La morte del giovane fattorino apre una riflessione necessaria Occorre un nuovo umanesimo
La sagoma a terra del rider investito I dem ripartano da questa foto
DI STEFANO MASSINI
Se la domanda è da dove dovrebbe ricominciare, il Pd, la risposta potrebbe essere: da questa fotografia. È stata scattata a pochi passi dal cuore della nostra capitale, in piazza dei Re di Roma. È stata scattata ben 48 ore dopo che un rider di 23 anni era stato ucciso dalla manovra di un bus. Faceva consegne a piedi, il ragazzo kenyota figlio come tanti di quella gigantesca galassia del precariato che per necessità contrae l’estensione del tempo all’orizzonte circoscritto di un presente afferrato, strappato a morsi. Di quel rider, invisibile fra gli invisibili, è però, per paradosso, rimasto il segno. Ci è rimasto letteralmente. Ci è rimasto perché a distanza di due giorni, nessuno ha ritenuto di togliere dall’asfalto la sagoma in gesso del suo corpo steso, e la chiazza nero-rossastra del sangue. Sta ancora tutto là, come un monito, come un monumento, come un promemoria di cui a nessuno infischia assolutamente niente, tanto che macchine e scooter ci transitano sopra con allegria, nel traffico convulso di un lunedì mattina al Tuscolano.
Perché proprio da qui potrebbe ripartire la missione di un partito che si è perso? Per tante ragioni. In fondo quella sagoma a terra, senza un corpo dentro, è un po’ il paradigma di un contenitore senza più il contenuto, è il perimetro tratteggiato in gesso di quella che era un’entità viva, un lavoratore giovanissimo venuto in Occidente a costruirsi una possibilità, che invece l’ha portato al cimitero. Il punto è che queste 48 ore, trascorse spudoratamente senza che nessuno ne rimuovesse il sangue dalla carreggiata, sono davvero l’istantanea del nostro tempo, del suo cinismo, della sua boria, del suo anti-umanesimo che prese forma come effetto di un neo-habitat di avatar e si è radicalizzato in disprezzo dell’altro, della sua storia, dei suoi diritti. Guardo le automobili passare sopra la macchia del sangue, e dico a me stesso che quegli pneumatici declinano la marcia di una collettività legittimata nel suo menefreghismo, nella sottovalutazione, nella negazione sbruffona di tutto ciò che viene dall’altro. L’altro non esiste più, è stato azzerato, eliminato come sinonimo o di falso o di minaccia, e come tale si è pezzo per pezzo destrutturato l’edificio di solidarietà che era stato costruito in nome di un’alleanza sociale. Non esiste più niente di tutto ciò, è stato spazzato via dalla logica opportunistica per cui chi è debole non merita nulla se non l’epiteto di cretino (copyright di Donald Trump, nientemeno Presidente degli Stati Uniti). Il sostantivo pietà è scomparso dai radar. Il solo menzionarlo fa alzare il ticchettio del contatore Geiger che invece della radioattività misura tassi di buonismo e di retorica, eppure è anche dalla pietà che un partito di massa dovrebbe ricominciare, se pietà significa vedere, guardare, aprire gli occhi su chi non ce la fa, aborrendo chi ne fa solo una sagoma di gesso a terra, da archiviare prima possibile.
Abbiamo appreso sulle colonne di questo giornale che 2 giovani su 3 vedono il futuro nero, senza possibilità. Fra loro c’era anche il ventitreenne falciato da quel bus in un sabato pomeriggio di gennaio, il cui nome neppure ci è dato sapere, ma tanto che vale, tanto cosa significa, tanto cosa cambia?
Sono rimasto circa un quarto d’ora a fissare il tratto disegnato di un ex-rider, il suo sangue rappreso, il mazzolino di fiori mezzo sfatto dai motorini e monopattini di chi ci sfreccia sopra parlando al cellulare.
Credo davvero che l’umanesimo sia l’unica chance possibile. Anteporre l’essere umano a tutto, al profitto, all’interesse, alla tecnologia, alla deriva che in nome dell’identità ci svuota di unicità, e ci raggruppa in greggi da recintare. Sì, credo che tutto possa iniziare dallo scandalo mancato di questa fotografia.
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