Sceneggiata di pace
di Marco Travaglio
Il giro di telefonate fra Trump, Putin e Scholz sull’Ucraina invasa 1.000 giorni fa ha tutta l’aria di una sceneggiata per salvare qualche faccia e prepararla a sacrifici decisi da tempo. Da ben prima dell’arrivo di Trump. Che Kiev non sia in grado di recuperare le regioni occupate e/o annesse dai russi (circa il 19% del territorio) lo si sa da due anni: lo disse il generale americano Milley nel novembre 2022; lo ribadì il flop della controffensiva del 2023, in cui gli ucraini riuscirono a perdere più terreno di quello riconquistato; e lo conferma l’avanzata russa del 2024, che ha pressoché completato la conquista del Donbass, si è allargata negli oblast di Zaporizhzhia e Kharkiv e ora minaccia di dilagare verso il centro del Paese. Malgrado le centinaia di miliardi occidentali, Kiev non ha quasi mai smesso di perdere sul campo, anzi più potenti sono le sue armi, più ampio è il territorio che serve a Putin per mettere al riparo le sue regioni di frontiera. Quella di Kursk è stata violata in agosto, col blitz-autogol che doveva distrarre truppe russe dal fronte e invece ha distolto quelle ucraine, che ora stanno per essere ricacciate indietro, mentre negli ultimi due mesi Mosca si è presa altri 1.200 kmq di Donbass. Tutti conoscono l’entità del disastro e sanno che per non farlo diventare catastrofe serve un compromesso: i russi avranno meno del 19% che occupano ora, ma più del 7% che controllavano prima dell’invasione (Crimea e parte del Donbass); Kiev non entrerà nella Nato, ma forse aderirà all’Ue (ove mai i 27 vogliano accollarsi i debiti di uno Stato fallito da anni e ora semidistrutto); e una garanzia di difesa per Kiev. Principi già accettati da Putin e Zelensky a Istanbul, nel marzo-aprile ’22, prima che Regno Unito e Usa facessero saltare l’intesa sul più bello.
Anche Biden, negli ultimi mesi, aveva tirato il freno sulle armi: quella guerra è persa e sopravanzata da ben altri fronti (Medio Oriente e Cina). Lo sa Scholz che, in crisi economica e di consensi, iniziò a trattare ben prima di Trump. Lo sa Putin, che finge di diffidare di Trump per non scoprire anzitempo le carte. E lo sa pure Zelensky, che da giugno auspica un negoziato con Putin dopo averlo vietato per legge. E ora finge di arrabbiarsi se Scholz chiama Putin e si sente dire un’ovvietà (“Si parte dai risultati sul campo di battaglia”). Il suo sdegno è a uso interno, rivolto ai nazionalisti e nazisti ucraini che han sempre bloccato ogni negoziato, da Minsk in poi, e ora vanno zittiti con un argomento piuttosto persuasivo: “Trump ci taglia i fondi e ci costringe a trattare”. Restano da avvisare gli scemi di guerra europei, tipo Ursula e gli ultimi giapponesi della vittoria immaginaria: a furia di respingere il compromesso, lo subiranno. Regalandone il merito a quei “fascisti” di Trump e Orbán.
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