domenica 9 novembre 2025

Ricordo di Peppe

 

Tutta la musica di Vessicchio
Maestro geniale del Festival
Di Angelo Carotenuto
Peppe o Beppe, adesso cosa importa.
Sulla bocca delle folle e negli hashtag dei social aveva un nome scisso in due, e lui diceva solo: fate voi.
Così davvero su Vessicchio abbiamo fatto noi, immaginandolo un pezzo omogeneo alla fauna di Sanremo, per via dei quattro che aveva vinto da direttore d'orchestra accanto agli Avion Travel, Alexia, Valerio Scanu e Roberto Vecchioni; per le incursioni stralunate con i Jackal, o per certe assenze che negli ultimi anni si sono accumulate in conseguenza di una dolorosa causa con la Rai.
Così come avevamo fatto noi immaginandolo nel laboratorio talent di Maria De Filippi, alla maniera di un Benjamin Shorofsky, l'insegnante del Bruno di Saranno famosi.
Un'icona pop — come si dice adesso — che ha usato il pop per andare dove, a un certo punto, gli interessava veramente: la ricerca, l'innovazione, il dialogo con la scienza.
Il maestro Vessicchio è stato una matrioska di mondi: quando le avevi aperte tutte, ce n'era sempre un'altra che conteneva una nuova scoperta inesplorata.
Parlava di camere acustiche e vasche sonore, andava con gli studiosi dell'Istituto di fisica nucleare sotto il Gran Sasso per registrare l'attività dei muoni e tradurla in una sequenza di note grazie a un algoritmo ("Per sentire come suona l'universo").
Alla sua esposta attività da musicista ha abbinato un percorso da indagatore del potere del suono.
Anzi, lui diceva: potenza.
"Perché il potere ti chiede qualcosa in cambio, invece la musica ha cambiato il mondo gratis."
È morto a 69 anni all'ospedale San Camillo di Roma per una polmonite interstiziale, precipitata in modo inatteso, rapidamente — proprio quei polmoni che gli avevano portato via un mucchio di amici d'infanzia.
Napoli, rione Cavalleggeri, quartiere Bagnoli.
La zona occidentale, l'area dell'acciaieria e dell'amianto, la spiaggia di catrame, il mare diventato di ruggine, il cielo che si faceva rosso all'improvviso per le colate di acciaio liquido.
Quando giocava a pallone al campo americano sotto l’Italsider, s’alzavano cumuli di lana che parevano neve. Anche quello si era messo a studiare.
"Dirige l'orchestra il maestro Vessicchio", si sentiva all'Ariston.
Ma il maestro leggeva di come le mucche nel Wisconsin facessero latte migliore ascoltando Mozart.
Si era messo a smontare e rimontare i meccanismi di quelle composizioni come fanno i bambini con i Lego, incrociando melodie e combinazioni di frequenze che chiamava armonico-naturali, il Metodo Freman, e scoprendo come le sequenze aiutavano i pomodori a crescere sotto le serre, oppure mutavano il vincolo tra le molecole del vino.
È nata così la cantina Musikè, e chi lo chiamava per arrangiare un pezzo o per averlo al festival doveva accettare che Vessicchio vestisse la canzone con quell’abito sonoro — quello e non un altro — perché in cima a ogni pensiero stava l’equilibrio, la concordanza con il mondo.
Questo respiravano i musicisti in casa sua: un senso di pace.
E questo chiedeva ai registi che lo cercavano per una colonna sonora, ai foniatri, agli oncologi, ai contadini con cui scambiava pareri e collaborazioni.
Chiedeva l’eufonia costruita in privato con sua moglie, la scrittrice Enrica Mormile, con sua figlia Alessia, la nipote Teresa, le pronipoti, e pure con Audrey — la cagnolina che annusava il temporale, lo sentiva.
Peppe o Beppe, adesso cosa importa.
La prima volta era andato a Sanremo con Zucchero, "da badante" diceva: portavano Canzone triste, venne la neve, arrivarono penultimi.
La più portentosa apparizione resta quella del 1996 con La terra dei cachi, quando il regolamento imponeva che una sera fosse eseguito solo un frammento di un minuto.
Con gli Elii ce la fecero stare tutta, suonandola al triplo della velocità.
Solo una volta è andato come autore, ma in incognito, con un pezzo non firmato nella sezione Giovani; e non è firmato un altro pezzo che nella storia della canzone italiana ha lasciato un segno.
Apparire non è mai stata una voce del verbo Vessicchio.
Era stato folgorato da ragazzo sulla via della musica da Giochi proibiti e Quando ti stringi a me, andando dietro a un fratello chitarrista e una sorella con una bella voce.
Il papà lo voleva architetto: si arrese a metà degli esami perché lo scopriva con il Manuale di armonia di Schönberg e lo vedeva uscire di notte per locali.
Ha fatto parte del gruppo comico Trettré: uno di loro suggerì il suo nome a Peppino Gagliardi, che stava cercando un giovane arrangiatore per il nuovo disco.
C’era la fila per quel lavoro.
Con Gagliardi aveva collaborato Bill Conti, quello di Rocky.
Presero lui, che al Conservatorio c’era stato da abusivo autorizzato — autorizzato dal custode che lo faceva entrare alle lezioni.
Eppure è bastato perché si sentisse figlio della grande scuola napoletana del ‘700: Scarlatti, Pergolesi, Cimarosa.
Il Mi minore era la sua tonalità preferita ("Mi dà serenità").
Ha lavorato con Bocelli, Ron, Francesca Michielin.
Ha conservato sui giovani uno sguardo aperto e mai banale, fino a credere che l’autotune serva a spostare l’attenzione dal virtuosismo tecnico al contenuto dei testi.
Fu in una stanza d’albergo a Firenze, in tournée con Paoli e Vanoni, che musicò Ti lascio una canzone.
Gino non ha smesso di cantarla a Ornella, Ornella non ha smesso di cantarla a Gino — uniti tutt’e due da quella ballata pensata per un dopo, per quello che sarà, per ogni misterioso viaggio che ci tocca con un addio.
E comunque era Peppe.
Dirige l’orchestra Peppe Vessicchio.

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