domenica 20 ottobre 2024

A pensarci però...

 

L’Iphone e l’incubo aggiornamento
L'ODISSEA - Dopo avere riavviato il cellulare, non funziona più come prima l’app delle Note. Gli assistenti virtuali suggeriscono “spenga e riaccenda”, quelli umani pure. La soluzione? “Scriva note più corte”
DI DANIELA RANIERI
Ogni mattina l’individuo iperconnesso, che agisce, compra e in definitiva vive online, si sveglia e sa che dovrà correre più veloce del Servizio clienti dei colossi digitali a cui ha affidato la sua vita.
Il capitalismo sta lì per aiutarci a vivere, gratis peraltro. L’iPhone mi avvisa da settimane della disponibilità di un “aggiornamento” del sistema operativo: una notifica rimarca la novità con pertinacia scintillante. Resisto, anche se scaricare questo aggiornamento renderà il mio rapporto col device (che solo in minima parte è un telefono: è il nostro portale di relazione col mondo) più fluido, rapido, divertente. Alcune app hanno già cominciato a non funzionare: bisogna fare l’aggiornamento. La prassi è nota, in tanti anni di savana.
Cedo al download, che è tecnicamente un upgrade, cioè si sale di grado: il cellulare sarà più efficiente. Completata la procedura, l’iPhone ti ri-accoglie come la prima volta dopo l’acquisto: ti dice “Ciao” in tutte le lingue del mondo, poi ti impone di scegliere tra opzioni cervellotiche relative alla sicurezza, tipo se vuoi mettere le password o lasciare che ti riconosca dalla faccia, come ormai è prassi da quando hanno tolto il pulsante per il riconoscimento dell’impronta digitale. Sei dentro una questura ogni santo giorno, decine di volte al giorno, ma tu non lo sai. L’iPhone aggiornato pare quello di prima, se non fosse per alcuni dettagli. Qualche app ha cambiato aspetto; le foto sono disposte secondo un ordine bizzarro; le barre di ricerca si sono spostate dal basso all’alto o viceversa (la sensazione è che qualcuno ti sia entrato in casa e abbia spostato i mobili). Mi accorgo subito che Note, l’app che serve per prendere appunti e su cui scrivo tutto, dalla lista della spesa alle password ai Pin al diario (affido a un’app la mia civiltà personale con fiducia demente), non funziona; o meglio, funziona, ma solo se non provo a inviare le note alla mia mail, cosa che faccio più volte al giorno per “salvarle”, nel caso si rompesse il telefono o gli hacker (russi) distruggessero i server su cui riposa il Cloud, la nuvola digitale che contiene i dati di tutti gli utenti del mondo. L’invio si blocca, l’app si chiude bruscamente, le note “crashano” e spesso si cancellano, suscitando il noto horror vacui di quando non ci funziona il telefono. Google non ha soluzioni: l’aggiornamento è fresco, gli utenti non hanno ancora trovato l’antidoto a questo bug. 

Bisogna chiedere aiuto all’Assistenza Apple. Si entra sul sito, inserendo ID e password e superando l’autenticazione a due fattori (arriva un codice sul telefono che bisogna inserire sul Mac). Dialogo col bot, che screma il problema chiedendomi di scegliere tra diverse opzioni di disgrazie. Dico no a tutte. Domando (a chi?) se posso parlare con un operatore. Il bot non contempla questo caso. Entro dalla app Supporto Apple sul telefono e mi ritrovo a chattare con un’operatrice, Aisha. Ora, chi ha fatto questa esperienza sa che è chiarissimo fin dalle prime battute se la persona dall’altra parte ha o non ha idea di cosa si stia parlando. Aisha non ce l’ha. Mi fa la domanda più vecchia da quando esiste il computer: “Hai provato a riavviare il sistema?”, il caro “spegni e riaccendi” con cui gli zii riparavano i televisori negli anni 80. Dico che prima dell’aggiornamento tutto funzionava bene (mi appello al logos); Aisha insiste. Riavvio. L’app non funziona lo stesso. Rientro nella chat: “Ciao, sono Aisha, come posso esserti utile?”. Dico: “Ciao, forse abbiamo parlato prima”. Lei: “No, sono un’altra Aisha”. Ovviamente, nessuna delle due era Aisha. Hanno nomi finti: il capitalismo ti dà del “tu” e impone ai suoi uscieri di fingersi persone amichevoli. È la recita dell’empatia. Spiego il problema ad “Aisha”, la quale mi molla e mi passa a un suo collega “del livello superiore”. Sono un caso ostico. Anche costui mi chiede di riavviare, però non “normalmente”, bensì nella modalità “riavvio forzato”. È una procedura delicatissima: “Devi premere e rilasciare rapidamente il tasto per alzare il volume, poi premi e rilascia rapidamente il tasto per abbassare il volume, poi tieni premuto il tasto laterale. Rilascialo quando compare il logo Apple. E aspetti”. Lo faccio. Ho smesso di vivere, di lavorare, di alimentarmi. Sto lavorando per Apple, che finge di lavorare per me. Dopo il riavvio l’app non funziona. Riapro la chat, spiego la situazione al nuovo operatore, chiedo di essere dirottata al secondo livello (ormai parlo come loro, ho acquisito il gergo), dice: “Posso farti chiamare”. L’alternativa è portare l’iPhone all’Apple Bar: astronave di puro splendore con arredi in legno chiaro e pareti bianche, dove ti accolgono assistenti che sembrano reclutati personalmente da Steve Jobs: giovani, efficienti, in pochi secondi sfornano una “diagnosi”. Il paradiso. La California.
Mi chiama un umano, dall’accento si direbbe africano, è assertivo, informato; mi consiglia il riavvio forzato; dico che l’ho appena fatto; dice che lui farà “altri passaggi” e che mi richiamerà subito dopo. Io, per pura acribia, chiedo: “E se non mi richiami?”. È semplicemente scandalizzato: “Daniela, ti richiamo, ok?”. Faccio la domanda più oscena che un operatore Apple può sentirsi rivolgere: “Ma non posso togliere l’aggiornamento e tornare al sistema precedente?”. Come avessi bestemmiato in chiesa. Resta interdetto due secondi, poi dice: “No”. Eseguo. Il telefono si riaccende, le note ancora crashano. Intanto mi arriva una mail da Apple: “Stiamo cercando di contattarti, ma la linea è occupata. Se hai ancora bisogno di assistenza, puoi richiamarci o scegliere un’altra opzione di supporto”. Solo che il mio telefono NON è affatto occupato. Chiamo, parlo con Silvayn, gli racconto tutto; è affranto; mi chiede di riavviare; lo fermo, esausta. Il capitalismo conta sul tuo sfinimento psico-fisico. Silvayn ha un guizzo di lucidità analogica: “Hai notato se lo fa con le note lunghe?”. Dico che in effetti succede perlopiù con le note lunghe. La soluzione che mi presenta, inopinatamente, è: “Scrivi note più corte”. L’upgrade è un downgrade. Ormai si sa: l’aggiornamento non serve a rendere il dispositivo più performante, ma più obsoleto. Le vecchie app col nuovo sistema non funzionano, è come tenere un ruotino di scorta col motore di una Ferrari; così devi comprarti l’ultimo modello, anche se il tuo telefono funziona(va) ancora benissimo.
“C’è un’app per tutto”, recitava uno dei primi slogan di Apple; chissà se ne esiste una in grado di contare le ore, i giorni, le settimane di vita che perdiamo dietro a questa follia collettiva che chiamiamo progresso.

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