“L’autunno del patriarca”. Rileggere Márquez per capire la ferocia del Cav
di Alessandro Robecchi
Sono un po’ restio a occupare questo mio quadratino di giornale con le gesta y la historia di Silvio Berlusconi, perché già si sono spese righe per migliaia di chilometri, ed è passato sotto gli occhi di noi tutti un coccodrillo ininterrotto di ore e ore e ore a reti unificate. Coccodrillo smemorato assai, peraltro, dove la morte non è Livella, ma Grande Prescrizione, e con la salma sono arrivate le autobotti di bianchetto per cancellare le imprese più grette, le parole più sconce e feroci, i disegni eversivi. Nessun titolo sulla P2, nulla su Eluana Englaro che “ha un bell’aspetto e potrebbe anche avere un figlio”, come lo incoraggiarono a dire i suoi più schifosi consiglieri. Nulla sul precariato e la ferocia del mercato che aveva soluzione semplice: “Le consiglio di sposare un miliardario”. Questo è stato Berlusconi. E chi oggi gli riconosce di aver plasmato il Paese, di averlo sagomato e profilato, si dimentica di dire che il Paese è cambiato in peggio, modellato sul cinismo del potere e dei dané: dalle superville alle case popolari, il premio di maggioranza spetta al ricco senza limiti, capace di finanziarsi una narrazione per cui il suddito può soltanto ammirarlo.
Ma non sarà la cronaca – né il ricordo a tassametro che oggi scorre come un fiume – a rendere i contorni dell’epopea. Servirebbe letteratura, racconto, implacabile autopsia di un Paese e di un popolo. Non è nelle lacrime dei suoi salariati di ieri e di oggi che si ritrova Berlusconi, ma in un capolavoro di Gabriel García Márquez, L’autunno del patriarca (1975), in cui in un lungo canto epico si disegnano i millemila interessi, i complotti, le furbizie, le infamie, le solitudini, le astuzie dei servi e dei complici, i nemici diventati amici, gli amici per convenienza, e tutte le sconcezze di un potere senza freni, senza limiti né confini. Come scrive inarrivabile Márquez: “Una tiepida e tenera brezza di morto grande e di putrefatta grandezza”.
Ed è solo l’inizio dello spettacolo, perché ora si assisterà a quello, più deprimente ancora, dello smembramento delle spoglie, della spartizione dell’eredità politica e culturale, dell’appropriazione centimetro per centimetro, frame per frame, di quella narrazione del potere feroce ma col sorriso sulle labbra, la barzelletta, il motto di spirito, l’ostentazione. Come in quei giganteschi affreschi di battaglie dove la scena è grandiosa ma l’occhio è catturato dal particolare, lo zoccolo di un cavallo, il ricciolo di una nuvola. Il dettaglio è tutto, per chi capisce che “il pullman di troie” non è freddura da bar, ma Zeitgeist, lo spirito del tempo, l’impronta ideologica e culturale.
E c’è un altro mirabile racconto di Márquez che ci parla dell’oggi, ed è Los funerales de la Mamà grande (1962), in cui per Macondo passano il cordoglio universale, le lacrime vere e finte, i famigli, i miracolati, i mediocri elevati a sub-potenti, i devoti per scelta, o per conformismo, o per convenienza. Spettacolo molto “sudamericano”, da provincia dell’Impero, da populismo estremo e conclamato, che finalmente si potrà raccontare. Ancora Márquez: “Ora che è impossibile passare da Macondo a causa delle bottiglie vuote, dei mozziconi di sigarette, degli ossi spolpati, degli stracci, degli escrementi lasciati dalla folla che ha partecipato ai funerali, ora è giunto il momento di accostare uno sgabello alla porta di strada e cominciare a raccontare dal principio i particolari di questa perturbazione nazionale, prima di dar tempo agli storici di arrivare”.
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