sabato 18 marzo 2023

Filosoficamente Daniela

 

Il neocapitalismo social fa soldi pure piangendo
DI DANIELA RANIERI
Gli idoli virtuali piangono senza freni sui social, e la stampa mainstream interpreta quelle lacrime come indizi di una rivoluzione, come fossero davvero la doratura che ci rimane sulle dita di cui parlava Flaubert quando metteva in guardia dal toccare gli idoli veri. I sempre più frequenti pianti, gli sfoghi, le ammissioni di fragilità che manager, influencer e “imprenditori digitali” consegnano ai social ispirano editoriali su una presunta mutazione di questa forma terminale del capitalismo: se chi ha costruito un successo planetario sull’apparenza ammette la propria vulnerabilità davanti a milioni di seguaci – è la tesi comune – allora stiamo entrando in una nuova era, in cui il mito della performatività e il culto della perfezione si sbriciolano per far posto alle emozioni, alla profondità e alla fragilità, ciò che rende “le celebrità del web” esseri umani come tutti.
Questa lettura ingenua e sbrigativa è, come quelle lacrime, perfettamente funzionale alla logica del neo-capitalismo. L’influencer proprietaria del marchio ClioMakeUp (10 miliardi di fatturato l’anno, un impero da 100 dipendenti) ha conquistato la stampa offline dopo aver pianto su Instagram raccontando come quello delle influencer sia diventato “un mondo di squali”, tossico e competitivo. Clio, diventata famosa con video-tutorial con cui insegna alle follower a truccarsi, affida a un reel un’agnizione che assurge a emblema di una tendenza, che però non è quella che appare.
Nel neoliberismo digitale gli individui si sottomettono volontariamente alla disciplina della visibilità permanente. Come (quasi) tutti noi, gli influencer producono e mettono in scena sé stessi e la loro vita, ma a differenza nostra non lo fanno gratis. Sponsorizzando prodotti o alberghi (offerti loro da imprese e multinazionali a quello scopo, con l’abbattimento implicito di ogni eventuale critica), recitano la versione abbiente e realizzata di noi stessi. Chiara Ferragni, che incarna il prototipo e ormai lo stereotipo di questo metodo (quanto sia influente lo prova il fatto che Liliana Segre l’abbia invitata a visitare con lei il Memoriale della Shoah), dopo Sanremo riguadagna l’attenzione pubblica con uno sfogo su Instagram, sotto a una foto da 1 milione e 42 mila like che la ritrae in lacrime: “Ho dovuto capire come risolvere problemi più grandi di me con la paura di non farcela come moglie e come mamma”. Aveva già pianto su Instagram per la perdita di due persone care, persone che però non aveva mai visto dal vivo; piangeva nella serie The Ferragnez su Amazon Prime, raccontando i suoi problemi col marito Fedez durante la terapia di coppia; piange Fedez narrando la sua malattia. Tutto può e deve essere monetizzato: merci, appartamenti, malattie, contratti, ecografie, figli. E se c’è di mezzo il denaro, insegna Marx, ogni cosa è soggetta a una dialettica. È il denaro che rende la vita dell’influencer sacra e terribile. L’influencer Olga Buzova, 23,3 milioni di follower su Instagram, ha pianto in un video (“Mi state togliendo la vita”) non a causa della guerra, ma davanti alla prospettiva della chiusura del social in Russia.
Scrive Byung-chul Han in Infocrazia (Einaudi): “Gli influencer sono adorati come modelli esemplari: tutto riceve una dimensione religiosa. Nella veste di guide motivazionali, si atteggiano a salvatori. I follower partecipano alla loro vita come discepoli, comprando i prodotti che gli influencer ingiungono di consumare… prendono parte a una eucaristia digitale. I social media somigliano a una chiesa: il like è il loro Amen”. I follower sono individui separati, privi di qualunque coscienza di classe. Li accomuna solo l’elogio dell’individualità, un altro tipo di conformismo, non caso leitmotiv degli ultimi due Sanremo (l’ultimo dei quali co-condotto da Ferragni): bisogna ostentare le proprie fragilità, non perché esse siano un aspetto ineliminabile dell’umano, ma perché anch’esse servono per “farcela”, come diceva la Chiara adulta alla Chiara bambina nella sua lettera-monologo (buffo: un discorso sull’importanza di ignorare ciò che pensano gli altri di noi, fatto da una persona che ha costruito la sua carriera sul piacere agli altri). Come questa pornografia del sé è reazionaria (Marcuse la chiamava “desublimazione repressiva”), così il dolore è funzionale al successo. Braden Wallake, Ceo di Hypersocial, ha pubblicato su Linkedin un selfie in cui appare in lacrime per aver dovuto licenziare i suoi dipendenti (“Questa sarà la cosa più vulnerabile che avrò mai condiviso”). Nessuna verità che emerge, nessuna riscossa dell’autenticità. Semplicemente, si è scoperto che si possono monetizzare anche le ansie generate dall’essere schiavi della propria immagine. Come si vendono prodotti – e con essi sé stessi – così si vende il prodotto “vulnerabilità”: un altro modo di ottenere like. E, come scrive Byung-chul Han, “il like esclude qualsiasi rivoluzione”.

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