venerdì 6 gennaio 2023

Ogni tanto un bel Merlo!

 

L’addio sobrio al Papa teologo con San Pietro nella nebbia
I funerali di Benedetto regalano un’altra immagine simbolo dopo il vento per Wojtyla e il fulmine di quando Ratzinger si dimise Ma stavolta in piazza non è stata una festa nazionalpopolare
DI FRANCESCO MERLO
CITTA' DEL VATICANO
L’ennesimo, ultimo saluto al più salutato dei Papi, la festa “dimessa” all’esiliato che è tornato, finalmente in trionfo, ma per entrare nelle casse di cipresso e di zinco, è in apparenza solo una messa barocca, una saga di riti, paramenti e canti sacri, in una piazza che si è svegliata con la nebbia, che a Roma non è più una novità, ma oggi fa molta atmosfera e segna il tempo della Chiesa, come quel vento che soffiava sul funerale di Giovanni Paolo.
La nomenclatura è divisa per recinti e posti assegnati, seguendo una complicata graduatoria del potere che, per varchi e controlli, si risale con molta fatica sino alla scalinata e sino alla bara chiusa con sopra il grande vangelo aperto. Ma anche il potere oggi è “dimesso” e la città non è blindata, la processione è di autobus e non di scorte armate, gendarmi e carabinieri sono mille ma discreti, attorno alla piazza e alla “zona rossa” non ci sono autoblu, anche perché non sono venuti i grandi del mondo. Gli ospiti più di rango sono la regina di Spagna, il re del Belgio e il cancelliere tedesco, e infatti nella notte non si sentivano gli elicotteri abbassarsi nel mezzo cielo di Roma con divieto di sorvolo.
Soprattutto, il funerale questa volta non riesce ad essere una festa nazionalpopolare. E non certo perché “la festa d’addio” è sempre e comunque un ossimoro, ma perché questa volta a Roma non c’è Roma e dunque non c’è l’Italia di popolo che nel 2005 si era appropriata del Papa polacco, che tutti si disputavano e nessuno riusciva a tenere nelle proprie mani, e poi nel 2013 si commosse per le dimissioni e scoprì la bellezza del Papa solo quando non era più Papa. Da regnante, infatti, sia a Pompei e sia a Loreto, nei suk delle madonne di plastica e delle statue di gesso dei pontefici «non si vende, il papa non si vende» mi dissero i bancarellari di strada, che sono i parassiti del successo, i microorganismi della popolarità e della religiosità da basso napoletano, la più viva.
Certo, oggi i riti sono diversi, ma le immagini sono più o meno le stesse del 2013, con gli stessi santi vescovi trottoloni, in veste nera cinta di rosso, e i cardinali che Moretti faceva giocare a pallavolo. Si somigliano anche i pellegrini, appassionanti e bellissimi, il cui numero, come si sa, è sempre affidato alla benevolenza della retorica: forse ventimila; no, sono sessantamila; anzi, più di centomila. Ma la verità è che, pur essendo moltissimi, non sono i pellegrini dell’abbondanza, e sono una delusione per il Vaticano che si aspettava il tao, il flusso, la potenza, non dico ilmilione, che è la cifra iperbolica per antonomasia, ma neppure di chiudere l’intero mondo in un abbraccio, “l’enorme e fredda corte del Bernini” la chiamava Bruno Zevi.
E però, in agguato e con uno strano solletico nell’incavo delle reni, li ho visti in fila già alle 5 del mattino, nello stesso giorno in cui, appena un chilometro più in là, in via del Tritone e in via del Corso, con una determinazione persino più estatica si formavano le file davanti alla Rinascente e a Ralph Lauren.
Qui ci sono sicuramente meno giovani, ma sono magici i preti e le suore e, anche se si parla soprattutto tedesco, ci sono donne in costume croato. E i polacchi in fila si riconoscono per la gentilezza. La signora Katharina si scusa con me per quel Chomiak che ha accoltellato la studentessa israeliana Abigail Dresner alla stazione Termini: «lui viene da Grudziadz, e io da Torun, a mezzora di macchina, la città di Copernico». Le racconto i particolari di cronaca e promette che reciterà un’Ave Maria anche per lui e pregherà Ratzinger per… «…Per farsi cooperatore della verità? » la interrompo. Ma non capisce. Eppure “cooperatore della verità” non è una funzione di polizia, ma è il motto dello stemma di Benedetto, e sono felice che la signora cattolica non lo sappia. Mi piace che la religione e la devozione del mondo non pendano dal cappio delle tv e dei giornali italiani che da quattro giorni, in onore del Papa teologo, ci immaginano tutti mistici e devoti monomaniaci, tutti ermeneuti della Trinità, tutti professori di Cristologia.
Qui il Papa morto è il Papa e basta, Papa indeterminato che acquista ora questo, ora quel profilo a seconda del frate che bussa alla porta di ciascun pensiero. Ognuno vi ritrova se stesso. Chissà cos’è per quel plotone di malati spagnoli e cosa diventa per quegli altri, allegri e festosi, che sulla maglietta portano scritto Ecyd, «un’organizzazione — mi spiega una simpatica messicana quarantenne — di teenagers, giovani legionari di Cristo».
Mi cattura e mi incanta la teatralità di una famiglia di colore che viene da Londra: la mamma, Fortunata, è sulla sedia a rotelle e i suoi figli, Angelina e Fabian, la spingono. Le vesti delle due donne sono nere e lunghe sino ai piedi, sul capo hanno veli ricamati e trasparenti, e ci vedo, nella qualità del tessuto e nel punto vita, un coprirsi senza mortificazione. Per loro, Benedetto «è la messa in latino». Penso con divertimento che per i grandi giornalisti italiani di destra, Sallustius, Minzolinus e Porribus, il latino papale è berlusconiano e forse pure meloniano: latino della Garbatella. Francesco, invece, piace ai radical chic perché è sfigato come un dem.
Ha celebrato la sua messa lodando la delicatezza e la sapienza di Ratzinger, amaramente invidiandogli «la gioia di udire per sempre la sua voce». E non ha mai sorriso. Lo vedo uscire appoggiandosi non a un bastone ma a un sacerdote. Oggi il Papa morto sembra vivo e il Papa vivo sembra morto. Intanto perché mai i Papi muoiono il giorno della morte. Il Papa è una funzione storica e teologica, un produttore di destini, un capo di Stato, una politica, un alimentatore di idee e di valori, un incantatore di individui e un eccitatore di folle... Perciò non muore il giorno della morte.
Francesco, invece, che esce dalla piazza San Pietro ingobbito e sfinito, sembra Atlante schiacciato dal peso del mondo, “dimesso” com’era Ratzinger prima di dimettersi, prima di somigliare a tutti tranne che a se stesso. Ora è Francesco l’icona della sofferenza fisica, mentre l’altro è puro spirito che sopravviverà persino alla retorica ispirata dei tanti predicatori, matti di sapienza, che la Rai ci propone, vie di mezzo tra Milingo e Wanna Marchi, che trovano un bottone divino ad ogni asola politica.
Francesco infatti ha consegnato Benedetto al dibattito intellettuale, una biglia di ghiaccio in perenne movimento, materia controversa da interpretare per i devoti, gli studiosi, i vaticanisti, i capi di Stato, e ovviamente i nemici e gli avversari, gli ortodossi, gli islamici, gli ebrei, i taoisti, i buddisti, tutti quelli che credono di essere loro i veri rappresentanti di Dio in questa terra, in questo pianetuncolo.

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