Che auguri. Il 2025 nell’algoritmo (social) del nostro totale scontento
DI ALESSANDRO ROBECCHI
C’è sempre qualcosa di vagamente disturbante nelle rievocazioni, memorie, riassunti, immagini a collage dell’anno appena passato, che ci investono, ben montate, commentate con rispettosa calligrafia, a ogni fine anno. Sono gli highlight del nostro scontento, collage emotivo-giornalistici, riassunti a scorrimento veloce che servono a ricordarci cose che ci ricordiamo benissimo, ma che riviste tutte insieme, stesso peso, stesso tono, stessa linea narrativa, perdono consistenza.
Un meccanismo che ricorda un po’ l’ipnosi da social, lo scorrere annoiato del pollice sui millemila milioni di video che mostrano cose diverse eppure identiche. Quelli che lavano i tappeti, la ricetta del vin brulé, una che dice i cazzi suoi mentre si mette il fondotinta, lo scherzo al fidanzato/a, il consiglio del mese, milionari a Dubai, l’aggeggio elettronico che non potete non avere, e via così all’infinito. Parzialissima e passiva visione del mondo attraverso una finestra – macché, una feritoia – gentilmente concessa dall’algoritmo. Risultato: un’ipnosi abbastanza ottundente, dove tutto sembra uguale, e forse lo è, e non vi stupireste più di tanto nel vedere uno che lava un tappeto mentre mette il fondotinta e spiega come scattare foto col nuovo modello di telefono.
Così tra oggi e domani e poi per qualche giorno, ci scorrerà addosso – di nuovo! – il 2025, annus piuttosto horribilis, con lo stesso campionario di ripetizioni, di già visti, di già saputi. Un bombardamento e una lite, poi Zelenzky da Trump, il genocidio a Gaza, la partita dell’anno, poi l’attore famoso defunto, poi la lite politica, le deportazioni dei poveracci, il Venezuela, Garlasco, la Groenlandia. E poi da capo: il genocidio, ancora, l’inflazione, armi, armi, armi, la politica, la casa nel bosco, Giorgia di qui e Giorgia di là, il ponte, Sinner, il genocidio di Gaza, di nuovo Garlasco.
Visto in tre minuti serrati, un anno – un anno come quello che finisce oggi – sembra appiattito e monodimensionale. Scorrevole, ecco, un piccolo trailer addomesticato di quel che abbiamo vissuto, una storia per così dire già revisionata, con gli spigoli smussati, più un amarcord che un bilancio.
Ma se fosse davvero un algoritmo, questo raccontino dell’anno che vediamo ripetuto in varie salse in questi giorni, sarebbe orientato alla perfezione. Per dirci, tutto sommato, che niente va come vorremmo. Quel che dovrebbe diminuire aumenta – armi, spese militari, spreco di energia, consumo di suolo, risorse –; e tutto quel che dovrebbe aumentare – in termini di giustizia, eguaglianza e diritti – cala vistosamente. Qui e ovunque. La forbice delle diseguaglianze si allarga anziché restringersi, le democrazie sono un po’ meno democratiche, una decina di miliardari controllano il flusso delle informazioni sul pianeta, il diritto internazionale conta come il due di picche, l’innovazione tecnologica sarà obbligatoria per tutti ma a vantaggio di pochissimi, il controllo sociale sarà capillare e il welfare un lusso sacrificabile. Non male, eh, come quadretto.
Mi piacerebbe pensare (vaste programme) che siamo parte dell’algoritmo e che possiamo in qualche modo modificarlo e condizionarlo un po’ anche noi, un vecchio sogno novecentesco. Però, se dovessi augurare qualcosa a tutti noi, direi che è questo: di non trovarci qui tra un anno a dire del 2026 le stesse cose, a guardare un piano inclinato che si è inclinato ancora di più. Un programma minimo, mi rendo conto, ma forse gli auguri sono l’unica cosa in cui conviene essere moderati. Buon anno.
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