martedì 13 giugno 2023

Visto da Ezio

 

Addio al pioniere
del populismo
che visse tre vite
Immobiliarista, poi imprenditore tv, infine leader politico. Silvio Berlusconi è morto lontano dalla sua Arcore

DI EZIO MAURO

Aveva cercato l’immortalità in ogni gesto della vita e soprattutto nel culto di se stesso, come se il mito del sovrano potesse generarla e l’esercizio del comando fosse in grado di garantirla. E invece anche Silvio Berlusconi ha dovuto arrendersi ieri mattina, concludendo la sua vita spettacolare in ospedale, fuori dall’unico vero teatro che aveva scelto per la rappresentazione della sua esistenza, quella villa di Arcore che era diventata da vent’anni il fondale della politica italiana, il castello della sua diversità, lo scenario eccentrico di un’anomalia trasformata in leadership. Così oggi resta l’incompiuta di un accumulo senza precedenti di un potere plurimo - economico, finanziario, mediatico, e infine soprattutto politico - che non viene portato al suo destino, ma rimane sospeso, perchè era talmente intrinseco alla sua figura da non essere trasmissibile. Come se il primato del Cavaliere coincidesse con la sua condanna: ha costruito tutto a sua immaginee somiglianza, ad eccezione del successore, disconoscendo i pretendenti ogni volta che si affacciavano alla scena, e imprigionando il futuro dentro il doppiopetto presidenziale, tagliato e cucito soltanto sulla sua figura. Il fondatore non concepiva una ri-fondazione, la sua creazione politica (che sublima e garantisce le avventure precedenti) finisce con lui, perchè era stata concepita fin dall’inizio in esclusiva per un unico interprete, che le ha fornito l’anima ideologica e il corpo fisico, trasfigurandolo in simbolo.
Questo spiega la singolarità irriproducibile del berlusconismo. Fin dalla costruzione dell’immagine di sè come quella di un self made man, un uomo del fare che nasce nel campo autonomo del business: mentre in realtà era un figlio prediletto del sistema già nell’esperienza immobiliare, ancorpiù in quella televisiva benedetta, legalizzata e garantita da Craxi, per finire con la discesa in campo politica, quando decise di giocare in proprio, ma si presentò come il principe ereditario del perimetro e dei voti del Caf, l’alleanza moderata della Prima Repubblica morente intorno ai nomi di Craxi, Andreotti e Forlani. In tutte e tre queste sue vite, tuttavia, Berlusconi ha portato qualcosa di originale e personalissimo: un istinto da outsider che conviveva con le servitù politiche e con le coperture oscure (lo “stalliere” Mangano legato alla mafia e arruolato da Dell’Utri ad Arcore, la tessera P2 numero 625 fin dal 1978), garantendogli una presa nel favore popolare, dov’era percepito insieme come uomo d’ordine e sfidante dell’establishment tradizionale.
In questo si può dire che abbia anticipato l’ondata mondiale del populismo e l’incarnazione della moderna destra egolatrica e disposta a tutto di Donald Trump: nell’insofferenza per l’élite, nella mancanza di soggezione per la cultura ufficiale, nell’infrazione permanente della regola, nello sfondamento del politicamente corretto. Tutti elementi fondamentali del trumpismo, compreso il finale da Caimano. Tutto però già visto ad Arcore, sperimentato in anticipo nel laboratorio senza pace del berlusconismo, che applicava lo schema della ri-creazione televisiva alla politica, realizzando ogni volta l’inconsueto. E confermando l’anomalia permanente del Cavaliere, scandalo per i suoi oppositori, garanzia di non omologazione per i suoi seguaci.

Come definire quell’istinto? Nel mondo del business, è una natura da rider, con l’uncino del predatore sorridente ma senza pietà, e col mistero mai svelato delle origini di quella fortuna. Nel mondo dellapolitica, è un modello reaganiano, una vocazione naturale di destra, paternalistica ma feroce, padronale anche se con la maschera del sorriso. Con l’obiettivo opposto a quello della Democrazia Cristiana, che drenava gli interessi di destra del Paese rivolgendoli al centro, mentre il Cavaliere intercettava le abitudini centriste e moderate della medietà italiana e le convertiva a destra, radicalizzandole. Spregiudicato rispetto alla tradizione, incurante della storia, quando gli è servito incassare i voti post- fascisti di Fini lo ha fatto, scongelandoli dal freezer esterno all’arco costituzionale: senza mai chiedere in cambio una revisione ideologica e una rottura con la stagione missina e l’eredità di Almirante. Da uomo nuovo, saltava i passaggi e ignorava i rituali politici e istituzionali. Semplicemente, prendeva quel che gli serviva, con la disinvoltura senza scrupoli di acrobazie che provocavano contemporaneamente una lesione e un’innovazione nel sistema: e lui era pronto ad approfittare di entrambe. Quando ha avuto bisogno di unire il nazionalismo di Alleanza Nazionale allo pseudo-separatismo nordista della Lega, ci è riuscito. Quando ha puntato sulla riedizione dell’anticomunismo classico, fuori stagione, il Paese ha dovuto prendere atto che quella predicazione raccoglieva ancora fedeli, anche se era già caduto il Muro. Quando ha provato a risorgere dalle sconfitte politiche e dall’esclusione dal parlamento, nemmeno i suoi seguaci pensavano che ci sarebbe riuscito, ma come lui ricordava ai miscredenti, «alla prova dei fatti hanno trovato il sepolcro vuoto».
L’uomo che da suddito privilegiato della politica moderata ha voluto farsi re della destra radicale, nascondeva due punti deboli.Aveva deciso di conquistare il governo spinto dai debiti delle sue aziende, e quel conflitto d’interessi lo ha sovrastato per tutta la sua lunga e travagliata esperienza nel Palazzo, rendendolo schiavo di se stesso, e riducendo di conseguenza a forza gregaria e succube Forza Italia, senza mai quella scintilla di autonomia che avrebbe forse generato un’ipotesi di legittima sopravvivenza al fondatore. E soprattutto, mentre Berlusconi era un formidabile campaigner (salvo quando ha dovuto battersi con Prodi) si rivelava un pessimo uomo di governo. Tutti i colpi di teatro, gli annunci televisivi a sorpresa poche ore prima del voto, la propaganda supina delle sue televisioni non sono riusciti a nascondere la verità di una rivoluzione liberale finita nel vuoto, con una classe dirigente certamente nuova ma sicuramente mediocre, più adatta ad una corte di palazzo che alla governance di una democrazia.
Il risultato è stato il primo vero esperimento populista al governo nelle moderne società occidentali, con un patto implicito tra il leader arci-italiano e il suo popolo: lo Stato vi lascia liberi di regolarvi come volete nei vostri interessi, in cambio di una vibrazione di consenso permanente per il leader e di un voto periodico e costante che assicuri la continuità del comando, sostituito al governo. Il tutto con la retorica dell’”unzione del Signore” che saldava il principe e il suo popolo in un’alleanza refrattaria ad ogni controllo: di legittimità da parte della Consulta, di legalità da parte della magistratura, politico da parte del parlamento, sociale da parte della libera informazione.
Davanti alle difficoltà il potere si sfogava nella dismisura, nell’ostentazione dell’eccesso, come se al Cavaliere non bastasse il potere legittimo che si era conquistato, ma volesse impadronirsi costantemente anche di una quota supplementare di potere anomalo, perchè illegittimo. Anche la distruzione del confine tra il privato e il pubblico, che portava Berlusconi a maneggiare per la sua comunicazione più “Chi” della Gazzetta ufficiale, ha finito per imprigionarlo nell’incoscienza del limite, fino alla denuncia della moglie Veronica Lario a “Repubblica” sul mercato di cariche pubbliche in cambio di favori di giovani donne: “ciarpame politico”. Quindi il precipizio dei processi, la lotta furibonda con la magistratura, e il potere esecutivo che usava il legislativo per imbrigliare il giudiziario, con tanti saluti a Montesquieu.

Tutto questo si sfarina e si disperde con lo smarrimento del potere, rivelando l’ultima tragica verità: il berlusconismo è una pratica, ma non è una cultura, capace di sopravvivere alla contingenza. Un’avventura che tuttavia ha segnato il ventennio e ha terremotato la politica sdoganando l’alternanza, creando non soltanto un campo di destra, come comunemente si dice, ma anche un campo opposto, quel rassemblement che univa tutti gli antagonisti ad una pratica politica legittima, ma disinvolta e fuori dalla regola europea e dal canone occidentale. Un’anomalia tanto grande che nelle leggi ad personam il Cavaliere sembrava dire al Paese: non puoi venirne a capo perché è irrisolvibile, dunque introiettala. Ne uscirai sfigurato ma pacificato, e tutto troverà infine una sua nuova, deforme coerenza.
Quel pericolo è diventato programma di governo, ma è stato infine evitato, anche se in questa pratica suicida Forza Italia si è giocata il futuro. Ma il presente, con l’esorcismo che lo scambiava con l’eternità, era il vero tempo in cui voleva vivere costantemente il Cavaliere, ritornando ogni volta al punto da cui tutto era incominciato: se stesso. Tanto che l’unica ipotesi autentica di successione è stata quella impossibile della figlia Marina, per trasmettere anche in politica l’eredità del sortilegio. Un’ipotesi dinastica che avrebbe consegnato integrale il conflitto d’interessi con la fortuna e il dna familiare, perpetuando l’anomalia nella contemplazione perpetua del peccato originale.
Qualcosa di faustiano e di pagano, nella ricerca idolatrica di quell’immortalità impossibile che ieri si è arresa davanti all’ultima lotta di Silvio Berlusconi: ritornato uomo dopo le sue reincarnazioni nel potere, l’invenzione della neodestra e l’ambizione metapolitica di costruire nella realtà quotidiana il palinsesto reale della vita degli italiani, in quegli anni stupefacenti e travagliati a cavallo tra i due secoli.

Nessun commento:

Posta un commento