di Giancarlo Dotto
Ad un tratto t’invade la beatitudine. Questo era per me Roger Federer in azione. Da mitomane certamente reo e più volte confesso aspettavo morbosamente questo momento. Il suo addio ufficiale al tennis. Masticare e rimasticare un lutto preventivo equivale nella testa del mitomane patologico (sapete cosa voglio dire, vero, voi maniaci di Michael Jordan, voi pazzi di Valentino Rossi, voi patiti di Francesco Totti?) smorzare il dolore, farlo tuo poco a poco, quasi affezionarti negli anni sicché, quando la cosa accade non fa male più di tanto. È un po’ la mozione degli affetti di certo forse deprecabile cannibalismo, mangiare quello che ami, un boccone dopo l’altro, per renderlo definitivamente tuo.
È accaduto. Roger ha detto addio. Eravamo pronti? Non si è mai abbastanza adulti e vaccinati quando si tratta dell’addio di una persona cara . E Roger Federer era una “persona cara” per molti di noi.
Definizione di “persona cara” da un dizionario ancora da inventare: “Colui o colei che ci aiuta a rendere la vita sopportabile o perché ha saputo darci (anche una sola volta) una carezza giusta nel momento giusto o perché ci ha autorizzato (più volte) quel tuffo al cuore (che nei soggetti più suggestionabili può arrivare allo svenimento) causato dalla bellezza, così bella da risultare incomprensibile. Tuffo o svenimento che sia, ne riemergi pieno di gratitudine e pronto ad alimentare la fiamma che ci tiene in vita e allo stesso tempo ci protegge dalla vita, dalla caverna di Neanderthal alla suite nei grattacieli di New York, lucidare e aggiornare la bacheca delle divinità. Un delirio? Ebbene sì. Un delirio necessario. Hai voglia a bandire le droghe. Togli le allucinazioni e dell’uomo resta un cartoccio deperibile di ossa, acqua e sangue.
La domanda fino a ieri era piuttosto: perché Roger si ostina? Perché insiste a violentare il suo corpo riluttante e ora anche dolorante trascinandolo dentro un recinto a fronteggiare marcantoni dalle spalle bioniche che tirano mazzate con l’oscena salute degli animali costruiti in laboratorio? Forse perché sa bene che solo così ha la chance di esistere in quanto capolavoro? Specchiandosi e “trovandosi” nello stupore altrui, nella devozione di chi lo ammira. Wimbledon come una sala del Louvre o dell’Hermitage. Essere nello sguardo degli altri. La maledizione delle leggende viventi: non poter essere spettatori della propria grandezza.
O forse si ostina, si ostinava, a impugnare la racchetta che lui suona come fosse un violino, perché rifiutarsi di pronunciare la parola “addio” era un modo per differire lo strazio planetario dei più, dei nostalgici di lui, prima ancora di averlo perduto? Di tutti quelli che non si sono mai completamente ripresi dallo shock del colpo impossibile per quanto pieno di grazia inventato da Roger Federer contro Andrè Agassi, settembre 2005, finale Us Open, “colpo che sembrava scappato dal mondo di Matrix”, parole di David Foster Wallace. Prima di suicidarsi quando non era più capace di riconoscere la bellezza dentro di sé e intorno a sé, lo scrittore americano si prese non so quante pagine sul New York Times. Per raccontarselo meglio il suo Roger, per provare a spiegarsele le ragioni per cui ne era tanto ammaliato. A oggi, mai nessuno così vicino a rappresentare l’irrappresentabile bellezza del suo tennis. “Roger Federer un’esperienza religiosa”. Sì, vero, ma di più, un’esperienza psichedelica. Una droga per molti di noi. Una spedizione in un paradiso artificiale, un luna park per soli esteti, con la scusa del tennis. Quel diavolo di un angelo. Roger come Mandrake. Ha inventato tennis da ogni lembo del campo. È stato leggero e solido, fluido e potente. Ha dispensato conigli dal cilindro, fiori dai cannoni. Ha scartato perle, seminato trappole, illusioni e giochi di luce. Quando gioca Roger, giocava, non ti fa desiderare altro. “Non ci credo!”, il grido collettivo quando giocava Roger.
Wimbledon è stato il suo Taj Mahal. Il suo giardino privato. Gli mancava solo il turbante sul cardigan. Impossibile solo alla vista. E perché, se no, un altro mito come Rod Laver si accaniva a fotografarlo dalla tribuna? Impazziscono tutti, quando gioca, giocava, lui, anche i pesci nella vasca. Una racchetta che sembra la borsa di Mary Poppins. Arrivano palline e tornano fiori, farfalle, ricami, biglietti di sola andata per Tahiti. Roger Federer in azione al di là del tennis, è Michael Jordan in sospensione al di là del basket o Marco Van Basten (ma oggi starei per dire Paulo Dybala) al di là del calcio.
La sua ostinazione a presentarsi sul court, più stiloso che mai, alla soglia dei quaranta, la sua bellezza illesa, ne hanno fatto un autentico freak capovolto. Da incorniciare. Un dissimile. Un alieno che strappa le pagine e strapazza i canoni delle umane vicende. Nessuno lo ha mai visto sudare, quest’uomo, nemmeno al quinto set di un torrido torneo sulla terra. Una dannata leggenda. I numeri ci provano a raccontarlo con la loro ottusa saccenza. Vorrebbero, ma non possono. Non ce la fanno. Chi sa di venerarlo non ha bisogno dei numeri per misurarlo. Tantomeno di assegnarlo o sottrarlo alla Storia.
Roger è stato abile, lucido e generoso. Ci è venuto incontro. Attraverso il suo malessere ha percepito il nostro. Ci ha dato tutto il tempo per metabolizzare. Illudendoci fraternamente, “tornerò a giocare”, ci disilludeva allo stesso tempo, non tornando mai. Esiste un’omeopatia del lutto sportivo? E del dolore che ne segue? Lui l’ha praticata alla grande. Ci ha dato l’addio quando tutti noi avevamo dato l’addio a lui. Noi avevamo smesso prima di lui. Un genio compassionevole. Dei tre supereroi che hanno marcato un’epoca ci lascia l’unico indispensabile.
Restano il gladiatore inaffondabile di Manacor e il fenomeno gommoso di Belgrado. Anche loro, soprattutto loro, infinitamente orfani. Il più grande di sempre? Certamente Roger, sì. Ma chi se ne frega. Se ne va un meraviglioso anacronismo, regalandoci ultimi scampoli di tennis giocato per chi avesse ancora lacrime da versare. La vita continua, ma solo dalla parte di Roger che sarà libero ora di scodellare altri bellissimi gemelli con la sua Mirka e divertirsi in tutti i modi possibili. In quanto a noi, poveri noi. La bellezza del gesto di Federer forse non è indispensabile al tennis, ma lo è alla vita.
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