venerdì 3 marzo 2023

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Col senno di poi
di Marco Travaglio
Stavamo per congratularci con la Procura di Bergamo per il gran lavoro compiuto nell’inchiesta sulla gestione del Covid-19 anticipata ieri dal Fatto, quando abbiamo letto le dichiarazioni del procuratore Antonio Chiappani: “Il materiale raccolto servirà non solo per le valutazioni di carattere giudiziario, ma anche scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche, amministrative”. Boh. E ancora: “Vedremo se e a cosa porterà la nostra indagine… Magari qualcuno sarà prosciolto, qualche posizione sarà archiviata, o magari i giudici riterranno che sull’epidemia colposa non si debba procedere. Sta di fatto che noi il nostro dovere lo abbiamo fatto”. Quale? “Soddisfare la sete di verità della popolazione. Noi non accusiamo nessuno, ma avere dimostrato perché – secondo noi – c’è stata sottovalutazione del rischio dal punto di vista della gestione sanitaria è – dal mio punto di vista – un grande spunto di riflessione”. Ri-boh. Noi pensavamo che i pm dovessero accusare qualcuno (sennò perché indagare 20 persone per chiederne il rinvio a giudizio?), possibilmente per condotte che violino obblighi di legge. E soprattutto che il miglior modo per soddisfare la sete di verità della popolazione fosse quello di spiegarle i limiti fisiologici del processo penale. Che deve e può soltanto accertare reati ben definiti in base a prove serie e lasciare tutto il resto (“valutazioni scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche, amministrative”) all’informazione, alle varie scienze e alla politica.
Il disastro combinato dai vertici della Lombardia in quei mesi l’abbiamo documentato per tre anni sul Fatto. Ma guai a illudere chi ha pianto tanti morti che i tribunali potranno soddisfare la sua sete di giustizia anche su responsabilità non penalmente rilevanti. I maxi-processi che finiscono con mini-condanne seminano soltanto altri dolori e altre frustrazioni in chi ne ha già subiti fin troppi (l’ultimo caso: la tragedia di Rigopiano). È molto più opportuno, oltreché imposto dai codici, concentrarsi su fatti illeciti ben delimitati che creare aspettative impossibili da soddisfare. O imbastire processi col senno di poi. Nessuno, quando esplose la pandemia, sapeva cosa fosse il Covid. Chiudere questa o quella zona rossa era una facoltà lasciata alla discrezionalità politica, non un obbligo. Tant’è che il governo Conte fu accusato e denunciato per aver chiuso sia troppo sia troppo poco. Il caso di Alzano, col pronto soccorso chiuso dopo il primo caso e subito riaperto senza sanificarlo, è una chiara violazione di norme esistenti. La mancata zona rossa in val Seriana fu un gravissimo errore: ma subito, quando la Regione Lombardia nascondeva i dati dei contagi.
Dieci giorni dopo, quando l’allarme arrivò a Roma, era tardi: il Covid era ormai ovunque, tant’è che di lì a poco fu chiuso tutto il Centro-Nord e poi l’Italia intera. Ma che tutto ciò sia un reato, in mancanza di obblighi di legge, è lo stesso pm a dubitarne. Qualcuno nascose o taroccò i dati? Lo si punisca per falso. Non fu aggiornato il Piano pandemico dal 2006? I responsabili al ministero della Salute vadano a processo di quella omissione, se è un reato, anche se Paesi con piani aggiornatissimi, tipo Francia, Germania e Svizzera, quando arrivò lo tsunami ne furono travolti e cercarono mascherine in Asia come tutti. Ma dire ex post quanti morti si sarebbero evitati chiudendo prima è un nonsense: certo che si sarebbero limitate le vittime chiudendo l’Italia intera il 20 febbraio, al primo caso a Codogno, anziché il 10 marzo; ma allora la misura sarebbe apparsa folle e liberticida, perché ci si illudeva ancora di isolare il virus senza sapere che era molto più diffuso. È come dire che se il lockdown fosse durato tre anni anziché tre mesi, cioè tuttora fino a maggio, oggi non avremmo 40 morti al giorno (di cui nessuno più parla): bella forza, ma l’Italia sarebbe fallita e moriremmo tutti di fame.
La perizia di Crisanti, scienziato di gran livello, riflette la sua esperienza positiva in Veneto: ma affidata ad altri scienziati avrebbe portato a conclusioni diverse. C’erano fior di scienziati anche nel Cts che affiancava il governo: quelli ora indagati. E in quei primi mesi di Covid non ce n’erano due che dicessero la stessa cosa. Si andava a tentoni, perché non si sapeva nulla del virus: chi avrebbe chiuso di più, chi meno, chi nulla secondo il modello svedese o inglese. Oggi, sempre col senno di poi, sappiamo che il modello giusto era quello italiano: lo riconoscono anche Londra e Stoccolma. Ma i processi devono fotografare la situazione al momento dei fatti. E concentrarsi su reati e indizi specifici con buone speranze di arrivare a condanne. Altrimenti diventano boomerang, non tanto per i magistrati (dei quali ci importa poco), ma per le vittime (delle quali ci importa molto). È il rischio dell’indagine di Bergamo che, lo ripetiamo, è meritoria e doverosa per dare verità e giustizia ai parenti di tanti, troppi morti. Anche perché sappiamo come funziona l’informazione giudiziaria in Italia: se qualcuno ha fatto porcherie che non costituiscono reato e viene prima indagato e imputato e poi prosciolto o assolto, tutti dicono che era un santo, un martire, un perseguitato (accade pure per i condannati) anche se la sentenza dice e dimostra che era un porco penalmente non punibile. E così si getta altro sale sulla ferita sempre aperta delle vittime. Che diventano vittime due volte.

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