giovedì 20 novembre 2025

Manovre e sospetti

 

Garofani ha servito ai melones un bell’assist per il premierato
DI DANIELA RANIERI
Finanziaria-laccio emostatico per i poveri e manna per i ricconi; Sanità pubblica da Paese sottosviluppato; 70 miliardi in più all’anno per le armi; salari fermi da 30 anni. Per fortuna i funzionari del Quirinale straparlano del governo in luoghi pubblici facendosi registrare dal primo che passa (e che riferisce a La Verità), consegnando al governo un mega-regalo di Natale.
Facendo evocare dal suo capogruppo alla Camera Bignami il complotto contro di lei, Meloni non intende attaccare il Quirinale, che semmai, nella persona di un suo alto funzionario, ha attaccato un partito votato dagli italiani, ma seminare dubbi sulla terzietà della figura del presidente della Repubblica così come prevista dal nostro ordinamento. Nel quadro persecutorio compulsivo che sostiene la narrazione meloniana, non sfigura un Quirinale infestato da agenti dell’opposizione, peraltro in un contesto in cui l’opposizione reale sembra farle il solletico. Il promesso presidenzialismo – poi diventato premierato perché il fondamentale appoggio di Renzi e frattaglie è vincolato al sogno del “sindaco d’Italia”, cioè un premier votato direttamente dai cittadini – darebbe al nuovo presidente della Repubblica il potere di sciogliere le Camere come “atto dovuto”, una facoltà che a un partito inspiegabilmente altissimo nei sondaggi farebbe comodo adesso, senza aspettare la fine della legislatura, quando le rovine saranno troppe.
Il consigliere per la Difesa del Quirinale Garofani, che a pranzo esprime l’auspicio di uno “scossone” per impedire alla Meloni di ri-vincere le elezioni (laddove lo scossone sarebbe la vittoria di Ernesto Maria Ruffini a capo di un partito catto-dem: praticamente un golpe armato coi passamontagna), non viene indicato come un funzionario a dir poco incauto, ma subito reclutato da FdI come attore del suo teatro ansiogeno, in cui non passa giorno senza che il governo sventi un attentato contro la Meloni. La quale Meloni ha preso i voti promettendo di far “finire la pacchia” per le élite economiche e politiche, schiave dei poteri forti sovranazionali che negli ultimi anni hanno succhiato sovranità al popolo. Non che questo sia falso: i governi tecnici e di larghe intese sono serviti precisamente a ignorare o a ribaltare la volontà popolare (infatti le ultime elezioni le ha vinte l’unico partito che non faceva parte del governo Draghi) e fare la volontà dell’Ue e dei mercati. Peccato che Giorgia si sia rivelata una draghetta anche fuori dal mondo fantasy che ama, una che viene baciata in testa da Biden, abbracciata dalla Von der Leyen, elogiata da Trump, benvista da Netanyahu (che Tajani ospiterebbe volentieri in Italia con garanzia di non essere arrestato) e ringraziata da Zelensky per le armi che continuiamo a mandargli su ordine della Nato, a cui lei (e non solo lei) ha allegramente acconsentito di dare il 5% del Pil sottraendolo allo Stato sociale. A bilancio: è quasi fatta per la cosiddetta riforma della Giustizia, che dopo l’abolizione dell’abuso di ufficio, il depotenziamento del traffico di influenze, il bavaglio alla stampa, il limite alle intercettazioni e altre volgarità si completerà con la inutilissima e dannosa separazione delle carriere. Resta l’iniqua e per niente nazionalista Autonomia differenziata, su cui i leghisti pressano per avere la loro scodella di cibo, ma non si mette bene. Forse rileva troppo che nel giorno del casino sul Quirinale Meloni in un comizio a Padova abbia detto: “Vogliamo una riforma che dica basta agli inciuci, ai giochi di palazzo, ai governi che passano sopra la testa dei cittadini”. È il presidenzialismo (o premierato che sia: basta che si elegga qualcuno), dove l’arbitro lo scelgono i cittadini (fosse pure La Russa o Pino Insegno) e i suoi consiglieri non vanno nelle osterie ad augurarsi che a fermare la destra sia un exploit elettorale dell’ex capo dell’Agenzia delle entrate (come no: con 100 miliardi di evasione totale in Italia).

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