giovedì 8 settembre 2022

Attorno al Cazzaro


Bollito di Salvini in salsa veneta

di Daniela Ranieri

Girando durante l’estate per il famoso “territorio” del Veneto mi è capitato di parlare con imprenditori, esercenti, librai, ristoratori e pensionati che negli ultimi 20-30 anni hanno votato Lega (prima “Nord”, poi con “Salvini”) e che il prossimo 25 settembre voteranno convintamente Fratelli d’Italia oppure, in misura minore e obtorto collo, Lega, da intendersi però come “la Lega di Zaia”.
Per la quasi totalità del campione (l’indagine è più qualitativa che quantitativa) Salvini è un bollito, un perdente, uno che dopo averle buscate da Conte nell’estate alcolica del Papeete Beach si è fatto sorpassare da una donna più scaltra e intelligente di lui. Del resto, è sempre stato ritenuto un utile idiota per prendere i voti del sud, motivo per cui può ancora servire in questa tornata a conquistare seggi, stante l’assoluta certezza che poi verrà destituito da chi se ne intende.
La questione non è solo elettorale, ma tocca per così dire l’antropologia della Lega, sia come classe dirigente che come elettorato.
Nel 2010 in via Bellerio incontrai Salvini, che mi fu indicato come “quello che va in metropolitana a disinfettare i sedili delle nigeriane” e proponeva vagoni separati per milanesi e immigrati. Era l’inizio dell’ascesa di un tizio senza lode e con già qualche infamia. Su quella scocca sarebbe stato costruito il ministro dell’Interno dei respingimenti, che gli ungheresi elogiano come il primo in Europa ad avere avuto il “coraggio” di lasciare donne e bambini in mare. Il leader morale era Borghezio, che nei capannoni di Borgomanero cantava con la mano sul cuore l’inno regionale e gridava “Piemont liber!” mentre gli elettori facevano freddare la paniscia nel piatto con le lacrime agli occhi.
Negli anni di svolta del sovranismo trumpiano e orbaniano, gli elettori hanno accettato che Salvini mutasse il sogno bossiano del nord libero (da Roma ladrona, dal sud sfaticato e parassita) in quello del “prima gli italiani”; pur continuando a considerarlo un ragazzotto di levatura dozzinale, ne intuirono le potenzialità impareggiabili. Lui sfilava per Roma con quattro gatti di CasaPound, intonava stornelli contro i napoletani colerosi, prometteva espulsioni; gli economisti della Lega andavano in Tv a spiegare a quelli di sinistra, rintronati e spocchiosi, come si spendono i soldi pubblici e come il “populismo” fosse una nobile guerra all’Italia finanziaria complice dell’Europa aguzzina. Legioni di “keynesiani per Salvini” spiegavano sui social che la talpa di Marx scava cunicoli imprevedibili: non conta il mezzo, ma il fine, cioè la rivolta dei popoli, di cui la Brexit e l’elezione di Trump erano l’epitome. Era giunto il “momento Polanyi” (dal nome dello studioso che teorizzò la ribellione delle masse contro le élite finanziarie). La strategia era chiara: Salvini acchiappava il “popolo” con la propaganda screanzata della Bestia, la gastropolitica, i selfie fisiologici, il rosario e il salame (aveva la fissa del maiale, animale politicamente scorretto, brandito per bullizzare gli islamici che non lo mangiano), i video di africani in flagranza di reato, la solidarietà ai gioiellieri sparatori; nel frattempo i “falchi” avrebbero occupato le commissioni e ripristinato la popolare lira. Più si mostrava simile al meno intellettualmente evoluto dei suoi elettori, più voti prendeva. Era il “grand’uomo della massa” di Nietzsche: “Bisogna avere tutte le qualità della massa: quanto meno essa di vergognerà di fronte a lui, tanto più il grand’uomo sarà popolare”. Intanto la stampa nazionale (tutti i giornali tranne il nostro) gli dava del “fascista” (il che era falso e lo potenziava), ma lo ritraeva con l’orecchio a terra, attento a ogni sussulto del territorio, distante anni luce dalla Casta dei politici tra i quali dal 1993 non disdegna di annoverarsi.
Nell’anno della Covid qualche sentore che Salvini fosse un bluff è venuto pure ai più fedeli tra i suoi: mentre Zaia consultava Crisanti e tamponava tutti gli abitanti di Vo’ Euganeo, lui chiedeva, nell’ordine, di “chiudere tutto”, inteso come le frontiere (era convinto che il coronavirus ce lo portassero cinesi e africani), poi, due giorni dopo, di “riaprire tutto”, inteso come i locali degli aperitivi e le pizzerie a taglio sulle rotatorie di Cazzago Brabbia; infine con Meloni chiamava il popolo alle adunate oceaniche a Roma per diffondere un po’ di sani droplets senza mascherina, alla faccia della protezione degli italiani.
Con la guerra della Russia all’Ucraina si è capito che il ragazzo-majorette di Putin era totalmente insipiente di geopolitica (glielo ha fatto capire un sindaco polacco, cacciandolo via dalla stazione di Przemysl e mostrandogli un fac-simile della maglietta da lui indossata nel 2014 sulla Piazza Rossa, naturalmente all’insaputa di Putin).
L’agente storico del “momento Polanyi” è finito a portare acqua al governo dei banchieri, con servizio al tavolo di Giorgetti (considerato quello raziocinante della Lega: infatti a fine 2019 disse che la Sanità pubblica era inutile, finita, inessenziale), sebbene il sospetto che la Lega fosse il partito dei padroni e non dei lavoratori poteva già venire a settembre 2019, quando dal raduno ex-celtico di Pontida Salvini citò Margaret Thatcher (la cui morte i lavoratori inglesi festeggiarono): establishment puro.
Oggi gli fanno sparare le sue idee bislacche (la leva obbligatoria) perché c’è ancora una residua speranza che serva a ciò che interessa ai leghisti: la flat tax e la secessione del nord, cioè dei ricchi (alla faccia della rivolta delle masse contro le élite), che i partiti educati chiamano “autonomia differenziata”.
I giornali autorevoli hanno già cominciato a incoronare Zaia “Doge”: affidabile, serio, moderato: va bene chiunque purché non sia Conte; Zaia per il quale la causa della pandemia era l’uso presso i cinesi di mangiare topi.
Quel che rimane di Salvini promette l’autonomia e giura “credo nel Veneto”. Il Veneto, con tutto il mitologico territorio, non finge nemmeno più di credere a lui.

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