venerdì 15 novembre 2024

Barbero!

 

La mosca di Alekseeve l’avanguardia
ROMANZO RUSSO - Negli anni della lunga decadenza dell’Urss nella Capitale gli studenti universitari impazzivano per il “culto” della Madre Terra, dell’umido vitale, del mondo sotterraneo
DI ALESSANDRO BARBERO
Quando si atterra a Mosca col buio, mentre l’aeroplano vira lentamente sulla città in attesa che trasmettano il segnale di via libera, è facile che l’occhio incontri dal finestrino il grattacielo dell’università, sui Monti dei Passeri.
Le luci sono accese dietro innumerevoli finestre, fioche, è vero, ma nella notte brillano; e sulla guglia più alta brucia ancora la stella rossa, come una volta. Per adesso il grattacielo sta lì; può anche darsi che un giorno lo facciano saltare con la dinamite e al suo posto scavino, chissà, una piscina, ma non mi pare che se ne sia ancora parlato seriamente, e del resto sarebbe un peccato. Una volta un forestiero immaginoso lo paragonò a un castello medievale, irto di alambicchi e osservatori astronomici, ma nelle cui segrete pulsano i computer, e dove gli alchimisti portano il camice bianco. Fra i suoi merli fanno il nido i corvi e sotto le cuspidi dormono i pipistrelli appesi a testa in giù, e forse davvero in qualche ripostiglio dimenticato, in un laboratorio di chimica fuori uso, o fra le teche polverose del museo di storia naturale abitano, annoiandosi, le streghe e le fate. A molti non piace: lo considerano un incubo architettonico e per di più un monumento reazionario, “la quintessenza”… come diceva? Ho qui un ritaglio di giornale; aspettate un momento, era detto così bene! Ecco: “la quintessenza della schizofrenia urbanistica cui si è arrivati da noi in altri tempi”. Sorokin, invece, dice che questo edificio non è stato creato dagli uomini né per gli uomini, ma piuttosto dallo Stato e per lo Stato: che peccato che la gente ci studi! Sarebbe meglio se esistesse soltanto per se stesso, senza essere abitato da nessuno se non dal fantasma di Hegel: la Cosa in Sé… Be’, certo, Sorokin è uno che sa scrivere, chapeau. Eppure, provate un po’ a guardare una fotografia dei grattacieli che gli americani costruivano allora, e ditemi un po’ se non si assomigliano! Potresti sostituire la guglia centrale del nostro grattacielo con quella, diciamo, del Chrysler Building, e la maggior parte della gente non se ne accorgerebbe neppure. E allora spunta il dubbio, accidenti a lui: forse, quello stile che per noi ha sempre portato l’impronta inconfondibile di Stalin era semplicemente un prodotto del gusto del tempo, uguale in tutto il mondo; da noi come a New York, in Svezia e chissà, in Australia…
Al grattacielo dell’Università si trova sempre qualcosa da fare. Se non avete un libro da cercare in biblioteca, potete andare a trovare un conoscente, sedervi al caffè a prendere un succo di frutta, mettervi in coda per farvi tagliare i capelli dal barbiere, e persino fare il bagno in piscina; o ancora, curiosare per i corridoi dei dormitori, appoggiando l’orecchio alle porte chiuse per sentire che cosa succede nelle stanze, soprattutto in quelle dove una coppia è appena entrata tenendosi per mano. Io pure ho abitato lì, per tre o quattro anni; dividevo la stanza con Alekseev, lo conoscete, no? il pittore. Sulla parete di fondo, proprio dietro le nostre brande, stava appeso uno dei suoi quadri, di un metro per due; a quei tempi, era l’unico posto in tutta l’Unione Sovietica dove gli fosse permesso di appenderli. Rappresentava un uomo seduto sulla tazza del cesso, intento a leggere la Pravda; dell’uomo si vedevano soltanto le gambe pelose, con le brache calate fino alle caviglie, e sopra il foglio spuntava la tesa del cappello… E il giornale era a grandezza naturale, realizzato con la tecnica del collage: volendo potevi pure leggerlo, non mancava proprio nulla! C’era la fotografia della tessitrice uzbeka diciottenne, al suo primo giorno di lavoro nella fabbrica di tappeti, e quella del capobrigata ucraino che s’era impegnato ad assicurare un contratto di 16,3 quintali di grano per ettaro; e perfino l’intervista al comandante d’una squadriglia di Mig-23 di stanza in DDR. (…). Ricordo bene quando Alekseev dipinse quel quadro, proprio lì nella nostra stanza al dormitorio; eravamo tutt’e due studenti del primo anno, e lui sedeva al cavalletto con accanto una pila di giornali vecchi, alla ricerca dei pezzi giusti. Era nata perfino una discussione fra i nostri, per stabilire se l’artista faceva bene a ricomporre una pagina con articoli ritagliati da copie diverse, o se non avrebbe dovuto piuttosto incollare lì tutt’intera una pagina presa a caso: tanto il risultato, sostenevano i più, sarà lo stesso, non puoi migliorare l’opera della natura…
Questo, però, è un guazzabuglio, non ci si capisce nulla, dirà qualcuno. Che c’entra per esempio Alekseev? C’entra, c’entra.
È lui che un paio d’anni fa ha avuto l’idea di andare a Zjuzino. Era ancora il periodo in cui l’underground moscovita andava preso alla lettera: tutti impazzivano per questa faccenda della Madre Terra, dell’umido vitale, del mondo sotterraneo. Miscia Rošal metteva in scena all’aperto una performance in cui si faceva seppellire, e il titolo era proprio Underground. Monastyrskij si credeva uno sciamano, e scriveva versi alla sua donna invitandola a venire a trovarlo nella tomba, a mordicchiare le sue ossa. E lui, Nikita, Alekseev voglio dire, dipinse un quadro che rappresentava un colonnello in uniforme, con le zampe di gallina, e lo intitolò La Madre-Terra umida. E poi organizzò l’esposizione del club “Avant-garde” per il mondo sotterraneo. Andammo a Zjuzino in corteo, un triste pomeriggio, sotto un cielo plumbeo che prometteva la prima neve: naturalmente era il giorno dei Morti. Nikita era riuscito a convocare un bel po’ di gente con la macchina, e perfino dei giornalisti: un happening così, diceva, non c’è mai stato neanche in America… Qualcuno portò le pale, probabilmente fregate in un cimitero. Arrivati a Zjuzino scavammo una grande fossa in mezzo a un campo e seppellimmo decine di quadri e di manoscritti. Miscia Sukhotin aveva portato tutte le sue bozze, sistemate in un classificatore di cartone, con l’etichetta “Da correggere”. All’ultimo momento voleva farsi seppellire anche lui: così, diceva, avrò finalmente il tempo di correggerle! Aveva bevuto, ci volle tutta l’autorità di Alekseev per farlo smettere…
Esattamente sei mesi dopo, il 1º maggio, tornammo a disseppellire le nostre opere. Dopo una lettura pubblica dei manoscritti, sporchi di terra e inzuppati dall’acqua del disgelo, tutto il materiale venne portato via e classificato negli archivi del club. Tutti quelli che avevano portato qualcosa ritrovarono le loro opere, e in più saltò fuori un manoscritto che nessuno conosceva. Era un grosso pacco di fogli extra-strong, battuti a macchina a spazio uno, in duplice copia, ben protetti nel loro imballaggio di cartone. Non c’era il nome dell’autore, né il titolo. Che fare? Alekseev se lo ficcò sotto il giaccone e se lo portò via; poi un mattino, come se niente fosse, ecco che mi telefona, ordinandomi di raggiungerlo subito allo studio. Rispetto ai tempi del dormitorio, si sa, le nostre condizioni sono cambiate parecchio; per qualcuno magari anche in peggio, ma per lui senz’altro in meglio, con tutti i dollari che gli rifilano gli americani! S’è fatto lo studio sull’Arbat, il nostro Nikita; e pensare che io tiro avanti ancora adesso in coabitazione, una stanza con uso di cucina… Eh, lasciamo perdere. Comunque, arrivo e me lo trovo lì seduto sulla sedia a dondolo, la sigaretta in bocca, il portacenere pieno di cicche; nell’aria il fumo si taglia col coltello. “Non è mica male, sai”, borbotta appena mi vede entrare. “Di cosa diavolo stai parlando?”. “Il manoscritto, quello senza titolo. Leggi un po’!”. Io protesto; non ho tempo, dico, ed era vero, dovevo vedere un tizio dall’altra parte della città; oggi, si sa, non è mica più come una volta, che se non avevi voglia di andare a lavorare, non ci andavi e basta: adesso da noi c’è il capitalismo, tocca sbattersi tutto il giorno per mettere insieme pranzo e cena.

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