domenica 5 marzo 2023

Se avete tempo

 

Longform di Repubblica di oggi 

Un istituto di credito cinese con filiali fantasma in Italia ricicla miliardi di euro verso le banche di Stato a Pechino. Lo usano i narcotrafficanti legati alle mafie, alcuni imprenditori del Nord Est. E gli oligarchi russi colpiti dalle sanzioni

La banca clandestina

IL RITORNO A PECHINO


In Italia c’è una banca segreta con filiali a Roma, Firenze, Padova, Prato, Napoli e Reggio Calabria. Un istituto di credito che muove miliardi di euro verso la Cina offrendo servizi speciali per clienti speciali. “China underground bank” la chiamano gli investigatori italiani, a partire da quelli della Guardia di Finanza: i primi a capire che qualcosa di strano si sta muovendo nel nostro Paese. Una sigla che è entrata anche nei sistemi dell’Europol, che ha già lanciato un alert a tutte le polizie dell’Unione europea. Perché qui non si tratta più di “singole operazioni sospette” e nemmeno di piccole transazioni di cinesi che inviano soldi in Madrepatria, frutto di riciclaggio ed evasione spesso della stessa economia illegale cinese in Italia. Ma nel sottosuolo del nostro Paese si sta muovendo un sistema organizzato e complesso. Che comincia allo “sportello” qui da noi e arriva dall’altra parte del mondo. Probabilmente grazie a una regia unica che potrebbe anche sfruttare una copertura statale: ma su questo aspetto indagini sono in corso. Di certo la banca segreta made in China è in grado di riciclare somme miliardarie senza lasciare traccia.

Ecco perché a questo istituto di credito sommerso si rivolgono non solo i cinesi stessi che hanno liquidità frutto di evasione fiscale con il meccanismo ormai noto e collaudato degli “apri e chiudi”: aziende fantasma che non versano Iva e contributi e che chiudono prima ancora che la Finanza possa entrare nei loro conti. Ma a questa banca sotterranea si rivolgono anche i narcotrafficanti legati alla camorra e alla ‘ndrangheta per pagare i più feroci cartelli della droga colombiani; oppure gli imprenditori in gran parte del Nord Est che hanno capitali in banca frutto di evasione e vogliono riciclarli in fretta prima che qualcuno delle forze dell’ordine metta il naso nei loro affari; e, ancora, agli “sportelli” cinesi si rivolgono oligarchi russi che dopo le sanzioni per la guerra in Ucraina non possono fare acquisti tracciati in Italia, e gli stessi super ricchi cinesi che vogliono fare shopping nel grandi vie della moda tra Milano, Firenze e Roma senza rispettare il limite di 50 mila euro fissato dalle banche cinesi nei loro conti per spese all’estero. Perfino gli imprenditori edili protagonisti di truffe milionarie sul superbonus hanno avuto contatti con “funzionari” della banca segreta cinese.

In cambio i dirigenti di questo grande istituto di credito nascosto incassano percentuali delle somme da movimentare per il disturbo: soldi che, quasi per un obbligo di Pechino, tornano tutti in patria.

Ecco: i soldi dei cinesi in Italia devono tornare in gran parte a Pechino, questa è stata sempre la regola in fondo. Così la banca segreta spiega il motivo di un altro fenomeno molto strano che negli ultimi dieci anni la Banca d’Italia ha registrato: il crollo delle rimesse ufficiali dei cinesi in Italia verso la Cina. Dai 5 miliardi di euro del 2017 si è passati ad appena 9 milioni del 2021. Un dato in controtendenza con ogni logica sociale ed economica: perché l’ordine di Pechino non è cambiato e il guadagno di aziendine e negozietti cinesi nel nostro Paese non deve essere reinvestito qui, per non lasciare nulla all’Occidente; ma soprattutto perché il numero di partite Iva cinesi in Italia è cresciuto in questi dieci anni, quasi triplicato. Dunque, come è possibile che le rimesse sono crollate fino a scomparire e nel frattempo non un punto di Pil in più ha registrato l’Italia dall’aumento dell’economia sinica?

La relazione del Generale

Il generale Bruno Buratti, oggi a capo dell’area Italia Centrale ed ex comandante dell’area Triveneto della Finanza, che negli anni scorsi ha coordinato alcune importanti operazioni sulla movimentazione di denaro in Cina, nell’ultima relazione che ha firmato per il Veneto ha affermato che «tra il 2008 e il 2020 solo nel Nord-Est sono state aperte da cinesi 15 mila partite Iva e il 55 per cento ha dichiarato zero euro, il 20 per cento tra 6 mila e 0 euro di fatturato». E che in Veneto «gli interventi ispettivi nei confronti di ditte individuali cinesi hanno consentito agli inquirenti di scoprire un debito tributario pari a 2 miliardi di euro a fronte di un recupero di appena 50 milioni di euro». Dove sono finiti tutti questi soldi? La grande banca sotterranea spiega cosa sta accadendo: soltanto questo “istituto” starebbe movimentando da 1 a 2 miliardi di euro all’anno facendo arrivare un fiume di denaro nei conti correnti delle grandi banche di Stato cinesi: come, a esempio, The Agricultural Bank of China, Bank of China, China CITIC Bank, Cina Construction Bank Corporation. Si stima, a volersi tenere bassi, che oltre 15 miliardi di euro dall’Italia, tramite triangolazioni che coinvolgono società fantasma in Slovenia, Bulgaria e soprattutto Ungheria, quest’ultima diventata una quinta colonna dell’economia cinese in Europa, sono arrivate negli ultimi anni nelle filiali dello Stato guidato da Xi Jinping


Gli italiani evasori


I numeri sono impressionanti, tanto che è stata costituita una unita ad hoc al Comando centrale della Guardia di Finanza.

Ma come funziona questa banca? Chi davvero si rivolge a queste “filiali” nascoste per riciclare soldi, pagare i cartelli del narcotraffico o semplicemente per avere contanti da poter spendere in tranquillità? E chi sono i cinesi coinvolti in queste operazioni? Sono tutti prestanome o ci sono anche leader delle comunità locali?

La risposta a queste domande sta arrivando da un grande viaggio a ritroso che gli inquirenti stanno facendo, oltre alle indagini in corso e molto importanti per le cifre in ballo. Ma è la storia passata che sta spiegando il presente, come sempre accade: così, riprendendo anche vecchie operazioni nelle quali ci si era concentrati sull’evasione o sul traffico di droga e poco sulla movimentazione del denaro, si stanno riannodando i fili nascosti di questa banca segreta. Le indagini, e le storie che queste inchieste raccontano, stanno consentendo di comporre il grande puzzle della banca underground cinese in Italia in maniera nitida e chiara: senza questa banca, i soldi non potrebbero tornare in Patria ed è quindi l’anello finale di una catena di comportamenti e azioni che sembra davvero frutto di un grande libro delle istruzioni. Perché c’è un corollario di questa vicenda. Gli inquirenti ritengono ormai che ci sia una sorta di manuale dell’economia illegale cinese per creare nero attraverso aziendine “apri e chiudi” e commercio di prodotti contraffatti: con l’obiettivo poi di far tornare i proventi in Patria. Una tesi che se dimostrata aprirà anche un fronte politico. È questa l’altra faccia della medaglia, insieme al denaro, della “China underground Bank” d’Italia.

Questa storia inizia a emergere in controluce da alcune indagini che hanno come fulcro centrale l’evasione fiscale degli imprenditori italiani. Nel febbraio del 2014, ad esempio, la polizia del Ticino insieme alla Guardia di Finanza scopre un meccanismo che somiglia davvero a un gioco dell’oca. Da una parte un gruppo di imprenditori evasori italiani, con aziende oltre confine che - attraverso canali illeciti, società fasulle, sponsorizzazioni sportive gonfiate e false fatturazioni - facevano arrivare bonifici per milioni di euro su conti bancari in Ticino. Dall’altra, la comparsa di due cinesi che si occupavano di far transitare questi soldi dai conti correnti del Ticino verso la Cina. In questa operazione le Fiamme Gialle seguendo un cinese arrivano a un appartamento a Milano. Entrano e trovano un deposito con centinaia di migliaia di euro in contanti: l’abitazione era di un cinese già condannato per criminalità organizzata. Chiaramente tutto avveniva grazie alla compiacenza di un dipendente della banca ticinese e di un consulente finanziario che faceva da commercialista agli italiani. Un caso isolato, si pensa.

Passano gli anni e, a qualche decina di chilometri da Milano, a Verona, nel marzo del 2017 si alza il velo su una rete di italiani che riciclavano denaro frutto di evasione. I Carabinieri di Verona scoprono la truffa di alcuni imprenditori di Legnano che avevano evaso Iva e altre imposte con finte fatture a società cartiere e grazie a questo meccanismo si erano aggiudicati appalti pubblici, dall’edilizia ai servizi. Si scopre che gli imprenditori italiani attraverso società fasulle hanno versato in conti correnti di banche estere 37 milioni di euro in cambio di contante prelevato da uno sportello postale con tranche da 5 mila euro a volta fatti da “corrieri” pagati 50 euro a prelievo. Nelle pieghe dell’indagine, salta fuori una donna cinese che ha gestito «un grande flusso di denaro verso la Cina» con questo meccanismo. Ma che strano, soldi che vanno in Cina. E gli italiani? Come si riprendono il denaro? Questo passaggio non è chiaro.

Nel gennaio del 2018, i Carabinieri portano a termine l’operazione “Jolly” a Roma, scoprendo un riciclaggio di 18 milioni di euro. Uno degli arrestati, un imprenditore romano che lavora nel settore del commercio d’auto, già in passato era stato catturato per operazioni di riciclaggio a favore di Enrico Nicoletti, storico cassiere e riciclatore della Banda della Magliana. Il meccanismo è sempre lo stesso: un primo gruppo si è occupato di creare finte società che trasferivano il denaro sui conti correnti di una società con sede a Londra; un secondo sodalizio, facente capo anche in questo caso a un italiano, un imprenditore di Guidonia, inviava il denaro, in questo caso frutto del traffico di sostanze stupefacenti sul territorio della Capitale. Ma secondo gli inquirenti il grosso del riciclaggio era frutto di denaro nero fatto da imprenditori cinesi, e anche nella società fantasma a Londra c’erano dei cinesi coinvolti. Sempre nel 2018, a giugno, la Guardia di Finanza di Bologna trova alcuni cinesi all’aeroporto che stavano imbarcando trolley pieni di lingotti d’oro per un valore di 2,5 milioni di euro. Si scoprirà che quei lingotti erano stati creati da un orafo ad Arezzo in cambio di denaro contante frutto di evasione di aziende del tessile di Prato. Insomma, compaiono sempre italiani che evadono e cinesi che offrono servizi per trasferire denaro all’estero. Ma manca ancora l’anello finale, i soldi che tornano in contanti ai nostri evasori.

Nel settembre del 2021, i Carabinieri di Brescia indagano su un broker della droga che offriva servizi di riciclaggio ad alcuni imprenditori tra Milano, Bergamo, Mantova, Lodi, Alessandria, Novara, Varese, Parma e Piacenza. E si scopre che in una girandola di pagamenti a società cartiere, con soldi in buona parte frutto dei guadagni della commercializzazione di chili di hashish, tramite conti correnti esteri in Francia, Ungheria, Bulgaria, alla fine il denaro approda in Cina. E qui arriva la prima traccia della chiusura del cerchio: un cinese si occupava di ridare i soldi al broker e ai suoi collaboratori. Come? In contanti. Quindi, da un lato pagamenti con fatture finte, ma trasferimento di denaro in conti correnti veri verso la Cina. Dall’altro contanti che venivano garantiti agli italiani. È questa una traccia chiave. E poco dopo arriva la vera chiusa del cerchio che farà emergere la prima filiale internazionale vera della grande banca underground.

La scoperta del 2021

Novembre 2021, operazione “Via della Seta”. La Guardia di Finanza di Pordenone - dopo anni di indagini, pedinamenti, intercettazioni - scopre il meccanismo di evasione dell’Iva di imprenditori italiani nel settore del ferro e dello smaltimento degli scarti ferrosi; e pagamenti alle banche cinesi per 150 milioni di euro, con tanto di restituzione di contanti in sacchi in un centro commerciale di Padova gestito da cinesi.Nelle stesse settimane la Guardia di Finanza di Portogruaro fa una seconda indagine, su un noto commercialista Veneto che garantiva l’evasione di diversi imprenditori e i conseguenti investimenti frutto del nero, e arriva sempre lì, nel centro commerciale di Padova. Una donna, Wang Y., è la regista di tutto e garantisce, con i suoi familiari che gestiscono un anonimo negozietto in via Stati Uniti, contanti in sacchi per centinaia di milioni di euro. Alla fine mettendo insieme le due operazioni, si arriva a due trasferimenti di fondi in Cina per 210 milioni di euro.

Ma andiamo per ordine. Le Fiamme Gialle stavano seguendo i movimenti di Stefano Cossarini, un imprenditore di Pordenone sospettato di aver messo su una rete per smaltire illecitamente scarti da metallo prodotti dalle fabbrichette di Lombardia e Triveneto, evadendo milioni di euro di Iva e altri imposte. Scrivono i finanzieri nel loro report investigativo che ha fatto scattare l’indagine della Direzione Distrettuale Antimafia di Trieste: «Stefano Cossarini si reca spesso in corso Stati Uniti a Padova, entra nel negozio ad insegna Pier Monì e ne esce con buste dalle quali si evince il recupero, all’interno del negozio, di qualcosa ». La Guardia di Finanza da giorni aveva piazzato lì delle telecamere: in quei sacchi c’è del denaro contante. È la chiusura del cerchio. Ma lo schema è complesso: centinaia di aziende della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna - per smaltire gli scarti metallici da produzione senza pagare le imposte e senza garantire il controllo dell’origine dei materiali - hanno venduto in nero 150 mila tonnellate di rame, ottone, alluminio e altri metalli a delle società (Metal Nordest, Femet ed Ecomet) create da tre imprenditori. Quest’ultimi facevano finta poi di acquistare lo stesso quantitativo di materiale da tre imprese in Repubblica Ceca e in Slovenia, intestate o controllate da loro: la Kovi Trade, la Steel Distribution e la Biotekna. In questo modo, con delle carte fasulle, si certificava l’origine di questo materiale dall’estero. Ma l’operazione non finisce qui: formalmente le tre società della Slovenia e della Repubblica Ceca ricevevano i bonifici e quindi incassavano soldi veri, circa 150 milioni di euro. A questo punto le tre società estere fingevano di acquistare a loro volta il materiale ferroso in Cina, facendo quindi ulteriori pagamenti veri, accreditati in diversi conti di banche cinesi. Una volta accertatisi del bonifico fatto in Cina, i cinesi restituivano i soldi in contanti agli italiani trattenendo una percentuale per il disturbo. Il sospetto che lo Stato cinese sappia di questo giro di soldi nasce dal nome delle banche che ricevevano questi bonifici. In gran parte istituti controllati dallo Stato: a partire dalla Bank of China, con conti nelle sedi di Xiamen, Quanzhou, Hangzhou e Jinhua; proseguendo con The Agricultural Bank of China, China City Bank, China Construction Bank Corporation, China Everbright Bank e Industrial and Commercial Bank of China.

I pagamenti a società cartiere

Qualche mese prima, la Guardia di Finanza di Venezia, investigando su un giro di riciclaggio, scopre per pura casualità un meccanismo identico. Le Fiamme Gialle stavano facendo un approfondimento su Fabio Gaiatto, un finto broker che in secondo grado è stato condannato a 10 anni per aver truffato una serie di clienti attraverso una sua società finanziaria che prometteva guadagni fino al 10 per cento della somma investita. E seguendo un investitore legato proprio a Gaiatto, un sessantaquattrenne di Portogruaro, salta fuori dell’altro. Durante la perquisizione, l’investitore cerca di disfarsi di un hard disk gettandolo dalla finestra: «I nostri tecnici riescono comunque a recuperare tutti i file e trovano non solo i pagamenti a società cartiere in Bulgaria e Slovenia, sempre per finti smaltimenti di rottami di ferro e finti acquisti dalla Cina dello stesso materiale con bonifici che finivano questa volta in una banca di Shangai, ma anche le foto di questi bonifici inviate ad imprenditori cinesi», hanno spiegato allora dalla Finanza. Seguendo queste tracce, gli inquirenti finiscono sempre in corso Stati Uniti a Padova. E davanti si trovano il volto di chi gestirebbe questa intermediazione per conto dei cinesi. Lo stesso volto che appare nell’operazione della Finanza di Pordenone: una donna, chiamata nelle intercettazioni “la grande sorella”.

Questa operazione diventa una sorta di Sacro Graal: uno schema completo di funzionamento della banca cinese underground, che verosimilmente ha una enorme liquidità di denaro da mandare in Cina frutto di proventi illeciti fatti in Italia. Uno schema che viene mandato a tutti i Comandi provinciali della Finanza aprendo collaborazioni anche con Carabinieri e Polizia. Così lo scorso settembre a Brescia la Guardia di Finanza indaga una coppia di imprenditori per finti acquisti di materiale ferroso in Slovenia e Paesi dell’Est con bonifici arrivati fino in Cina per 4,5 milioni di euro. Nel giardino di casa della coppia, sotto terra, vengono trovati fusti con 8 milioni di euro in contanti. Altri 3 milioni sono stati trovati nella cantina. Il giro di fatture false però valeva 500 milioni di euro. Poco prima la Finanza di Prato aveva chiuso l’operazione “Pluto” e arrestato un cinese che con finte società ha trasferito dal 2013 170 milioni di euro in Cina: soldi frutto dell’evasione e del nero di altre aziende del distretto di Prato.

I numeri e i soldi sono impressionanti e tutti hanno un legame comune: contatti con gruppi di cinesi che si occupano del contante e del trasferimento dei soldi in Madrepatria.

Pagamenti esteri per conto delle mafie

La banca underground non si occupa solo di ripulire soldi italiani e in fondo anche dell’economia illegale cinese. Ma offre servizi di pagamento all’estero garantendo al cento per cento il trasferimento dei soldi. Anche perché, all’altro capo del mondo, non ci sono tipini ben disposti a subire truffe e raggiri. Parliamo dei più grandi cartelli della droga del Sud America, a partire dal cartello “del Golfo” in Colombia. Camorra e ‘ndrangheta hanno preso contatti con questa rete di filiali cinesi e le prove stanno emergendo da indagini recenti e, anche qui, da un viaggio a ritroso in operazioni di qualche anno fa che però non si erano concentrate molto sulla presenza di cinesi che garantivano pagamenti e ricevevano contanti.

Nel febbraio del 2020 viene arrestato il narcotrafficante della ‘ndrangheta Domenico Romeo: per pagare al cartello colombiano “del Golfo” un carico di cocaina da 400 chili, si era rivolto ai cinesi. A dirlo agli investigatori è lo stesso Romeo, che parla della consegna a Milano di diverse tranche da 100 mila euro l’una a dei cinesi che poi avevano un loro contatto in Colombia. Per il servizio quest’ultimi hanno trattenuto una percentuale delle somme. Romeo era latitante dalla primavera del 2019, dopo che sfuggito all’operazione “Buon vento” che con la collaborazione della Dea statunitense ha portato all’arresto di tre persone, fra cui Antonio Alvaro, “contabile” dell’omonimo clan, arrestato proprio in Colombia. Era lui il regista di una gigantesca spedizione di droga da quasi 400 chili, già in transito verso l’Europa e del valore di oltre 100 milioni. Un fiume di coca che la Finanza, con la cooperazione delle autorità spagnole e francesi, ha seguito fino al porto di Genova, dove ne sono stati sequestrati 386 chili. Il pagamento era stato garantito dai cinesi.

Nel maggio 2021 viene arrestato in Spagna il boss Giuseppe Romeo della

di San Luca. Anche qui nelle pieghe dell’indagine curata dall’Interpol saltano fuori contatti con una donna cinese ad Anversa in Belgio che garantiva i pagamenti all’estero per il traffico di droga. Ad Anversa gli inquirenti ritengono che Romeo si appoggiasse per la gestione delle finanze a una seconda donna cinese. Nelle carte dell’indagine si legge che l’appartamento - usato come base logistica dalla banda del Belgio legata a Romeo - era proprio della donna, che aveva anche un altro indirizzo nel quartiere a luci rosse: secondo gli inquirenti la donna avrebbe garantito ai Romeo l’accesso a «un sistema informale di trasferimento del denaro con metodo simile all’Hawala». In questo caso le transazioni non avvenivano attraverso conti correnti, ma con schemi “fiduciari” tra persone: cioè un cinese in Colombia riceve una telefonata da un connazionale in Italia e paga sulla fiducia i narcotrafficanti sapendo che poi sarà risarcito.

Arriviamo allo scorso ottobre. La Guardia di Finanza scopre un patto d’affari Italia-Cina che emerge dalle pieghe dell’inchiesta della Dda di Milano che porta a 13 fermi smantellando il clan guidato da Davide Flachi, figlio del “boss della Comasina” Pepè Flachi, morto lo scorso gennaio. In cella, verrà poi scarcerato dal riesame, finisce anche l’ex pugile Franco Terlizzi, in passato concorrente del reality L’isola dei famosi,

con l’accusa di essere un prestanome di Flachi. Al centro dell’indagine c’è una partita di 140 chili di hashish in Spagna acquistata per essere destinata alle piazze milanesi. La consegna viene poi impedita da un sequestro al confine con la Francia e l’affare salta. Ma emerge che per i pagamenti Flachi si era rivolto a esponenti della comunità cinese di Agrate Brianza. Lo scorso novembre invece vengono smantellate dal Gico della Finanza due bande milanesi che si occupavano di riciclaggio di denaro frutto di spaccio di droga. Le due bande avevano in comune corrieri e rotte di traffico, ma soprattutto un modo di operare tramite siti di stoccaggio e consegne su furgoni. Ed erano arrivati a movimentare fino a 6 tonnellate di droga. Ma le due bande avevano anche altro che li legava tra loro. Entrambe ricorrevano «a strumenti di trasferimento e riciclaggio del denaro tramite i “servizi” garantiti dalla banca segreta cinese». E qui compare “Luca detto il cinese”, con ufficio-filiale in via Canonica. In questa indagine viene coinvolto anche Rosario D’Onofrio, ex militare ed ex arbitro.

Ci sono poi le indagini in corso a Napoli che fanno emergere contatti tra boss di vertice della camorra e cinesi, con carichi anche da un milione di euro scambiati a ridosso degli aeroporti: carichi di denaro contante che la camorra versa a dei cinesi che poi si occupano di fare i pagamenti della droga in Sud America; mentre quello stesso denaro contante magari è utilizzato per ridare soldi a italiani che si presentano poco dopo e che invece attendono soldi liquidi dopo aver versato somme in conti correnti in Cina. Funziona così d’altronde la filiale della banca in nero: i clienti sono tanti e la movimentazione di denaro avviene in tempi strettissimi. Tutto comunque ha un prezzo: una percentuale tra il 2 e 5% dell’ammontare di denaro da trasferire o da consegnare in contanti, trattenuto dai cinesi e rispedito in patria anche questo.

Spalloni e money transfer

Ecco. La banca che trasferisce soldi in Cina non lo fa solo con meccanismi complessi e bancari. Ma nel sottofondo, anche se ormai in forma residuale perché molto più difficile e pericoloso, continua il trasferimento di denaro attraverso spalloni. Metodo, quest’ultimo, ancora funzionante in sostituzione del meccanismo ormai scoperto dagli investigatori e che fino ai primi anni Duemila era il più diffuso per far tornare in Madrepatria il denaro anche illecito: quello dei money transfer. Un meccanismo scomparso già dal giugno 2015, quando la Procura di Firenze scopre un trasferimento illecito di 2,2 miliardi di verso la Cina proprio attraverso agenzie di money transfer. Già allora era finita nel mirino degli inquirenti la filiale di Milano della Bank of China, insieme a quattro suoi dirigenti. Chiuso quel canale, continua ancora oggi quello degli spalloni. Un metodo che ha il suo cuore negli aeroporti italiani. Lo scorso anno i carabinieri di Milano, nell’operazione “Rent”, seguendo alcuni calabresi coinvolti in un traffico di droga, arrivano a dei commercialisti cinesi che si occupavano dei pagamenti e del trasferimento del denaro a Hong Kong anche con il sistema degli “spalloni”: scoprendo che solo all’aeroporto di Fiumicino con trolley carichi di denaro erano stati inviati in Cina circa 37 milioni.

Il flusso di denaro illecito Italia-Cina è insomma enorme, a fronte di rimesse ufficiali ridotte a pochi spiccioli. E la banca sotterranea è un tassello fondamentale per far tornare i capitali in Madrepatria. Anche i servizi di intelligence italiani stanno accendendo i riflettori su questa Via della Seta al contrario. Si legge nella Relazione annuale Sistema Sicurezza della Repubblica presentata martedì scorso: «In merito alla criminalità cinese, l’azione informativa continua a essere orientata in direzione del dinamismo affaristico-criminale di spregiudicati imprenditori sinici che, anche attraverso il ricorso ad articolati schemi di evasione fiscale e riciclaggio, cui spesso si accompagnano fattispecie di sistematica raccolta e trasferimento in Madrepatria dei proventi di attività illegali, sono riusciti a consolidare il loro posizionamento all’interno di taluni settori economici nazionali, anche attraverso una sistematica collocazione in ben definite aree territoriali».

L’ultima relazione annuale dell’Unità di Informazione finanziaria della Banca d’Italia affronta lo stesso argomento: «Nel corso del 2021 sono pervenute diverse segnalazioni di operazioni sospette relative a trasferimenti di fondi di ammontare rilevante disposti da società italiane verso la Cina, spesso con l’interposizione di imprese dell’Europa centro- orientale operanti in settori eterogenei e non coerenti con l’ambito di attività delle disponenti. Il fenomeno, già emerso in passato relativamente alla possibile sottofatturazione di merci tessili importate dallaCina, si è manifestato con modalità parzialmente inedite, estendendosi a settori commerciali differenti tra cui, principalmente, quello edile, del commercio e del recupero di strutture metalliche. In linea generale, gli specifici connotati delle società italiane coinvolte (spesso neocostituite e con una struttura operativa e organizzata minimale) nonché le peculiarità delle connesse movimentazioni finanziarie hanno consentito di ricondurre gli schemi segnalati ai paradigmi operativi che, pur esternando un’apparente legittimazione commerciale, sono finalizzati al mero trasferimento di somme tra soggetti, in questo caso italiani e cinesi, per il regolamento di affari illeciti di varia natura».

E salta fuori, in questo meccanismo di trasferimenti di denaro in Cina, anche il superbonus edilizio e le truffe fatte da decine di imprenditori italiani: «Con il riferimento al comparto edile - scrive l’Unità della Banca d’Italia - i fondi strumentali all’esecuzione delle disposizioni estere provengono dalla cessione a intermediari bancari domestici di crediti di imposta fittizi, maturati a seguito della presunta realizzazione di lavori edili o di efficientamento energetico nel quadro delle misure di sostegno all’economia varate nel contesto pandemico. Per quanto concerne il settore dei metalli, invece, la presenza di società cartiere e altre entità a vario titolo interposte nell’ambito della filiera nazionale ha comportato un progressivo allungamento della catena dei trasferimenti, rendendo più difficoltosa la ricostruzione dei flussi finanziari: le risultanze delle analisi condotte e le relative implicazioni per lo più di carattere fiscale, sono state suffragate dagli esiti degli accertamenti investigativi».

Il sistema bancario illegale cinese

Quello delle banche illegali cinesi comunque è un fenomeno che esiste anche all’interno della Cina, come emerge dallo Studio sulla criminalità internazionale cinese del “Global Financial Integrity”, un think thank con sede a Washington specializzato nell’analisi di illeciti finanziari: «È difficile determinare l’entità del sistema bancario clandestino cinese, ma non c’è dubbio che è stato utilizzato anche per spostare ingenti somme oltre i confini della Cina. Ad esempio, le autorità cinesi hanno sequestrato circa 130 miliardi di dollari “da banche sotterranee”. In Cina, gli importi confiscati dichiarati sono di solito la punta di un iceberg. Secondo alcuni specialisti, si stima che le banche sotterranee cinesi abbiano oltre 10.000 clienti e si ritiene che riciclano oltre 100 miliardi di dollari ogni anno». Ma secondo questo studio anche l’economia sommersa, e le banche sotterranee, servono a far crescere l’invadenza dell’economia cinese all’estero. Perché un elemento di tutta questa storia, e cioè della “China underground Bank” in Italia, non deve sfuggire: con questo meccanismo in Cina arrivano miliardi di valuta in euro. Un tesoro per l’economia di Pechino. E qui si apre il secondo aspetto di questa vicenda: può lo Stato cinese non sapere che nei conti correnti delle sue banche arrivano miliardi di euro frutto di attività illecite e anche del nero fatto dai distretti in Italia?

Lo shopping di Stato

D’altronde che il governo cinese abbia organizzato un intervento diretto nell’economia italiana è testimoniato da una serie di fattori da tempo a disposizione della polizia giudiziaria e dell’intelligence del nostro Paese. La Repubblica è in grado di raccontare come, poco prima del lockdown, per Roma girasse un avvocato che provava ad acquisire, per conto di aziende direttamente riconducibili a Pechino, i pacchetti di maggioranza di aziende strategiche. Lo faceva attraverso società vettore che servivano unicamente a schermare la vendita in modo da non permettere poi alle autorità italiane di risalire ai reali compratori. Il calcolo è stato sbagliato: come documenta l’inchiesta su Alpi Aviation, l’azienda di droni che stava per finire in mano cinese, il nostro Paese si è mosso. Con la Procura, la Polizia giudiziaria e infine con la politica. Sotto il governo Draghi, viene consolidata la normativa sul golden power, lo strumento che permette al governo di intervenire, bloccare o comunque regolamentare le vendite a società estere di aziende che operano in settori strategici per la sicurezza nazionale. Delle 496 notifiche emesse dalla Presidenza del Consiglio nel 2021, 51 riguardano compravendite di tecnologia nella Difesa, 20 nel 5G, 425 nell’Energia, Trasporti e Comunicazioni. Una buona parte fanno riferimento proprio ad aziende cinesi, in particolare nel 5G. Dove per esempio le aziende che utilizzavano tecnologia non europea sono state escluse dalle gare d’appalto. Il principio è il solito: la sicurezza dei dati o, meglio ancora, la non accessibilità delle informazioni rispetto ai server. Anche perché molto spesso queste aziende sono direttamente controllate da società di Stato. Nei mesi scorsi La Repubblica ha condotto un’inchiesta con Datenna, azienda olandese che monitora i movimenti delle compagnie cinesi tramite fonti aperte (Osint, Open source intelligence).

Datenna ha individuato una serie di acquisizioni di aziende strategiche da parte di compagnie cinesi, le quali a loro volta sono collegate in vari modi con il governo. Emblematica è la storia che riguarda la Famà Helicopters, azienda specializzata nella produzione di elicotteri ultraleggeri. Come emerge dagli atti analizzati da Datenna, la cinese Duofu International Holding Group nel 2022 non solo ne ha acquisito gli impianti di produzione, ma anche il suo Dipartimento di ricerca e sviluppo, il know how e i diritti di proprietà intellettuale. «Osservando la struttura societaria - spiega Datenna - si nota che Duofu International Holding ha la piena proprietà di Wenzhou Dover Aviation Industry Group Co. e di altre tre filiali che operano nel settore dell’aviazione. Anche se l’accordo è stato concluso nel campo dell’aviazione civile, la Cina punta ad aumentare l’interazione tra ricerca civile e settori commerciali e la loro applicazione militare attraverso un piano strategico denominato Military-Civil Fusion. Gli investimenti che sono stati recentemente conclusi nel settore dell’aviazione, tra cui uno con Airbus, sottolineano la volontà cinese di raggiungere l’indipendenza nella catena produttiva». Il punto è che la Duofu ha avuto direttamente collaborazioni con entità governative del regime cinese. In un’area di sviluppo, quella dell’aviazione, centrale nella strategia militare di Pechino.

La banca in nero che riporta i capitali in Madrepatria, l’economia illegale e i tentativi di acquistare asset fondamentali dell’Italia. Su tutti questi aspetti si sono accesi riflettori a ogni livello anche nel nostro Paese.

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