Tax the rich. La patrimoniale fantasma è una tradizione del novembre italiano
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Puntuale come le cambiali, ogni anno all’apparire all’orizzonte della legge finanziaria – per gli amici “manovra” – si apre qualche botola, o passaggio segreto, ed ecco il fantasma della patrimoniale che aleggia su tutti noi. È una specie di tradizione. A ferragosto un grande pranzo, il 6 gennaio arrivano i Re Magi e a novembre si discute di patrimoniale, un folklore tutto italiano che purtroppo non necessita di costumi tradizionali, e non c’è nemmeno il dolce apposito, anche se ci starebbe bene, che so, la “torta patrimoniale”. Cucina povera, ovvio.
Così si comincia a guardarsi in giro e si scopre che una categoria in crescita è quella dei milionari, e che siccome il sogno di tutti è diventare milionari, moltitudini di poveracci si battono come leoni per impedire che chi guadagna migliaia e migliaia di volte quello che prendono loro abbia una piccola pressione fiscale in più. Un chiaro caso di ipnosi di massa. La prevedibilità della ricorrenza fa in modo che nessuno veramente la prenda sul serio, un po’ come a Natale che sarebbe meglio essere più buoni, ma andiamo, chi ci pensa veramente? Sono cose che si dicono. Così la patrimoniale diventa materia di conversazione, un po’ come il meteo: già si sa chi dirà cosa, e come e perché, con tutte le sfumature pratiche, tecniche e ideologiche del caso.
Naturalmente si dibatte sul ceto medio: un Paese dove i proletari non votano e dove le elezioni sono un rito democratico di una minoranza più o meno garantita (sempre meno, a dire il vero) ecco le grida allarmate e gli attacchi di panico. Qualcuno tenta timidamente di dire che si parla di ricchi e super-ricchi, non dell’impiegato o del capoufficio, ma niente, non funziona. E anche per ricchi e super-ricchi le cose si fanno difficili perché o non si sa bene dove trovarli (lo disse addirittura Mario Monti: dovremmo tassare i grandi patrimoni, ma non li conosciamo), o si sono già rifugiati in questo o quel paradiso fiscale, o sono ricchi stranieri che hanno preso la cittadinanza qui, pagano un forfait e morta lì. È il paradosso delle palate di soldi: i ricchi italiani veleggiano verso posti più gentili con loro e i ricchi stranieri vengono qui perché siamo gentilissimi con loro. Non se ne esce. Ci sarebbero, è vero, altri sistemi per ricordare ai super-ricchi che dovrebbero contribuire di più, e una di queste è la tassa di successione, cioè qualcosa che attenui il meccanismo ereditario della ricchezza, che perpetua le diseguaglianze. Tassa che può arrivare fino al 50 per cento in Spagna e in Germania, al 60 per cento in Francia, al 40 per cento in Gran Bretagna e via così, mentre da noi l’aliquota massima è dell’8 per cento. Ogni legislazione prevede franchigie e aliquote progressive, e per gradi di parentela, ovvio, ma resta il fatto che da noi è la più bassa in assoluto. E anche in questo caso scatta il meccanismo diabolico del contribuente di Pavlov: miliardari da generazioni vengono strenuamente difesi da chi eredita il bilocale della nonna, un po’ come se un castello pieno di re fosse difeso con le unghie e coi denti dai contadini poveri che abitano nei paraggi. Eppure solo negli ultimi anni con tre successioni da sogno (Berlusconi, Del Vecchio, Armani, circa 60 miliardi, a occhio e croce) una tassa di successione “europea” avrebbe avuto i soldi di una manovra. Che sarebbe stata una bella cosa, pensando ai soldi, ma addirittura bellissima se si considera che per un anno avremmo potuto evitarci la noiosa tradizione del dibattito sulla patrimoniale.
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