La parabola di Renato, il castiga-fannulloni che è finito castigato
Di Francesco Merlo — Roma
L’ex ministro era diventato lo spauracchio della pubblica amministrazione. Ora ha messo tutti d’accordo contro di lui.
Brunetta è un genio. Ha reso utile il più inutile degli enti alzandosi lo stipendio da solo, come Elon Musk, e poi revocandosi l’aumento come un gerarca colto sul fatto, come un pentito italiano qualunque, un monello beccato con le mani nella marmellata, un Pierino costretto a promettere: «Non lo faccio più».
Brunetta ha persino unito destra e sinistra italiane — Meloni e Schlein, Renzi e Conte, Bonelli e Donzelli, Calenda e Fratoianni — reificando la terza via che cercava da giovane, nell’era Lib-Lab. Ora ha messo tutti d’accordo contro di lui e ha fatto rialzare la testa anche al populismo nazionale, che non è più il vaffa a tutti, ma il vaffa di tutti a lui, solo a lui: all’ingordo, allo sprecone.
Soprattutto, Brunetta ha trasformato sé stesso nel mostro della pubblica amministrazione, nel perdigiorno strapagato contro il quale da ministro sbraitava. È diventato lui il fannullone, il flâneur dei “misteri dei ministeri” — il libro che lo ispirava quando i tornelli e i rubinetti erano la sua ossessione, quando voleva abolire il ricorso, l’esposto, il promemoria all’autorità competente, le sentenze delle corti e dei tribunali che proteggono le anime morte della ministerialità: i mandarini, il dirigente che è sempre fuori stanza.
Adesso che la Corte ha abolito il tetto degli stipendi, Brunetta si era aumentato il suo, come Napoleone che si incoronò da solo. Da giovane diceva di puntare al Nobel, voleva «passare alla storia»; ora, come commentava Pippo Baudo, «è passato alla cassa».
I tornelli erano i suoi strumenti da Stato Etico — sia pure nell’ortodossia di strettissima obbedienza berlusconiana — per mettere sotto chiave i fannulloni, appunto. E i rubinetti bisognava chiuderli per limitare gli sprechi dello Stato, i finanziamenti a pioggia, gli stipendi. Adesso tornelli e rubinetti girano all’incontrario, perché nessuno sa cosa fa Brunetta, entrato appieno nel mistero dei ministeri.
Il Cnel di Brunetta tiene convegni — lo so, i temi sembrano inventati — sulla salute, sul terzo settore e sulle pari opportunità, sulla storia stravolta, sul futuro da ricostruire. Ho sentito, su Radio Radicale — che registra del Palazzo anche ciò che non accade — dottissime conferenze di Brunetta sulla qualità della vita nei locali pubblici di Roma, sul lavoro buono e sul lavoro cattivo...
Insomma, è il presidente del più opaco dei Rotary o del più ozioso dei circoli canottieri. È il dottor Balanzone di un parastato che fa venir voglia di chiedere scusa a Renzi, il quale voleva abolire questo benedetto Cnel con il referendum che ha perso e che lo ha perso.
Brunetta presidente del Cnel è tornato l’iperdinamico che, ai tempi in cui era ministro della Funzione Pubblica, fu ribattezzato da D’Alema — che conosce bene la materia — «l’energumeno».
E non perché, professore di economia e socialista di formazione, pretendesse di risolvere i problemi del lavoro italiano con metodi da secondino e da chiavistello, bullizzando i dipendenti pubblici, ma perché ogni giorno se ne inventava una: contro i sindacati che difendono i privilegi, contro i salari degli uscieri (sempre troppo alti), contro la spesa pubblica per il cinema, i libri, il teatro.
Risparmiare, ridurre, contenere: questi erano i suoi mantra.
Lo battezzammo allora il fantuttone — che non è il contrario del fannullone, ma la sua perfezione evolutiva — il fannullone indaffarato.
E infatti, in un solo giorno, il fantuttone si è premiato e poi castigato da solo: perché alla fine non c’è nulla che Brunetta non affronti e sfidi, tranne l’ira del padrone.
Giorgia Meloni si è arrabbiata, e il genio è andato a cuccia.
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