La lingua del futuro. La “distopia” è una parola che si porta sfiga da sola
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Approfitterei del clima di fine anno – bilanci, riassunti, retrospettive, eccetera eccetera – per un piccolo ma accorato appello: chiederei una moratoria di qualche anno sull’aggettivo “distopico”, il sostantivo “distopia” e tutti i derivati che si usano abitualmente in ogni discorso, dal mercato rionale all’assemblea di astrofisici. Non siamo nati ieri, e quindi sappiamo benissimo che il linguaggio corre, si modifica, si adegua, spesso si spaparanza su qualche parola imparata da poco, o se ne innamora, o comincia a spruzzarla dappertutto come lo zucchero a velo.
Bene, “distopico” è una di quelle parole, e per contagio lessicale popolare ormai tutto è distopico, dalla foto della suocera modificata con l’Intelligenza artificiale a Trump che vuole la Groenlandia, cioè si usa la parola come una specie di: “Minchia, sembra un film di fantascienza, e invece è vero!”. Perché in effetti “distopia” è una parola che ha a che fare con quello che verrà (un futuro mondo non bello, più o meno il contrario di utopia) e non con quello che vediamo. Per fare un esempio: nel 1960, Stanisław Lem, strepitoso autore di fantascienza, si immagina delle auto a guida autonoma che percorrono la città senza autista, da sole, schivando altre auto agli incroci. Ecco, quella era una visione distopica, e se ci appare oggi non lo è più. Quando George Orwell (nel 1949) si inventava una neolingua del potere in cui “pace” voleva dire “guerra” era fortemente distopico, terribilmente distopico; quella neolingua oggi non è una fosca visione futuribile, ma un fatto conclamato in discorsi ufficiali e votazioni solenni.
Dunque si usa frequentemente una parola un po’ fuori asse, per così dire, scentrata rispetto al suo significato, e questo è già irritante. C’è poi la sensazione che “distopico” si porti sfiga da solo. Insomma, a furia di immaginarci cose distopiche, poi non ci stupiamo più di tanto quando accadono. La vera utilità della parola, dunque, è misurare la nostra capacità di prevedere, o immaginare, o ritenere assurda una sostanza incredibilmente malleabile come il futuro. Solo una decina di anni fa ci sarebbe sembrato assurdamente distopico che un privato cittadino possedesse la quasi totalità delle comunicazioni satellitari del pianeta, mentre oggi lo accettiamo come un dato di fatto. E del resto, solo pochi decenni fa – un battito di ciglia – avevamo in mano telefonini pesanti come mattoni che usavamo quasi unicamente per dire: “Mi senti? E tu mi senti?”; mentre oggi ci mettiamo delle cuffiette che traducono in tempo reale uno che ci parla in cinese.
Insomma gran parte del nostro presente anche solo pochi anni fa l’avremmo definito una visione distopica, e questo è seccante, perché se ci fate caso non capita mai di immaginare un futuro “utopico”, invece, di pensare a un futuro dove la nostra vita sarà migliore, e non un posto dove si realizzerà il peggio che riusciamo a pensare, un luogo non bellissimo tra Metropolis e Blade Runner. Basta guardare una tabella con le prospettive dell’età pensionabile per capire che un mondo migliore non è nella nostra sfera di progettazione, mentre non esitiamo ad aspettarci furibonde e dolorose distopie. In pensione a 107 anni, ma solo con 90 di contributi. La bolletta del congelatore dove terremo la nonna per incassare la sua pensione sarà più alta della pensione stessa. Ecco, adesso è distopico, ma domani chi lo sa, chi può dire. Urge una moratoria, insomma, in modo che immaginarsi distopie sociali non sia un “portarsi avanti col lavoro”.
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