I duecento brindisi dei Tre di Jalta
La Packard nera Super Eight avanzava tra le fontane e le aiuole, lucida e monumentale col suo fregio alato proteso in alto sul cofano come un araldo che annunciava l’arrivo del GenSek, i fari gialli fendinebbia, la ruota di scorta appesa al parafango destro: poi rallentò nella curva, per frenare alle quattro del pomeriggio davanti ai tre archi bianchi all’ingresso di Palazzo Livadia. Due leoni di pietra sorvegliavano indifferenti.
Josif Stalin scese dalla limousine insieme al commissario agli Esteri dell’Urss, Vjaceslav Molotov, e portò la mano alla visiera del cappello nel saluto militare. Indossava la divisa di Maresciallo dell’Armata Rossa, con un’unica decorazione, ma era anche Presidente del Sovnarkom, il Consiglio dei ministri dell’Urss creato da Lenin, e naturalmente Segretario Generale del Pcus, il partito comunista sovietico, centro nevralgico del potere nelle Russie. Quella domenica lui era il padrone di casa. Veniva nella residenza degli Zar mezz’ora prima dell’inizio ufficiale della Conferenza in visita di cortesia, per dare il benvenuto al suo principale interlocutore e alleato, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt.
Joseph Vissarionovich Stalin (18 December 1878 Ð 5 March 1953). Foto: History/Universal Images Group via Getty Images
Era invece per orgoglio che Stalin aveva voluto ospitare la delegazione americana nel palazzo degli Zar, inagibile dopo i saccheggi e la devastazione dei soldati nazisti in ritirata che avevano distrutto mobili e arredi, stracciato tende, svuotato gallerie e saloni. Ma Stalin aveva deciso che quella doveva essere la dimora del presidente degli Stati Uniti, così tre alberghi di Mosca furono associati all’operazione e dovettero cedere specchi, divani, tavoli e letti, tappeti, armadi, lampade e stoviglie che restituirono a palazzo Livadia il suo splendore imperiale. A Roosevelt fu assegnata la stanza da letto dello Zar al pian terreno, vicino a quella della figlia Anna (che sorvegliava silenziosamente la salute del padre) e alla camera del medico, l’ammiraglio Ross Mc Intire, mentre il comandante in capo della flotta americana King dormiva nel budoir della Zarina Alix al secondo piano. Bastava attraversare l’atrio per trovare il barbiere e la manicure, mentre la prima colazione era servita sulla terrazza al sole, davanti al mare. Il sistema di vigilanza era doppio, anzi triplo. La scorta armata britannicaaccompagnava Churchill nei suoi spostamenti e non lo perdeva di vista nemmeno nelle sale e nei corridoi della Conferenza, la guardia presidenziale americana presidiava il parco e le strade di accesso a palazzo Livadia, anche se durante la sessione plenaria, coi tre leader insieme, il traffico veniva deviato per precauzione. Sul tetto, comunque, vigilavano i tiratori scelti sovietici.
Churchill e il seguito britannico si sistemarono a mezz’ora di distanza, nella villa Vorontsov costruita cent’anni prima da un architetto inglese in una mescolanza di stili, con richiami gotici ed elementi orientali, influenze tartare, un gabinetto cinese, una sala da pranzo col soffitto in quercia e un parco di 40 ettari con la serra. Per la squadra russa, la più numerosa, Stalin scelse villa Koreis, imponente, magica e seducente, soprattutto perché era appartenuta al principe-conte Felix Jusupov, discendente dei dignitari del Khan Tamerlano e del camerlengo di Pietro il Grande, sposo della nipote dello Zar Irina Alexandrovna (la donna più bella di San Pietroburgo) e soprattutto assassino del santo-diavolo Grigorij Rasputin, il monaco guaritore che strumentalizzando la nevrastenia religiosa della Zarina manovrava la Corte e il governo prima della rivoluzione: così l’ombra di Rasputin, che secondo la leggenda nera affiorava ad ogni svolta della Russia, riuscì ad allungarsi fino a Jalta.
Ottanta anni fa Roosevelt, Churchill e Stalin si incontrarono in Crimea per disegnare il profilo del pianeta sconvolto dal nazismo. Dietro il confronto aperto tra i leader c’era una regia occulta che pesava i rischi e i vantaggi per ciascuno
Le cucine erano al lavoro dal mattino presto. Per le cene ufficiali, che a turno ogni delegazione organizzava invitando le altre nella sua residenza, era già arrivato da tre giorni lo chef in capo del Cremlino, Sidor Cirilovic Kriukov, con due aiutanti, sedici tonnellate di caviale in tre vagoni, un carico di champanskoye sovietico pronto ad alternarsi con la vodka nei duecento brindisi che negli otto giorni i Tre Grandi si dedicheranno a vicenda, e per finire una scorta abbondante di russki konyak.
Il tavolo era rotondo, con quindici sedie. Stalin sembrava circondato e protetto dai suoi, con a destra il ministro degli Esteri Molotov e l’ammiraglio Kuznetzov, ministro della Marina, e a sinistra il Capo di Stato Maggiore generale Antonov e il maresciallo Khudyakov, Capo dell’aeronautica. Poi seguivano gli americani, l’ammiraglio Leahy, Capo dello Stato Maggiorecongiunto, il Segretario di Stato Stettinius seduto accanto a Roosevelt, affiancato dall’altro lato dal generale Marshall, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e dall’ ammiraglio King, comandante della Flotta. Quindi gli inglesi, con il maresciallo dell’Aria Portal, il ministro degli Esteri Eden, il Primo Ministro Churchill, il visconte Brooke, coordinatore delle forze britanniche e il maresciallo Alexander, comandante supremo delle forze alleate nel Mediterraneo.
Molti militari, c’era pur sempre la guerra: ma fu l’unica volta, perché dal secondo giorno della Conferenza gli Stati Maggiori si riunirono ogni mattina in un vertice separato con un loro ordine del giorno e non presero più parte alle sessioni plenarie. Alle spalle della prima fila si era formata una piccola folla, perché tutti volevano partecipare a quel momento storico, con le tre potenze riunite per portare il mondo fuori dalla guerra. Ambasciatori come Gromyko, Harriman, Gusev, consiglieri plenipotenziari come Hopkins, malatissimo, che si era alzato dal letto soltanto per vedere Roosevelt alla prova dei “Grandi”, bolscevichi potenti come il Procuratore dell’Urss Andrej Januar’evi? Vyšinskij, che aveva istruito l’ondata di processi-farsa con la condanna a morte dei vecchi compagni di Lenin come Zinoviev, Kamenev, Bukharin. Per due ore quel primo giorno si affacciò ai bordi del tavolo persino il volto pallido di Lavrentij Pavlovic Berija, Commissario generale della Sicurezza dello Stato, ministro dell’Interno ma conosciuto da tutti come capo della GPU, la polizia segreta sovietica. Poi nessuno lo vide più: faceva parte del “comitato coperto” che controllava la Conferenza rimanendo dietro le quinte, una sorta di regia occulta che senza mostrarsi calcolava rischi e opportunità mentre affioravano al tavolo ufficiale.
Non era prevista una traduzione simultanea, e ogni delegazione aveva il suo interprete: il maggiore Birse per gli inglesi, il russo Pavlov per i sovietici, il diplomatico Bohlen per gli americani traducevano frase per frase, una proposizione alla volta, si andava avanti a singhiozzo, lentamente, e quando le voci si intrecciavano non si capiva niente. Stalin giocò la sua prima carta in apertura, mascherata da mossa di cortesia, proponendo che fosse Roosevelt a presiedere la Conferenza, in quanto era contemporaneamente capo del governo e capo dello Stato, mentre lui e Churchill guidavano soltanto i rispettivi governi, e il presidente russo Kalinin e il re inglese Giorgio VI non partecipavano al vertice.
Ineccepibile, dal punto di vista diplomatico e del riguardo al rango. Ma in realtà era un’operazione politica ben ponderata, che puntava - come Stalin farà per tutta la Conferenza - a separare e distinguere le posizioni dell’America e della Gran Bretagna, o almeno ad evitare che si saldassero necessariamente isolando ogni volta la Russia. In effetti in questo modo Roosevelt veniva attirato verso il centro del tavolo, in una zona neutra più da mediatore e meno da parte in causa, spinto dalle circostanze a privilegiare spesso il ruolo di conciliatore rispetto a quello di sostenitore della causa americana. Non solo: con Roosevelt vincolato dal compito di arbitro, Churchill si trovava costretto e autorizzato a tenere testa direttamente a Stalin, con ironia, con insofferenza, con testardaggine, alzando più volte la bandiera dei valori democratici di libertà, oltre naturalmente alle insegne dell’impero britannico.
Due relazioni militari aprirono la Conferenza, con un quadro completo del fronte di guerra. Il generale Antonov riepilogò l’offensiva sovietica d’invernoe il generale Marshall illustrò la situazione sul fronte occidentale: si trattava adesso di coordinare per la prima volta i piani d’azione bellica, nelle riunioni quotidiane dei tre vertici militari. Ci furono almeno due dozzine di brindisi. Nel primo Churchill celebrò le tre potenze che «dopo aver lottato e versato il loro sangue, potevano garantire la pace per cent’anni». «Sono d’accordo – replicò Stalin – tocca a chi ha sopportato lo choc della guerra preservare la pace. Sarebbe ridicolo pensare che un piccolo Paese come l’Albania possa avere una voce uguale a uno dei Tre Grandi». «La maggior responsabilità della pace pesa certamente su di noi – precisò Roosevelt – ma è un potere da esercitare con moderazione, rispettando i diritti delle piccole nazioni». «Desiderate forse – chiese polemicamente Stalin – che Paesi come la Jugoslavia e l’Albania siedano a questo tavolo? E che hanno fatto per meritarlo?». A questo punto Churchill recitò la sua prima parabola: «L’aquila deve permettere ai piccoli uccelli di cantare, senza preoccuparsi della ragione per cui cinguettano». Poi, con un sorriso che nascondeva la provocazione, brindò «alle masse proletarie del mondo»: «Mi si considera regolarmente un reazionario – spiegò – ma qui io sono l’unico leader che può essere licenziato in qualsiasi momento dal voto del suo popolo, e mi glorio di questo pericolo». «In realtà sembrate temere le prossime elezioni» insinuò maliziosamente Stalin. «Non solo non le temo – rispose il Primo Ministro – ma sono fiero che il popolo britannico possa cambiare il suo governo ogni volta che lo giudichi utile».
Poi cena americana per tutti, con pollo fritto e verdura: ma a un certo punto tornarono al tavolo caviale e storione, annunciando la vodka. Ancora brindisi, finché Roosevelt giudicò che era venuto il momento di una confidenza. «Sapete - disse a Stalin – io e Churchill nei nostri cablogrammi parliamo di voi con un nomignolo amichevole, Zio Joe». Il capo sovietico sembrava stupito, chiese perché. Ma Molotov alzò il bicchiere: «Non ingannatevi. Noi lo sappiamo da due anni».
Le figlie
Da sinistra Sarah Churchill, Anna Roosevelt e Kathleen Harriman, le figlie dei leader di Jalta al Palazzo Livadia dove si svolgeva la conferenza
Prima della buonanotte Anna Roosevelt, Sarah Churchill e Kathleen Harriman, figlia dell’ambasciatore americano a Mosca organizzarono per il giorno dopo una gita in automobile a Sebastopoli. Al mattino la scorta le seguiva a distanza, mentre visitavano le rovine, camminavano nel centro della città, si spingevano nella zona del porto all’ora di pranzo, accompagnate dalla curiosità dei passanti. Prima di risalire in auto a fianco dell’autista Spaman, Anna si avvicinò ad un gruppo di ragazzi, aprì la borsetta tirando fuori una tavoletta di cioccolata, per porgerla a una bambina. Poi la limousine è ripartita, mettendo fine all’unica breve parentesi turistica nella settimana del vertice di tre giovani donne che non avevano alcun ruolo politico nella partita negoziale, perché non facevano parte delle delegazioni ufficiali e non partecipavano alle sedute plenarie. Ma in quei giorni a Jalta tutto, compresi i gesti privati, finiva inevitabilmente sulla bilancia della diplomazia in equilibrio precario e delicatissimo tra i Tre Grandi: non c’erano zone neutre, soggetti irresponsabili, spazi franchi, e anche ciò che avveniva fuori dal tavolo ufficiale della Conferenza poteva ripercuotersi sulla trattativa, influenzandone il clima e il risultato. Così appena rientrata a palazzo Livadia Anna Rooseveltricevette la visita di una ragazza in uniforme, che le riconsegnò la tavoletta, spiegando che «ai bambini russi il cibo non manca». L’intesa fra le tre potenze alleate, con gli eserciti schierati e la bomba pronta ad uscire dal segreto per la sua missione di sterminio universale, aveva appena rischiato di inciamparein una trappola di cioccolata.
Nessun commento:
Posta un commento