sabato 22 novembre 2025

L'Amaca

 

Il complotto che non lo era
di Michele Serra
La cosa più preoccupante non è che un giornale abituato alla manipolazione della realtà a fini politici abbia definito «complotto del Quirinale» una opinione informale espressa durante una cena privata con amici.
La cosa più preoccupante è che l’intero mondo mediatico, con poche eccezioni, abbia poi adottato quella parola, «complotto», ovvero un oggettivo falso, come se fosse una notizia da confermare oppure da smentire: non essendola.
Dovrebbero esistere degli anticorpi in grado di tutelare da questo tipo di contagio ciò che ci ostiniamo a definire “informazione”: verifica delle fonti, compostezza nella forma, rispetto del lettore. È vero che, in molti casi (quello in questione, per esempio) tra giornale e lettore esiste un patto scellerato: l’unica “notizia” che interessa è quella che sputtana e infanga l’avversario politico.
Ma se la faziosità è un vizio diffuso, è anche vero che c’è un limite non detto ma ben percepibile, una specie di fairplay di fatto che dovrebbe suggerire di non avvelenare del tutto la materia prima del giornalismo, che è la conoscenza dei fatti e il loro confezionamento corretto, magari perfino in buon italiano.
Ha raccontato bene Filippo Ceccarelli l’habitat romano, molto promiscuo e molto consociativo, nel quale questo genere di gossip politico collettivo alligna e prospera, anche se nel tempo di un paio di giorni poi svanisce per lasciare spazio alla diceria successiva.
L’obiezione è che questa spensieratezza complice, tra vicini di tavolata, suona ancora più triste, e patetica, nel momento in cui il giornalismo vive la crisi strutturale più profonda e grave della sua storia. Avrebbe bisogno, per salvarsi, di riguadagnare almeno qualche briciola di autorevolezza. Meglio morire composti che sbracati.

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