martedì 14 luglio 2020

Ultimi beep




Rumori fuori scena


di Marco Travaglio


L’altroieri, mentre Giuseppe Conte rispondeva alle mie domande sulla faccenda Autostrade facendo a pezzi i Benetton con la durezza ponderata e documentata che tutti i lettori hanno potuto constatare, si accavallavano un bel po’ di pensieri.

1) Mai un presidente del Consiglio italiano aveva detto parole così nette e definitive contro uno dei veri poteri forti che ammorbano l’Italia dalla notte dei tempi.

2) Chi dipinge Conte come un democristiano indeciso a tutto fuorché ai rinvii, che tira a campare a ogni costo senza mai decidere nulla per non scontentare nessuno, non ha capito nulla.

3) Forse non avevamo tutti i torti quando, in beata solitudine, tentavamo di spiegare a un Paese che ha digerito di tutto che l’attuale presidente del Consiglio, pur con i suoi errori, è la figura che più si avvicina a ciò che dovrebbe essere un presidente del Consiglio.

4) Per queste ragioni, il rischio di una crisi di governo è concretissimo, perché è su questioni di sostanza – quelle che toccano gli interessi privati e le pretese di impunità del Partito degli Affari&Malaffari, non le chiacchiere politichesi dei retroscenisti da giornalone – che in Italia cadono i governi: il Conte1 venne giù sul Tav e la prescrizione; il Conte2 sarebbe caduto sulla prescrizione se non fosse arrivato il Covid-19; ora le concessioni autostradali miliardarie ai prenditori trevigiani sono un’ottima ragione per un ribaltone (basta misurare i litri di bava alla bocca di Sabino Cassese, grande sponsor dei Benetton dopo aver fatto parte del Cda del gruppo autostradale dal 2000 al 2005, per poi uscirne – secondo dati mai smentiti – con 700 mila euro fra gettoni di presenza e consulenze). Così come potrà esserlo il Mes, il prestito europeo (da restituire) che tutti dipingono come manna dal cielo perché troppi sognano di mettere le mani su quei 37 miliardi destinati alla sanità: i ras delle cliniche private (spesso editori di giornali), i presidenti di Regione e i loro partiti a caccia di un bancomat per le loro campagne elettorali, non avendo fra l’altro capito che quei soldi non andrebbero comunque in spese e debiti aggiuntivi (i nuovi investimenti nella sanità sono già stati finanziati dal governo e il Mes, se mai arriverà, andrà a coprire tutt’altre spese).

5) Il vero discrimine che fende trasversalmente la politica italiana non è né quello tra destra e sinistra, né quello fra populisti e antipopulisti, ma quello fra chi persegue l’interesse pubblico e chi gli interessi privati. E qui, oltre alle reazioni ampiamente prevedibili del Pd (svenimenti e pigolii in ordine sparso) e dell’Innominabile (Forza Benetton) all’intervista di Conte, colpisce quella dei 5Stelle. Che non hanno proprio reagito: encefalogramma piatto.

Fra i big solo Di Battista – quello che nel fumettone retroscenistico sarebbe il più anti-Conte e comunque non sta né nel Parlamento né al governo – plaude al premier, notando che parla come dovrebbe parlare un 5Stelle, ma come nessun 5Stelle parla più. Dagli altri, solo silenzi: come se Conte non l’avessero scelto loro, con formidabile ritorno di immagine e di sostanza che ha spazzato via tutti i luoghi comuni sul M5S inaffidabile e incompetente. Se il premier, anche due mesi dopo la fine del lockdown, mantiene consensi così alti (ben oltre il recinto la coalizione giallorosa), chi lo ha scelto dovrebbe sventolarlo come una bandiera. Invece, anziché vantarsene e appropriarsene, è come se i 5Stelle non lo sentissero come il “loro” premier e temessero la sua popolarità: un “premier amico” e nulla più, per usare la gelida definizione che De Gasperi diede nel 1953 del governo Pella per prenderne le distanze (“governo amico”). Anche quando Conte parla la loro lingua delle origini e mette la testa sul tagliere di una loro battaglia identitaria come quella su Autostrade. Colpisce soprattutto il silenzio di Luigi Di Maio. Non che il suo nuovo stile di ministro degli Esteri sia sbagliato, anzi. Un anno fa inseguiva il Cazzaro Verde nelle gare di rutti e perdeva sempre, perché il campione nazionale di quello sport è solo uno. Ma un conto è parlare poco e soprattutto di affari internazionali, un altro è incontrare Mario Draghi e Gianni Letta senza spiegare il perché. Che c’entra l’ex governatore Bankitalia ed ex presidente Bce con la Farnesina? E che ci azzecca il vecchio lobbista del Partito Mediaset, privo d’incarichi politici e istituzionali? Lo sanno anche i bambini scemi che Draghi è suo malgrado il candidato dei poteri forti per il governo di larghe imprese che nei loro sogni dovrebbe rovesciare il Conte 2; e che Letta sr. è l’emissario (reo confesso di una tangente e salvato dalla prescrizione) del pregiudicato B., delle sue aziende e delle sue trame per rientrare in gioco, farsi gli affari suoi nelle tv e nella fibra e magari scegliersi pure gli arbitri dell’Agcom.
Due anni fa Di Maio si giocò la premiership per non stringere la mano pubblicamente né parlare privatamente a B.. Ora si scopre che, tra il lusco e il brusco, stringe la mano e parla segretamente al braccio destro di B.. Intanto, da dieci giorni, né lui né alcun altro big M5S dicono una parola contro la vergognosa riabilitazione di B. a opera di mezzo Pd, dell’Innominabile e dei giornaloni al seguito. Gli elettori, se non alle mitiche dirette streaming, avrebbero diritto almeno a una spiegazione. Diceva Agatha Christie: “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”.

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