Normalità di un attentato
DI MICHELE SERRA
La notizia dell’attentato a Trump è un poco meno “storica” di quanto possa sembrare, per il semplice fatto (terrificante fatto) che l’uso delle armi da fuoco, nella storia degli Stati Uniti, non ha proprio niente di straordinario. È una componente stabile non solamente della vita sociale, anche della vita politica. Spesso l’ha determinata e ha deciso il corso della storia, a partire dell’attentato “fondativo”, quello a Lincoln nel 1865.
Avevo nove anni quando spararono a John Kennedy e ricordo ancora la mia famiglia riunita davanti al telegiornale (l’unico); ne avevo quattordici quando vennero cancellati dal fuoco nemico Bob Kennedy e Martin Luther King. Ricordo l’attentato a Reagan, scampato per miracolo, e non considero meno notevoli e sconvolgenti le stragi seriali nelle scuole e nei luoghi pubblici, con un totale di vittime paragonabile a una guerra. La sola rilevante differenza è che il movente “politico” è sempre meno rintracciabile, soppiantato ormai stabilmente dal movente psichiatrico. Pazzi che sparano come pazzi. Dementi che non sarebbero in grado di spiegare nemmeno a se stessi perché premono il grilletto.
La sola vera reazione politica all’attentato a Trump sarebbe una riflessione corale, un dibattito urgente e travolgente, sull’uso quotidiano delle armi da fuoco in quel paese grande, potente e sanguinario. La pistola, la mitraglietta, il fucile sono familiari agli americani quanto il prosciutto agli emiliani, e anche per questo lo sciagurato ragazzotto che spara a Trump è l’attore di un gesto orribile, ma niente affatto sorprendente. Specie in campo repubblicano, il cittadino in armi è un’icona nazionale, non un pericolo pubblico e non un caso umano.
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