato, c’erano anche Ginevra Lamberti e Wlodek Goldkorn, la prima cosa che ci ha fatto sentire, Feltri, è stata la dichiarazione di Giorgia Meloni su Ventotene e io ero abbastanza stupefatto e ho pensato che io, di Giorgia Meloni non avrei parlato perché a me, Giorgia Meloni, non mi interessava, e lì è saltata fuori la voce, nella mia testa, che mi ha detto “Non ti interessa Giorgia Meloni? Ma chi ti credi di essere? Ma non ti rendi conto che sei solo una merda?”, e io le ho risposto, alla voce “Ah, buongiorno, era tanto che non ci sentivamo”.
Dopo, Feltri ci ha chiesto di commentare una cosa che avevano detto Vecchioni e Scurati dal palco di una manifestazione a Roma cioè che, semplifico, noi, nel senso di noi occidentali, siamo meglio, degli altri, nel senso dei russi.
Quando è poi stato il mio turno di parlare, ho parlato per ultimo, ho detto che ero abbastanza stupefatto, dal fatto di dover commentare Giorgia Meloni, e che mi sembrava che, in un mondo sensato, non fossero gli scrittori a dover commentare quel che dicono i politici, ma, magari, il contrario, come mi sembra sia successo e succeda ancora in Russia.
Il che non vuol dire, ho detto, che quel mondo lì che a me sembra sensato sia il mondo ideale perché, per esempio, Nadežda Mandel’štam, la moglie di Osip Mandel’štam, ha scritto che suo marito, grande poeta russo che sarebbe poi morto in un gulag, le aveva detto “Da noi si uccide per la poesia – a conferma dell’eccezionale considerazione in cui è tenuta” (la citazione è tratta da Nadežda Mandel’štam, Speranza abbandonata, traduzione di Valentina Parisi e Marta Zucchelli, Milano, Settecolori 2024, p. 17).
Ecco. Io non pretendo, ho detto, che i politici italiani considerino gli scrittori italiani così come i politici sovietici consideravano i loro scrittori, ma mi sembra strano che la prima cosa che si chiede a tre scrittori sia di commentare una dichiarazione di Giorgia Meloni, mi sembra il mondo al contrario, in un certo senso.
Dopo, rispetto alla cosa che noi, europei d’occidente, saremmo meglio degli altri, io, qualche anno fa, con Nicola Borghesi, ho scritto uno spettacolo su cos’è la patria, su cosa vuol dire essere italiani, si intitola Se mi chiedono di vestirmi da italiano non so come vestirmi, e lì a me è venuto da pensare che, tra tutte le idee politiche che ho incontrato nella mia vita, la più luminosa è quella espressa da una frase di un avvocato siciliano che si chiama Pietro Gori e dice “Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà”.
Dopo, mentre scrivevo quello spettacolo mi sono ricordato di quando, nel 2005, dopo degli anni che non ci abitavo più, sono tornato a Parma, e ho ritrovato una luce, per le strade di Parma, a una certa ora del giorno, che mi sembrava di nuotare, nella luce. Che poi era la luce che, quando ero un bambino, che eran le due del pomeriggio, che uscivo dal portone, dall’androne buio del condominio dove abitavo, e aprivo il portone e entravo nella luce, che era tempo – dalle due del pomeriggio fino a sera – e spazio, – da via Montebello in qua, tutto il quartiere – e lì, tutti i giorni, la promessa era così grande che mi viene da piangere, a pensarci.
E ho pensato che io, se ho una patria, unica, luminosa, per la quale nutro una riconoscenza che non riesco a esprimere, che va oltre le mie capacità retoriche, be’, quella lì è Parma.
Dopo, diventando grande io ho conosciuto un posto, la Russia, che adesso mi dicono che è il nostro nemico, che sono peggio, di noi, che noi siamo meglio.
Io, devo dire, se escludiamo Parma, che per Parma valgono delle leggi particolari, nel resto del mondo vale, per me, il discorso di Pietro Gori: la mia patria è il mondo intero.
E, nel mondo intero, io ho vissuto in Algeria, in Iraq, in Francia e in Russia e, tra tutti questi posti, nel mondo intero, quello che conosco meglio, perché lo preferisco, perché mi piace, perché mi piace da sgarbati, come diciamo a Parma, quello che conosco meglio è la Russia, e quando ho cominciato a andare in Russia sono stato colpito dall’inspiegabile pregiudizio positivo che hanno i russi nei confronti dell’Italia. Dostoevskij, a 15 anni, nel 1837, scrive a suo padre, da Pietroburgo, che “Il tempo è meraviglioso, italiano”.
Per quel ragazzo di 15 anni, che non è mai stato in Italia, “italiano” è sinonimo di meraviglioso; e Anna Achmatova, che, con Osip Mandel’štam studiava italiano per leggere Dante in originale (e Mandel’štam, in un saggio memorabile, Conversazione su Dante, dell’italiano dirà che è “la più dadaista delle lingue romanze”), Anna Achmatova, quando degli studenti inglesi la vanno a trovare e vedono un volume con i versi di Dante in italiano, le chiedono se legge Dante in originale e lei risponde “Se leggo Dante in originale? Non faccio altro”; e quando, nel 1964, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre chiamano l’Achmatova e le dicono che, se lei è d’accordo, le sarebbe stato assegnato il premio Etna Taormina, e ci sarebbe da andare a Taormina a ritirarlo, lei risponde che è d’accordo, e è d’accordo anche per il fatto che premio viene dal paese che ha “amato teneramente per tutta la vita”.
Eco. Questo paese è l’Italia. Siamo noi.
Ecco. E concluderei dicendo che a me, devo dire, l’atteggiamento di Dostoevskij, Mandel’štam e Achmatova, verso l’Italia, piace di più di quello di Vecchioni e Scurati verso la Russia, ma sono io che son strano, chissà chi mi credo di essere.
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