Pop corn per Renzi. Assaltò le praterie del Centro, ma era una piccola radura
di Alessandro Robecchi
Il camion di pop corn – un Tir con rimorchio – ha scaricato davanti a casa, e ora sono sul divano a gustarmi, più che le Olimpiadi, gli esercizi a corpo libero, contorsioni, giravolte, piroette, torsioni e salti, del fu Terzo Polo, una squadra presa a schiaffoni da tutti – elettori in primis – il cui capitano ancora pensa a una medaglia. È vero, avete ragione, le notizie sono altre, eppure bisogna avere rispetto per il dramma shakespeariano che si trasforma in un film con Lino Banfi.
Dunque riassumo per chi era su Saturno. Il condottiero Renzi diede l’assalto alle praterie del Centro, un luogo inabitato ma immenso (secondo lui), dove lo aspettavano trionfi inauditi e, solo da scartare, il regalo inestimabile di diventare il perno della politica italiana, l’ago della bilancia, una cosa che significa “comandare con pochissimi voti”. Di tutto questo raffinatissimo disegno si è avverata una cosa sola: i pochissimi voti. Erano i tempi in cui i suoi tifosi (Renzi ancora mantiene un’irriducibile “bestiolina” social che annuisce e applaude a prescindere) insultavano chiunque dubitasse dell’esistenza di quelle praterie, e lui stesso si lasciava un po’ andare: “Noi vogliamo fare ai dem quello che Macron ha fatto ai socialisti. Vogliamo assorbirne il consenso per allargare al centro e alla destra moderata”. Tipo la Pro Patria che punta alla Champions League.
Dopo la scoppola – tutta attribuita dai tifosi a Calenda, altro fenomeno interessante per gli psichiatri – il condottiero ha notato che le praterie del centro erano una piccola radura paludosa, con la parte abitabile già occupata dal povero Tajani, e ha fatto inversione a U, tornando a presentarsi come una risorsa imprescindibile della sinistra, tirando fuori una di quelle formulette da seconda media che sa lui: “Servono voti, non veti”. Dimenticando così ancora una volta la realtà: che i veti li ha sempre messi lui, e che i voti non ce li ha.
Ora viene il bello. Confidando nella fedeltà cieca del suo gregge, che lui tratta come Lemmings disposti a buttarsi dalla scogliera, ha fatto e deciso tutto da solo, generando qualche malumore. Un certo Marattin, che aveva preso per vere le dichiarazioni del capo su un passo indietro, punta i piedi, altre notevoli intelligenze del Terzo Polo (lato calenderos), come Carfagna e Gelmini, fanno anticamera a Forza Italia sperando di essere riammesse, e la base si agita. Migliaia di balilla e renzinettes, educati per anni a scrivere “Gonde” invece di Conte, a trattare la Schlein come se fosse un piccolo Stalin che punta al comunismo (ahah), a insultare e deridere la sinistra, si ritrovano a ritrattare mestamente, a cancellare vecchi tweet, a esercitare il culto della personalità con l’inespugnabile ragionamento che “Se lo dice Matteo è giusto”. Altri, per la prima volta, vedono la luce e si chiedono se vedersi imporre giravolte simili con uno schiocco di dita e una foto su un campo di pallone non sia per caso un po’ troppo persino per loro che finora hanno creduto a tutto.
In più, arrivano i sondaggisti riuniti, a dire che Renzi avrà sì e no il suo 2 per cento, ma in compenso, se alleato al centrosinistra, farebbe male al Pd, perché lì ci sono elettori che prenotano a Viserbella durante le elezioni al solo sentire il nome di Renzi. Lui non se ne cura, o finge di, rilancia interviste nostalgiche di quando era uomo di potere, le telefonate con Obama, con Biden, come un gelataio in pensione che racconta ai nipoti di quelle volta che vendette un cono a Frank Sinatra.
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