martedì 7 agosto 2018

Palombi chiarificatore


martedì 07/08/2018
LA TRATTATIVA

B. e quel miliardo a rischio dagli spot. Così è caduto Foa
IL CAIMANO PRETENDE GARANZIE: IL MERCATO DELLA PUBBLICITÀ BLOCCATO (E MEDIASET A FARE DA PADRONA) PER QUALCHE ANNO

di Marco Palombi

Dietro l’impasse che paralizza la Rai e il mezzo niet, poi in modo fortuito divenuto pieno, di Silvio Berlusconi a Marcello Foa c’è la pubblicità. O meglio, le garanzie sul mantenimento dell’attuale assetto del mercato pubblicitario che il fu Caimano, indebolito dagli anni e dai tracolli elettorali, chiede all’alleato Matteo Salvini e, tramite lui, ai Cinque Stelle, di cui si fida pochissimo (la nomina di Fabrizio Salini ad amministratore delegato della Rai non gli è piaciuta affatto)

Per capire, serve un breve riassunto. Berlusconi è alla guida di un partito che si va spegnendo e, soprattutto, di un’azienda ancora ricca ma il cui modello di business è obsoleto: il tycoon brianzolo sa che la prospettiva più razionale nel medio periodo è vendere le tv a qualcuno che possa integrare Mediaset in una filiera tecnologica sensata. Serve una media-company ad ampio spettro – cinema, tv, musica, società di comunicazione, internet, telefonia – com’era la Vivendi di Vincent Bolloré, a cui il fu Cavaliere voleva inizialmente rifilare solo la pencolante divisione “Premium” tenendosi “il bancomat” della tv generalista.

Arrivati allo stallo e alle carte bollate dopo un tentativo di scalata, il signore di Arcore e il finanziere bretone hanno provato a mettersi d’accordo, ma l’offerta di Vivendi non è stata giudicata sufficiente. Storia passata, ma rilevante per il futuro: cosa fa la forza di Mediaset? Gli ascolti, certo, ma soprattutto gli incassi pubblicitari fuori scala.

Il mercato pubblicitario e la megaquota di Arcore

I numeri aiutano a capire le preoccupazioni di Berlusconi: in Italia le aziende, i cosiddetti “brand”, investono in pubblicità 6 miliardi abbondanti di euro l’anno; la percentuale di questa cifra riservata alla tv è più del doppio rispetto agli altri Paesi europei e la maggior parte finisce a Mediaset. Publitalia – grazie ad antiche alleanze commerciali coi Centri Media che gestiscono i budget delle aziende (primo tra tutti GroupM del colosso WPP, a lungo guidato da Stefano Sala, attuale numero uno della concessionaria di B.) – riesce alla fine a portare al Biscione circa due miliardi e mezzo: in sostanza le tv del leader di Forza Italia con uno share medio stimabile nella fascia 30-35% incamerano pubblicità per il 55-60% del totale. Un paradiso che, coi nuovi attori spuntati come funghi nel mercato dei media e una maggioranza di governo ostile, avrebbe vita breve: un’apertura del mercato potrebbe costare a Mediaset tra 750 milioni e 1 miliardo l’anno.

L’intesa quadripartisan inizia con Cdp-Telecom

E qui torniamo a Foa, a Salvini, ai 5 Stelle e pure al Pd. L’accordo per lasciare tranquillo lo zio Silvio per qualche anno e dargli tempo di sistemare gli affari di famiglia risale all’inizio della legislatura, quando il governo gialloverde era di là da venire e a Palazzo Chigi c’era ancora Paolo Gentiloni. Fu quell’esecutivo all’inizio di aprile a decidere (benedicenti Renzi, Lega e M5S) l’ingresso di Cassa depositi e prestiti in Telecom per mettere all’angolo Vivendi facendo un bel favore a Mediaset. Sfilati i telefonini ai francesi, bisognava poi garantire lo statu quo nel mercato pubblicitario.

Salvini e la Lega, a suo tempo, avevano dato le loro più ampie garanzie alla casa di Arcore, poi Berlusconi e il partito Mediaset hanno iniziato a non fidarsi più.

I motivi sono molteplici, ne indichiamo alcuni: il primo è l’autonomia politica del leader leghista, che ha smesso di rassicurare Berlusconi e s’è mangiato Forza Italia; un altro è che alla fine la delicata delega sulle Comunicazioni al ministero dello Sviluppo è rimasta in mano a Luigi Di Maio; un altro ancora riguarda la scelta dei nomi per la Rai, concordata da Salvini col solo alleato grillino che ha prodotto l’arrivo a viale Mazzini del nuovo ad Fabrizio Salini, malvisto a Cologno Monzese, e di un presidente quasi sconosciuto. Più fantapolitica che altro invece la notizia per cui i 5 Stelle starebbero mettendo a punto una tassa ad hoc sugli spot pubblicitari in tv: il fatto che uomini Fininvest la prendano sul serio è il segno della paranoia berlusconiana.

Alla fine paga il cronista da una vita al Giornale

Dei malumori dell’ex Cavaliere, alla fine, ha fatto le spese Marcello Foa, per anni cronista del Giornale di famiglia, bocciato come presidente Rai dalla Vigilanza mercoledì scorso anche grazie all’uscita dall’aula di Forza Italia. Come Il Fatto Quotidiano ha già raccontato, proprio mercoledì 1° agosto, di buon mattino, Salvini fece finalmente visita a Berlusconi, ribadendogli – fra le altre cose – che nessuno avrebbe approvato leggi “contro Mediaset”. Il leader di Forza Italia, fino a quel momento schierato sul no al candidato “sovranista” come ritorsione contro l’alleato infido, si decise a cambiare posizione sul nome di Foa (avanzato senza consultarlo) e telefonò ai commissari azzurri per chiedergli di votarlo: peccato, dicono fonti del partito, che a quel punto il (non) voto su Foa ci fosse già stato. Lì accade l’imponderabile: è Forza Italia a ribellarsi, Antonio Tajani e Gianni Letta in testa, spingendo il debole capo al niet definitivo contro il presidente sovranista per staccarlo da Salvini e fare di FI uno dei perni di una futura alleanza anti-populista.

Ora tutti gli attori devono capire come uscire dal cul de sac in cui si sono infilati: bruciato (definitivamente?) come presidente della Rai Marcello Foa, bisognerà trovare un nuovo nome che rigeneri l’accordone sulle tv. Sovranista o europeista, alto o basso, per Berlusconi fa lo stesso: l’importante è che la pubblicità resti dove sta. Il punto è sempre quello: se deve vendere, il prezzo vuole farlo lui. Il problema per l’ex premier è che stavolta potrebbe non avere al suo fianco il Pd: “Nelle prossime ore capiremo qual è il prezzo politico che regolerà ancora una volta i conti tra Berlusconi e Salvini – ha scritto il dem Francesco Boccia su Huffington Post – È dovere del Pd mettere in evidenza queste contraddizioni proponendo una radicale rottura degli schemi che tengono la Rai e ogni operatore privato italiano e non imbrigliato in un sistema vecchio e superato dal tempo”.

Se, però, il Pd si sfila dall’accordone e si mette all’opposizione, il cerino resta in mano ai 5 Stelle: per il ministro competente Di Maio, a quel punto, far finta di nulla rischia di essere assai complicato. Può stare tranquillo l’ex Cavaliere?

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