martedì 5 gennaio 2021

Daniela Ranieri e il Clown


Renzi elogia l’education: più manager in università

di Daniela Ranieri

Come sa chi ne segue le gesta, se c’è un binomio più catastrofico di quello Renzi-sport (nel quale pure il leader si applica con pervicacia invidiabile pensando di rifulgere) questo è il binomio Renzi-cultura. Così tra i 62 punti spiritosamente rinominati Ciao sbattuti in faccia al ministro dell’Economia (in sostanza, una lista della spesa ruotante attorno alle solite ossessioni crescitomani, costruttomani e cementofile, delle quali è metonimia ormai comica il Ponte sullo Stretto) si evidenziano qui per chi non ha tempo da perdere il numero 39, dedicato alla Scuola, e il 42, dedicato a Università e Ricerca.

Sapete quanto Renzi adori Scuola e Università. Ricorderete: più “cultura umanista” (sic), “education, education, education” (plagio di Blair), le visite alle scuole ogni mercoledì, i 1.000 asili in 1.000 giorni, la scuola madre di tutte le battaglie, l’euro in cultura per ogni euro investito in sicurezza… e intanto denigrava i “professoroni”, i “professionisti della cultura che fanno a pugni con l’innovazione”, i “presunti scienziati”, tutta gente che aveva il torto di prenderlo poco sul serio. Purtroppo anche il mondo della scuola non gradì: in migliaia scesero in piazza e il Pd perse milioni di voti di insegnanti, studenti, genitori e forse pure bidelli. Potevano mancare Scuola e Università nel mondo nuovo annaffiato coi 209 miliardi del Recovery Plan, che poi potrebbero essere, a occhio, la vera ragione dell’agitazione epilettoide del popolare leader da 2,8%? Così al capitolo Scuola si parla finalmente di “skills mismatch” (non abbiamo nemmeno la voglia di andare a cercare cosa significhi), “Teach First” and “Now Teach (Teach Last)”, come si dice “in Uk”, ma anche di “Fraunhofer dell’istruzione”, come dicono in Deutschland (del resto basta sentir parlare Renzi in inglese per capire che è praticamente madrelingua).

Ma è il punto 42 quello in cui emerge meglio il modello (non) culturale di Renzi. Così sta scritto: “Occorre decidere quale sia il livello della nostra ambizione su questo punto. Vogliamo togliere l’Università dal diritto amministrativo? Vogliamo far scegliere il rettore al Cda e non farlo eleggere (il sapere non è democratico, ma meritocratico)?”. Sono domande-provocazioni, nel consueto stile retorico di Renzi, in cui lui interpreta sia il soggetto-vulcano d’idee sia l’interlocutore grullo che le smonta (“Eh ma Matteo questo non basta”). Cosa significa far scegliere il Rettore di un’università dal suo Consiglio d’amministrazione? Oggi il Rettore è eletto democraticamente: da professori di ruolo e fuori ruolo, ricercatori, dottorandi, rappresentanti del personale tecnico-amministrativo, studenti negli Organi Accademici. Democraticamente: perché deve avere una connotazione di indipendenza e rappresentare la coscienza di una comunità. Ma Renzi e il suo drappello di seguaci preferiscono il metodo meritocratico. Quindi che sia il Cda a “scegliere” il Rettore.

Ma da chi è composto il Cda? Da interni all’ateneo, nominati dal Senato, e da esterni, nominati dal Rettore, che comprendono rappresentanti degli enti locali, imprenditori locali, manager. Ecco la parolina magica. Rettori che nominano manager che nominano Rettori. Come a Harvard, dove il Presidente è selezionato dalla Harvard Corporation, potentissima lobby dove abbondano i business men. Solo che i manager che piacciono a Renzi sono del calibro di Davide Serra, di cui basta leggere la padronanza dell’italiano nei tweet per farsi un’idea. “Promuovo la conoscenza, non le conoscenze”, certo, come no.

Da anni Renzi tenta di esportare il modello manageriale alla Scuola e all’Università. Dal preside-talent scout della Buona scuola, che sceglieva a chiamata diretta la sua “squadra” di docenti, alle cosiddette “cattedre Natta”, con cui 25 commissioni presiedute da docenti nominati direttamente dal presidente del Consiglio (lui stesso) avrebbero dovuto selezionare ogni anno “500 cervelli italiani e stranieri” o “superprofessori” (idea bocciata dal Consiglio di Stato a fine 2016), senza dimenticare l’obbligo fatto agli studenti degli ultimi tre anni delle superiori di sottrarre ore allo studio per dedicarle a lavori non retribuiti, la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”. Il merito, che è un criterio classista e razzista, a loro piace. La cosa buffa è che stiamo palando di gente che non ha nemmeno fatto studi regolari: l’elogio del merito dei renziani lo scolpì in una Leopolda la Bellanova, ministra-bomba a orologeria in questo governo: “Chi ce l’ha fatta, ce l’ha fatta per merito, e il merito è di sinistra!”, e al di là dell’aporia che col 2,8% loro pensano di essere quelli che ce l’hanno fatta, pazienza se è proprio grazie al fatto che il merito non è l’unico parametro di misura che una donna col diploma di terza media e un passato da bracciante, come recita la mitografia a lei ascrivibile, siede al governo della nazione.

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