Quando la nera diventa grigia
DI MICHELE SERRA
Sui giornali, nei telegiornali, sui siti dei giornali, Impagnatiello non dà tregua. Giro la pagina, cambio canale, faccio scorrere titoli e fotografie sul mio video e Impagnatiello c’è sempre. Ovunque. Da giorni. Non riesco a liberarmene.
Forse se si fosse chiamato Rossi l’eco del suo nome sarebbe meno prolungata. Il coltello, il temperino, il compagno di cella, i sacchi della pattumiera, il forno, quello che c’era sopra il forno, l’avvocato, la mamma, la casa di Senago, i vicini di casa di Senago, i cassonetti di Senago (visti nei telegiornali decine di volte, anche come notizia di apertura: Impagnatiello che va verso i cassonetti, Impagnatiello che si allontana dai cassonetti, perché non candidarli al David per la migliore scenografia?). Tutti i dettagli minimi, nessuno escluso, di un delitto violento e idiota, senza mistero alcuno. Il colpevole è reo confesso, è stato lui, l’è sta’ lu, come si dice a Senago. Non c’è alcuna ragione da “giallo classico” — chi sarà mai l’assassino? — a reggere il peso delle tonnellate di Impagnatiello che ci sovrastano.
La “nera” è un genere nobile del giornalismo. Anche della letteratura.
Sono i regimi che censurano le notizie di nera. Dunque, viva la nera. Ma in questo dosaggio esorbitante non è più nemmeno nera, nell’alluvione mediatica si stempera e si scolora, è a malapena un grigio pallido. Nessuna sensazione forte può durare per giorni. Dopo un po’ non è più forte, anzi non è più nemmeno una sensazione. È una forma, ennesima, dell’indifferenza.
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