martedì 17 gennaio 2023

Ritratto e sospetti

 

Il personaggio
I misteri
dello stragista
che non volle
diventare re
L’ascesa con il sangue e il tritolo. Ai picciotti confidava: “Con le persone che ho ucciso posso farci un cimitero” Poi trent’anni di latitanza da manager della Mafia spa

DI LIRIO ABBATE

È l’ultimo degli stragisti. L’ultimo capo corleonese latitante. Matteo Messina Denaro ha finalmente un volto e una forma. In questi trent’anni è riuscito a stare al riparo dall’arresto diventando quasi invisibile, anche agli stessi mafiosi dell’ultima generazione. In tutto questo tempo il capomafia ha voluto far credere di essere etereo, evanescente, una sorta di presenza intangibile. E chi aveva bisogno di lui arrivava anche a inginocchiarsi, ad alzare lo sguardo al cielo e con le mani giunte, come se si raccogliesse in preghiera, a chiedere la sua grazia o il suo “miracolo” di moltiplicare i beni, e i piccioli. Una latitanza che è stata funzionale anche alla strategia di Cosa nostra, quella dell’immersione, dell’invisibilità, quella di tentare di far dimenticare l’esistenza della mafia, almeno dall’agenda della politica. E lo ha fatto evitando omicidi eccellenti, nuove stragi e attentati. E silenziando le armi. E in parte è riuscito in questa operazione.

Occorre partire da lontano per raccontare l’importanza di Messina Denaro, U siccu, come lo chiamavano gli affiliati trapanesi. Matteo, amava confidare ai suoi picciotti, alla fine degli anni Ottanta, che con le persone che ha ammazzato poteva farci un cimitero. Si calcola, attraverso le sentenze, che il boss ha sulla coscienza,come mandante o esecutore, una sessantina di cadaveri comprese donne e bambini.
Poi sono arrivate anche le stragi di Falcone e Borsellino, in cui ha avuto un ruolo determinante accanto a Riina, e infine le bombe a Roma, Milano e Firenze nel 1993. E quindi l’inizio, il 2 giugno 1993, della sua latitanza, dove ha trasformato tutto, compreso la sua personalità e il suo modo di agire. In questa data inizia ufficialmente la latitanza del boss perché accusato di omicidi per la prima volta dal collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio. Il boss trapanese però è già irreperibile.

La storia di Matteo Messina Denaro inizia da lontano, nel Trapanese: uomo di fiducia di Salvatore Riina. U siccu si mostra subito come un sanguinario assassino, vicinissimo al clan di Brancaccio di Giuseppe Graviano, attualmente detenuto. E diventa con il trascorrere degli anni il custode dei segreti del capo dei capi, in particolare delle carte dell’archivio di Riina, e ottiene in eredità i legami con quella zona grigia che ha dialogato e fatto affari con Totò u Curtu fino al 1993. Legami e contatti ancora preziosi per Cosa nostra, di cui potrebbe aver fatto tesoro in questi anni da ricercato.
L’ascesa di Matteo Messina Denaro dentro l’organizzazione comincia nel momento in cui il padre, anche lui un capomafia, è costretto alla latitanza e i suoi movimenti sono limitati da una malattia. In questo modo U Siccu è di fatto reggente della provincia mafiosa di Trapani: prenderà il posto del capofamiglia, parteciperà alle riunioni, diventando il vertice del mandamento.

Il boss è fra i mandanti ed esecutori degli attentati in continente organizzati da Cosa nostra. A Roma in via Fauro il 14 maggio c’è il primo atto della campagna stragista avviata dai corleonesi, in cui tenta di uccidere Maurizio Costanzo. Seguiranno sette attentati nell’arco di undici mesi, dieci morti, novantacinque feriti, danni al patrimonio artistico e religioso. A Firenze (27 maggio), viene fatto esplodere un Fiat Fiorino pieno di tritolo che fa cinque vittime in via dei Georgofili, dietro agli Uffizi.
Decine i feriti. Danni al museo. Due mesi dopo altri tre attentati, quasi in contemporanea. Alle 23,14 del 27 luglio, in via Palestro a Milano, una Fiat Punto esplode davanti al Padiglione d’arte contemporanea facendo cinque vittime e dodici feriti. Poco più tardi due autobombe esplodono a Roma dopo la mezzanotte davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano e davanti all’antica chiesa di San Giorgio al Velabro: ventidue i feriti oltre i danni alle due chiese.

E poi il 23 novembre 1993 viene sequestrato da un commando di mafiosi il tredicenne Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino, per tentare di bloccare la collaborazione dell’uomo con la giustizia. Matteo Messina Denaro oltre a organizzare e deliberare il sequestro mette a disposizione alcuni posti nel trapanese in cui il ragazzo viene tenuto segregato. Dopo quasi tre anni di stenti, legato sempre alla catena, l’11 gennaio 1996 Giuseppe Di Matteo vienestrangolato e poi sciolto nell’acido dai corleonesi. E alla vigilia di Natale del 1995 ordina l’uccisione a Trapani dell’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Montalto. Il poliziotto prestava servizio nel carcere Ucciardone a Palermo, nella sezione in cui erano rinchiusi i mafiosi sottoposti al 41 bis. In quel periodo erano detenuti anche i boss Filippo e Giuseppe Graviano, i quali, nonostante la detenzione, sono riusciti a concepire un figlio con le loro mogli.

Per Matteo la lotta allo Stato avviata da Riina è considerata una guerra giusta, da combattere con ogni mezzo, il tritolo, la corruzione e l’omicidio. E lui la comincia fin dall’infanzia. A quattordici anni già sparava. A diciotto uccideva. A trentuno metteva le bombe al Nord. Questo è quello che sappiamo di lui, un ragazzo dalle innegabili doti criminali. La sua ultima foto, scattata negli anni Ottanta, trovata in un covo del Trapanese, ci aveva consegnato il volto di un picciotto che voleva apparire “innocente”. Ma non lo era. È furbo e intelligente. Ma anche spietato. Decine di volte era sfuggito all’arresto, per coincidenze o per “spiate” che lo hanno messo in salvo. Blitz effettuati di notte nelle campagne del Trapanese e dell’Agrigentino. Ricerche allargate in altri Paesi, anche in Sudamerica.

È riuscito a creare un welfare mafioso che gli ha consentito di ottenere una rete di protezione ovunque.Perché ha girato sul territorio somme di denaro che ha consentito a chi ne aveva bisogno di mangiare. E per questo è stato protetto, senza mai essere tradito. Eppure, negli ultimi quindici anni sono centinaia le persone che sono finite in carcere perché accusate di favoreggiamento. E non solo hanno subito le condanne, ma anche il sequestro e la confisca dei loro beni. U Siccu ha fatto così tanti soldi in questo periodo della sua latitanza che non riusciva a contarli, doveva pesarli. È ricco Matteo, e non ha mai pensato di ricoprire la carica di capo di Cosa nostra, e a chi gli è andato ad offrire lo scettro del potere ha sempre risposto che gli bastava il mandamento di Trapani.

Ma la vera forza di U Siccu, quella che gli ha consentito di sopravvivere per decenni all’azione di contrasto dello Stato — quando quest’ultimo ha iniziato a metterla in atto seriamente — , risiede nella sua capacità di creare e consolidare rapporti con soggetti esterni. Non solo i massoni e i politici, indispensabili per tessere la rete del potere, ma soprattutto gli imprenditori: è sul loro denaro che si fonda il potere stesso.
La necessità di gestire e implementare questi rapporti ha da sempre costituito uno degli scopi principali dell’organizzazione: è stata e continua a essere una priorità assolutamente imprescindibile. Alla mafia tradizionale si è infatti affiancata la nuova mafia, impegnata nell’accumulazione della ricchezza e attivanei mercati legali. Capo indiscusso ne è Matteo Messina Denaro. Ed è pericolosa e insidiosa. U Siccu è riuscito a renderla moderna, pur mantenendo le caratteristiche tipiche di Cosa nostra. Nel territorio in cui opera non si ricorre all’imposizione indiscriminata del pizzo e nel corso dei decenni, in particolare dopo le stragi, Cosa nostra ha manifestato questa sua straordinaria capacità di cambiare pelle, di adeguare le scelte strategiche all’evolversi degli eventi, ampliando progressivamente il proprio profilo imprenditoriale.

E per questo abbiamo assistito alla costituzione di strutture economico- aziendali gestite direttamente o indirettamente da uomini d’onore o loro prestanome. Il rapporto tra Messina Denaro e il mondo imprenditoriale ha in sostanza cambiato connotati, passando da un atteggiamento a forte connotazione parassitaria, in cui la grande impresa era vessata da continue e pesanti imposizioni, a un rapporto di natura collaborativa, che vede la diretta partecipazione occulta del clan alle attività economiche dell’impresa. Non più, quindi, un’organizzazione che vuole trarre dal rapporto con l’imprenditore soltanto i vantaggi derivanti dalle estorsioni, ma un sodalizio che pretende la diretta partecipazione all’attività imprenditoriale. D’altronde, nell’ottica mafiosa, “fare impresa” significa creare e distribuire lavoro e ricchezza, allargando a dismisura quel consenso diffuso che costituisce l’humus su cui cresce la pianta mafiosa. Adesso con l’arresto di U Siccu si chiude un’epoca e se ne apre un’altra in Cosa nostra.

Nessun commento:

Posta un commento