‘’Scrivere dà tormento, mentre la vita è adatta solo agli sconsiderati’’: il nuovo libro di Veronica Tomassini
DI VERONICA TOMASSINI
Anticipiamo uno stralcio di “Roveto ardente. Poetica di una vita tra la ferita e la rivelazione”, il nuovo pamphlet di Veronica Tomassini, in libreria da domani con Transeuropa.
Ho usato troppo sentimento nella vita. Ed è un distacco se vogliamo, un solco ancor più profondo che conferisco, similmente a un trofeo, consapevolmente, alla stessa mia idea di socialità, di mondo finanche. La scrittura andava a nutrirsi di un tale distacco, che però era la mia centralità, il primate sull’esistenza, l’incapacità di aderirvi e intanto esservi dentro, ignara o delusa, perché all’uomo non corrispondeva quasi mai la perfezione di un’illusione. Illusione che la mia scrittura non chiamerà utopia, pessimisticamente. La scrittura per sua natura è sorgiva e tende dunque alla speranza. La speranza è uno sguardo affidato, fiducioso. La scrittura così diventa un travalico verso l’altrove da cui tornare, da dove ci raggiungono consapevolezze spalancate improvvisamente sul nostro avanzare, oppresso, restio o affaticato.
La grande arte ce lo insegna. In fondo non è altro che una ricerca senza requie, fino all’ultimo giorno, all’ultimo tratto, olio, tempera, all’ultima chiusa. L’ultimo degli offesi è l’alabarda, il rio cristallino anche dove dissetarsi. La stoltezza alimenta moti dello spirito, i più elevati, vi dimora una possibilità di transustanziazione. La pochezza diremmo nel linguaggio elementare delle cose, non affidabili perché attagliano un confine, un termine, come per tutte le cose del mondo. In realtà, prevedono un dopo, che la speranza o la fede definisce: oltre. O ancor meglio e audacemente: Dio.
La scrittura, la mia, dimora preferibilmente nell’errore, nella fragilità, teme il sentimentalismo, ne utilizza la radice più vergine. Spera, certo, spera nel dopo, il prato verde, il viaggio di luce, la promessa eterna. Non mi si è rivelata ad ogni modo se non quando ero già nel folto bosco della ricerca, non di una qualche verità, ribadisco, dell’unica e sola. Non lo sapevo ancora in via ragionevole o programmatica. Eseguivo il compito, vivendo male, di scarto o fuori la porta. Prediligendo quelli come me, gli stolti con più coraggio tuttavia. Van Gogh incontrava la miserevole prostituta, “nostra amica e sorella”; gli uomini su cui il sole pareva dimenticarsi di sorgere, su cui pareva persino la Misericordia dimenticarsi di perfezionare i loro spasimi, talmente ributtanti, l’insensato non previsto dal tribunale borghese. Borghesia come parametro del pensiero morto, del binario su cui anfana la locomotiva in marcia verso il capolinea irreparabile. Preferivo gli stolti, anche io, considerandoli non tanto fratelli come appuntava Van Gogh, piuttosto l’unico riflesso dentro cui riconoscermi o riconoscere un luogo dove stare, senza altro che stare. Possiamo chiamarla: pace? Una vaga verosimiglianza con la pace a cui sarà destinato il nostro patire, deduco.
La mia scrittura è stata il tormento. O il tormento esistenziale, ingenerato da una natura fobica e insieme esigente, ha naturalizzato la scrittura?
La somma di tutti gli errori lo è stata. Niente di più, niente di meno.
Stamane camminando lungamente sul viale della stazione, a Massa, luogo in cui questo pamphlet sta affiorando alla stregua di un ciclamino timido eppur fecondo di intuizioni, verificavo, come fosse un brano esclusivo di verità, che la vita è davvero un esercizio adatto ad individui che hanno sviluppato una naturale abilità al qualunquismo o ragionevole sconsideratezza, posti a scudo, e valorosamente dedicata a individui gettati concretamente nei giorni, quand’anche fossero abbastanza volgari, motivassero risate senza gaudio, senza una comprensibile contentezza, quand’anche il fatto necessitasse la capacità di ingoiare tonnellate di stoppa. Certe trattative umane, la scaltrezza, non so come altro definirla, la possibilità di indossare la pusillanimità in ordine di una manciata di opportunismi, o il desolante grigiore di un travet, forse sono i tratti distintivi di chi, in una ipotetica estinzione della razza, sarebbe in grado di sopravvivere. I salvati: sono migliori, i più forti davvero? O i sommersi hanno semplicemente rifiutato ogni cosiddetta trattativa? Cosa c’entra tutto questo con la scrittura? C’entra nel momento in cui la scrittura è una sospensione, momentanea perdurante, della pena, il castigo di sceglierlo, poterlo fare: qui o là. Vivi o scrivi. Di solito non si fanno entrambe le cose. Scrivo perché ho vissuto?
O è l’esatto contrario? Temo che lo sia, l’esatto contrario. Non sapendo fare altro, ho vissuto male, ma ho vissuto affinché ne potessi scrivere. E allora mi domando perché una tale urgenza: vivere per scriverne?
Qual è la ragione profonda di dover esistere in luogo della parola. Cosa restituisce nel gesto finale. Il gesto in sé: cosa traduce, promette, cosa?
Talvolta mi raggiunge una specie di tregua, i pensieri diventano pacifici, quasi innocui, il dolore, sottile, nascosto, desto comunque all’occorrenza senza che per questo si presenti con decisione e mi dica cosa voglia. La tregua mi spiega che può darsi io non sia fatta per questo mondo, liquidiamo la questione frugalmente, con una sorta di slogan: non sei fatta per questo mondo.
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