Il governo dei clic sfama l’elettore

Cerchiamo nelle profondità del sociale le ragioni delle destre che sbancano, delle sinistre che arrancano, delle bugie che dilagano, degli elettori che arretrano, dei prepotenti che avanzano.
E se la risposta non stesse laggiù, ma proprio qui, nella tasca laterale della giacca, in questa cosa che all’apparenza dorme e invece se interrogata da 80 a 150 volte al giorno (come dicono i dati) si accende di luce propria, si spalanca come un abbraccio e ci risponde? Addestrandoci al boccone immediato ogni volta che abbiamo fame. Al sorso di informazioni ogni volta che abbiamo sete. Una goccia di dopamina alla volta. Compresa l’illusione di sapere il necessario, cioè quello che ci serve qui e ora.
Se vale nella vita quotidiana, perché non dovrebbe valere altrettanto in quella pubblica, governata dalla politica? Anche lei deve fornirci risposte con la stessa prontezza che garantiscono Google, l’IA, le folate insonni dei social. La prontezza è un diritto, la lentezza un residuo. I tempi morti producono insoddisfazione e ansia. Diventano intollerabili. Come lo sono sempre di più la complessità, il dubbio, l’esitazione. Tutti arnesi che volentieri maneggia la sinistra quando argomenta, sottilizza, distingue, specialmente se parla al suo interno, per dividersi in cento specchi. E finendo per essere così autoreferenziale da dimenticarsi di trovare connessioni emotive e narrative con chi dovrebbe ascoltarla.
Meglio una notifica di una predica. Una promessa rassicurante, invece di una ipotesi: bloccheremo il Mediterraneo con le navi, che ci vuole? Le strade saranno sicure, più leggi, più polizia. Taglieremo le tasse e l’economia crescerà. Aboliremo la Fornero, andremo tutti prima in pensione. Con noi ogni famiglia sarà felice.
Idiozie? Mica tanto se è la velocità a garantirle. Se non hai limiti nel dire, nel disdire, nel ripetere. Se sei rapido a indicare una direzione, una soluzione, a riconoscere l’onda emotiva. Per assecondarla seguendo le convenienze. E a cavalcarla come ha imparato a fare la destra. Ieri con Berlusconi, oggi con Giorgia Meloni, dentro a un comune riverbero politico che connette l’Ungheria di Orbán all’America di Trump, la Francia di
Marine Le Pen alla Spagna di Abascal e alla Germania di Afd. Tutti maneggiando messaggi brevi, emotivi, identitari, risolutivi. Tanto da diventare non solo ideologia dilagante, ma anche soluzioni operative. Proprio come offre la Rete che ci portiamo in tasca.
Analisi sociali complesse come il celebre Alone together di Sherry Turkle (2011) aggiornato e tradotto in “Insieme ma soli” (2020) ci spiega che la semplicità del meccanismo – chiedo e ottengo in un clic – ha moltiplicato con la sua velocità la potenza dello smartphone, che ormai “plasma il nostro modo di pensare, desiderare, pretendere”. In meno di vent’anni è diventato la principale interfaccia tra l’individuo e il mondo.
Dal suo schermo tascabile passano le notizie, le cose desiderabili e quelle detestabili, le proteste e le campagne, le delusioni, l’indignazione, la rabbia e il suo risarcimento emotivo. Tutto on demand. Tutto immediato. Tutto certificato da una risposta che non chiede verifiche, le garantisce in velocità. Perché nel frattempo “l’attesa è diventata una condizione intollerabile”. Una insofferenza che in pochi anni si è trasferita nella sfera politica. Dove vince la semplificazione sulla complessità, il flusso di molti messaggi sulla coerenza dei messaggi tra loro, l’ammirazione per la linea corta del comando, rispetto a quella lunga della concertazione.
È il nuovo “paradigma della immediatezza digitale” che offre visibilità, prossimità, reattività. E chi è più bravo a garantirle – meglio ancora a soddisfarle – sbaraglia la concorrenza. Magari non per sempre. Ma qui e ora sì, chi se ne frega della coerenza.
Giorgia Meloni ha promesso il taglio delle accise sulla benzina e le ha aumentate. L’alleggerimento delle tasse e le ha appesantite. Il blocco dell’immigrazione e i numeri la smentiscono. La lotta alle élite che invece sono diventate alleate. Peggio di lei solo Salvini che a forza di promettere la costruzione del Ponte e la distruzione della Fornero, ha mandato in malora i treni e incidentalmente i conti della Lega.
Ma lo scroll continuo delle notizie a cui ci ha abitualo lo smartphone, fa in modo che la responsabilità e la titolarità di una promessa, duri quanto un trend. Oggi vale. Domani forse. E comunque si troverà un nemico a cui addossare la colpa dell’inciampo: i giudici, i mercati, la sinistra, l’Europa. È sempre sufficiente “reimpostare la narrazione” con l’uso strategico della saturazione mediatica, come fanno Putin, Netanyahu e Trump usando i missili, Xi Jinping con la sorveglianza totalitaria, Orbán predicando ai suoi 500 organi di disinformazione nazionale. Nel suo piccolo, la Meloni si arrangia mimandosi underdog in villa, un ossimoro che produce più ammirazione che disappunto, mentre Salvini campa palleggiando con il presepe, il rosario, i migranti.
Se il flusso è continuo, non c’è tempo per ricordare, verificare, indignarsi. Tanto più che l’appartenenza si fonda sulla identità simbolica. È la fede emotiva che dà sostanza ai populismi, dove la razionalità conta meno di niente, come s’è visto in quella maestosa messa in scena funebre per la morte di Charlie Kirk, un odiatore universale, celebrato come un santo. O alla festa di Atreju, passata dalle pozzanghere pagane del Campo Hobbit agli scintillanti applausi in stile Meeting di Comunione e liberazione. Con l’intermezzo musicale di nani, ballerine e portieri.
Controllando gran parte dei media e interamente l’agenda politica – con poca e marginale opposizione a sinistra – la comunicazione della destra di governo è diventata una performance di presenza, non una contabilità dei risultati. La benemerita ricerca delle incongruenze entra anche lei flusso, per essere spazzata via dal flusso. La politica dell’immediatezza funziona, Meloni non flette nei sondaggi. La sua comunicazione è personalizzata, familiare, non spiega, sorride, narra e connette. È un dispositivo di potere. È la nuova egemonia culturale che la destra ha già conquistato. Annettendosi non Dante o il Futurismo, ma il controllo dei media pubblici e gran parte di quelli privati. Colonizzando le autorità amministrative e le catene decisionali. Disarticolando i poteri di controllo, la Corte dei Conti ieri, appena possibile l’autonomia della magistratura e quella del Quirinale. Sempre più a destra, verso una deriva autoritaria, una società ingiusta. Che in assenza di contromisure, controproposte, controstrategie, governerà con un clic.
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