lunedì 30 giugno 2025

Neil

 

Fumantino, ecologista, militante: la fiamma di Neil Young è eterna
DI ANDREA SCANZI
Vai a vedere Neil Young, 80 anni a novembre, e ti chiedi come lo troverai. Dubbio lecito: un tempo gli eroi eran tutti giovani e belli, mentre adesso son quasi tutti vecchi e provati. Da una parte i mostri sacri di ieri, con tutto il loro passato irripetibile. E dall’altra gli artisti bagatellari (non tutti ma troppi) di oggi, con tutto il loro presente prescindibile.
E invece il vecchio Neil è in gran forma, e il palco è ancora casa sua. Per questo tour, lui che i grandi classici non li ha mai garantiti dal vivo, propone pure una scaletta conciliante e addirittura indulgente, perfetta per il fan talebano come pure per chi di Young conosce giusto Harvest e poco più.
Copenaghen, terza data europea del suo Love Earth World Tour, che andrà avanti fino a metà luglio ma che purtroppo non toccherà l’Italia (e per questo, se lo si vuole vedere, tocca spostarsi). Uno spazio verde enorme e strapieno, poco distante dall’aeroporto. Neil si presenta alle 20 spaccate, dopo un apripista danese tutt’altro che irrinunciabile (Peter Sommer). Sedici brani, quasi tutti torrenziali, con code chilometriche di chitarra/basso/batteria (a partire da Be The Rain e Sun Green). Cento minuti di musica che parte piano – complice qualche guaio tecnico nella iniziale Comes a time – e deflagra canzone dopo canzone, fino a un’ultima mezz’ora semplicemente irresistibile.
La generazione di Neil – Pink Floyd, Rolling Stones, Led Zeppelin, Eric Clapton, Bob Dylan eccetera – è incredibile e inspiegabile. Hanno vissuto mille vite, bevuto e fumato di tutto. Eppure, se non sono morti prima e sono arrivati chissà come fino a questo nostro presente cacofonico e vuoto, mangiano ancora in testa a tutti.
Young, poi: da bambino gli diagnosticarono diabete e poliomielite. Col successo – vissuto malissimo e ottenuto con un album che continua a mal sopportare – si è scornato con droghe, alcol e depressione. Ha perso troppi amici per overdose e suicidio, sentendosi ogni volta dannatamente in colpa come se tutto (anzitutto il dolore) dipendesse da lui.
Negli anni ha avuto un aneurisma, problemi di udito, altri acciacchi ancora. Eppure adesso te lo ritrovi lì, stesso look iconico di sempre e stessa voce benedetta dai demoni. Talento totale, scorbutico, poliedrico. Carisma a fiotti, chitarrista viscerale, mai di maniera bensì passionale e brutalmente sincero.
Gibson per la parte elettrica (dominante), Martin per quella acustica. Con lui ci sono i The Chrome Hearts, schietti e privi di fronzoli come Young.
L’unica concessione dal periodo Crosby Stills Nash & Young è Name of Love. Gli evergreen eseguiti non sono pochi: Hey hey, My my, The Needle and the damage done, Old man, Harvest Moon, Down by the River, Rockin’ in a free world. A un certo punto, proprio durante l’ultimo bis, il cielo si mette a piovere di colpo, ma lo fa giusto quaranta secondi, non per disturbare ma come tributo ulteriore a un artista molto più rigoroso e coerente che pazzo.
Ecologista ante litteram (aveva ragione pure lì). Militante (detesta Trump, e come dargli torto). Fumantino (con laurea ad honorem). Unico a beccarsi una denuncia da una sua casa discografica (la Geffen) perché, negli Anni Ottanta, fece effettivamente di tutto per non vendere una mazza e proporre sonorità che c’entravano pochissimo con l’idea che gli altri avevano di lui.
Tra il ’69 e il ’79 ha sbagliato al massimo mezza nota, nei Novanta ha vissuto un altro decennio di ispirazione irreale. Detesta il successo e, se potesse, cancellerebbe per davvero Harvest (e sbaglierebbe, buon Dio!).
“Padrino del grunge”, maestoso tanto nel rock più incendiario coi Crazy Horse quanto nella rarefazione acustica più ancestrale (il suo Live at Massey Hall del 1971 andrebbe insegnato nelle scuole, come pure l’Unplugged del 1993). Capace di dare del tu a qualsiasi genere. Immortale benché mortale, più sopravvivente che sopravvissuto, longevo e pressoché eterno a dispetto di se stesso.
Quando abbandonò questo mondo, Kurt Cobain citò una strofa di Young (tratta da My My, hey hey) nella sua lettera d’addio. Recita così: “È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”.
Il concerto di Copenaghen è la conferma ulteriore di come Neil abbia preso in contropiede tutti pure qui: lui brucia di continuo, senza però spegnersi mai.

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