lunedì 9 aprile 2018

Una fiammella


C'è una fiammella, tenue ma tenace dentro la sinistra sfaldata, ad hoc, dal Bomba e dalla sua corte: si chiama Giuseppe Provenzano e in questa intervista di Concita De Gregorio, pubblicata ieri su Repubblica, ci trasmette una fiducia che oramai pensavamo essere estinta: 

“Traditi dai dirigenti ma siamo in migliaia pronti a tornare all’antico impegno”

CONCITA DE GREGORIO

Giuseppe Provenzano, 35 anni, è nato a Milena in provincia di Caltanissetta, padre fabbro madre maestra. Laureato e dottorato alla scuola Sant’Anna di Pisa in Diritto Pubblico, al centro dei suoi studi le politiche per il Sud.
È vicedirettore di Svimez, l’istituto per lo sviluppo del Mezzogiorno, ha due figli piccoli. La notte del 26 gennaio 2018 ha rinunciato alla candidatura nel Pd. Proposto da Andrea Orlando per le sue competenze sul Mezzogiorno, il suo nome è stato inserito da Matteo Renzi al secondo posto dopo quello di Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro Salvatore (eletta poi col proporzionale).
Nelle ultime settimane ha aperto una discussione pubblica - un duro intervento in direzione, poi un post su Facebook - che è diventata ieri una giornata di incontro, a Roma, intitolata “Sinistra anno zero”. Molti giovani della Rete degli Studenti, molti ricercatori trentenni, qualche esponente sindacale, Orlando Cuperlo Rossi Doria e per un momento Martina, l’anziano Macaluso in sala. Tanti dicono che siano i primi movimenti verso la genesi di un nuovo soggetto politico a sinistra. “Ma non si fa un Pd fuori dal Pd”, mormora Provenzano.

Tutti qui oggi parlano di “quella notte”, “quella vergognosa notte”. La notte delle liste. Cosa successe?

«La direzione era convocata per la mattina alle 10. Si doveva discutere con le minoranze. Fu rinviata di ora in ora fino alle 22, per dodici ore. C’erano 150 persone in attesa di avviare una trattativa che non c’è mai stata».

In attesa di Renzi.

«Sì, del segretario. Quando è uscito dalla stanza dove era chiuso coi suoi aveva in mano un foglietto. Non un documento, non una fotocopia da distribuire. No, un foglietto. Ha letto i nomi nel silenzio generale».

Lei si è alzato e ha detto: io rinuncio.

«Ho detto: non pensavo di dover ancora combattere contro l’ereditarietà delle cariche pubbliche. Ma il mio caso è poco interessante. Conta il metodo: quella notte è saltato l’ultimo legame con un’idea di partito, quella che mi consente di stare in un luogo dove persone diverse da me rispettano regole comuni. Se ti fai le liste a tua immagine ti comporti come Berlusconi, come Salvini e Casaleggio. Non rispetti le minoranze, la parità di genere.
Io ho rifiutato ma anche chi ha accettato le prevaricazione pur di essere in lista, mi domando: come può stare in un partito così?».

Un gruppo ristretto si è intestato il partito, ha detto.

«Le minoranze sono diventate la maggioranza degli esclusi. Una frattura che ha avuto un peso decisivo nella sconfitta elettorale. Ma sa qual è la cosa più grave?
Come hanno trattato le donne.
Hanno candidato le donne in cinque posti diversi per far passare gli uomini».

Cosa ha determinato quella che lei chiama “la rapida ascesa e il repentino declino renziano”?

«Il suo gruppo dirigente ha rotto con il popolo della sinistra. Ci sono ragioni profonde ma poi, come in tutte le storie che finiscono male, ci si ricorda una frase, un gesto. Se sei il capo di un partito di centrosinistra non puoi dire che Marchionne è meglio dei sindacalisti. Compilare le liste in maniera padronale è il definitivo errore politico di un assetto, appunto, padronale. L’idea volgare della rottamazione rispondeva a un bisogno reale: “Far saltare il tappo”. I giovani ci speravano, alle europee un po’ ci avevano anche votato. Una volta al potere, i giovani dirigenti sono apparsi come quelli che avvitavano i tappi ancora più stretti. E poi questo disprezzo arrogante degli avversari, senza capire che diventa disprezzo per chi li vota. Abbiamo parlato mesi del curriculum di Di Maio».

Anziché di bisogni, intende dire?

«Certo. Ma poi scusi: qual era il loro curriculum? Qual è quello di Luca Lotti? O di quel nugolo di trasformisti e famigli vari che hanno raccattato nelle liste, specie al Sud. Chiediamocelo anche noi. Quali sono i nostri libri? Se vogliamo farci capire, essere semplici senza cedere alla brutalità, non dobbiamo studiare di meno. Dobbiamo studiare di più. Comunque i gruppi dirigenti sono solo un aspetto del problema. Bisogna ridiscutere quello che siamo stati non negli ultimi cinque anni, ma negli ultimi venticinque».

Venticinque? Parecchio tempo prima della nascita del Pd.

«Il Pd è nato tardi, s’è detto. No, è nato vecchio. Ci siamo accorti tardi della recessione economica, e ancora più tardi della recessione democratica. Avremmo avuto bisogno di una sinistra che facesse il suo mestiere: combattere le disuguaglianze e le solitudini, redistribuire potere e rappresentanza. Con strumenti nuovi, certo. Ma alcuni strumenti vecchi, usati poco e male, non erano da buttare: la progressività delle imposte, il welfare. Noi pensavamo ai diritti. A quelli civili. Benissimo. Meno bene è stato fermarsi non appena quei diritti si tingevano di qualche sfumatura sociale, come sullo ius soli. Il fatto, però, è che intanto erano tornati i bisogni. E noi nemmeno li riconoscevamo più».

Primo bisogno: il lavoro.

«E basta con la stupidaggine che se non hai il lavoro ti metti in un garage e te lo inventi. Tutti Steve Jobs. Start-up. Innovazione. Si è persa ogni sensibilità sociale. Il problema ora non è solo “tornare al popolo”, come sento dire da tanti; il problema è anche cosa gli dici, al popolo. Che gli dici? Che dall’altra parte del mondo il tuo amico Elon Musk, fra vent’anni, se hai soldi, ti porta a fare un giro su Marte?».

Pensa che al Sud il Movimento cinquestelle abbia vinto grazie alla promessa del reddito di cittadinanza, come alcuni hanno detto?

«No. Ma mi permetta una premessa. Se la cosa pubblica non mi protegge, a che serve? È solo un costo. Oppure, nella variante di destra, perché devo pagare le tasse? Il Reddito di inclusione – una misura che esiste in tutta Europa - è arrivato solo quest’anno. Se l’avessimo finanziato per tutti, magari rifacendo pagare le tasse sulle case dei ricchi, avremmo fatto una cosa giusta e tolto un’arma agli altri. Perché se vi accede solo un terzo dei poveri agli altri due terzi cosa racconti? Che facciano la guerra tra ultimi e penultimi?

Cosi gli ultimissimi – che sono gli stranieri, i profughi – sono diventati il capro espiatorio perfetto di ogni malessere sociale».
Diceva dei Cinquestelle al Sud.

«C’è stato un voto trasversale: disoccupati e professionisti, forconi e intellettuali, maestre e imprese. Segmenti sociali che erano i nostri. Una vera alleanza sociale, che poteva essere la nostra, è diventata la loro. Gente stanca di una “cittadinanza negata”. Dalla mancanza di reddito, e a proposito: che vergogna le risate sulle file ai Caf.
Negata da una malasanità che ti costringe a emigrare anche per un’operazione banale. Dalla viabilità che è un pericolo costante per i cittadini e le imprese. Da un’università che non offre più opportunità ai figli, che emigrano già per proseguire gli studi. Che futuro politico hai se non investi sull’istruzione, sulla formazione, sui bambini e sui ragazzi? Certo: oggi non votano.
Ma voteranno. Eccoli infatti: hanno votato, abbiamo visto.
Giovani uomini, giovani donne che hai ignorato».

Nel suo intervento ieri ha parlato del mondo intero.
L’applauso più lungo però l’ha avuto quando ha detto che non ci saranno più assemblee politiche senza un servizio di baby sitting.

«Sembrerà poca cosa, ma io non accetterò più persone che mi dicono che non possono venire agli incontri perché non sanno a chi lasciare i bambini, e non tollero che a dirlo siano sempre e solo le donne».

Le donne sono scomparse, ha detto la giovane Sofia Sabatino al microfono, in un’ovazione.

«Guardi non è retorica: è proprio la verità. I giovani, i più giovani di me, io li vedo: ci lavoro, ci vivo in mezzo. Sono meglio della generazione politica che li ha preceduti. Intanto sanno che non si può campare di politica, non è proprio nel loro orizzonte. Vivono la crisi su di sé, conoscono la realtà. Anche quelli più appassionati e competenti sono stati tenuti ai margini: la competenza fa ombra a chi non ce l’ha. E poi per emergere ci vogliono soldi (per fare e vincere le primarie per esempio) e i ragazzi non hanno soldi. Tra i ragazzi, le donne sono spesso straordinarie. Eppure quante ne vede, e quali, nei gruppi dirigenti? A me piacerebbe davvero che ci fosse una donna alla guida della nuova sinistra».

Lei pensa di candidarsi alle primarie?

«No. Ma non posso rinunciare a lavorare perché la sinistra torni ad essere ciò che l’ha resa grande.
Molte delle persone che lei ha intervistato in queste settimane sono energie vive in cerca di un interlocutore. Migliaia e migliaia di persone sono pronte. Siamo un esercito sconfitto e senza “gradi”.

Chi li aveva li ha persi in battaglia.

Bisogna solo abbandonare quello che Freud chiamava il narcisismo delle piccole differenze. Ogni volta che mi guardo attorno penso che sia molto dura», sorride, «ma ce la possiamo fare». 

Nessun commento:

Posta un commento