Parole buttate sulla pubblica via
di Michele Serra
“Erano conversazioni private decontestualizzate”. Lo dice Carlotta Vagnoli — coinvolta in una recente baruffa mediatica — a proposito delle parole che le sono costate l’imputazione per diffamazione aggravata. Fatta eccezione per quanto scritto su chat aperte al pubblico (il contesto, in quel caso, è chiarissimo), Vagnoli ha ragione. Per esteso, la morte del contesto, la sua rimozione a scopo di riciclaggio in altro ambito di parole non pensate e non dette per la pubblicazione, riguarda un gran numero dei “casi mediatici” degli ultimi anni, dai più lievi ai più grevi: parole dette in privato, poi estratte da quel contesto e buttate in pasto al pubblico. Si pensi al recente “scandalo politico”, molto tra virgolette, che ha coinvolto un funzionario del Quirinale.
La morte del contesto è un mutamento d’epoca di enorme rilevanza: il significato delle parole ne esce triturato, il processo alle intenzioni è pratica quotidiana, buona parte del dibattito pubblico ruota attorno a una specie di segatura indistinta di frasi piluccate qua e là, rimescolate, riconfezionate, fraintese un po’ per frettolosa superficialità un po’ per volontà di manipolazione. Scemenze diventano crimini, e pettegolezzi capi d’accusa. Cadute di stile protette dall’intimità vengono scaraventate sulla pubblica via.
Sorprende, in questa situazione (che definirei di spionaggio di massa), che non sia in atto una bonifica volontaria del linguaggio. Al contrario il livello di aggressività, la quantità delle offese e dei giudizi sommari, l’indifferenza alla debolezza altrui, sembrano incontenibili. Evidentemente questa guerra piace troppo ai tanti che la praticano. Poi qualcuno rimane sotto le macerie e una breve pausa di riflessione, magari, è concessa.
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