giovedì 12 gennaio 2017

Articolo

giovedì 12/01/2017
TENDENZE

Feticci immortali: cercasi ancora iPhone (molto) disperatamente

IN VENDITA - NELLE INSERZIONI SU SITI E GIORNALI IL CELLULARE DELLA APPLE È L’OGGETTO DEL DESIDERIO, TRA DRONI E OROLOGI PER JOGGING




L’iPhone compie dieci anni e a guardarlo, come un figlio, non pare possibile di aver vissuto senza di lui. Al di là delle sue funzioni, l’ultima delle quali è telefonare, l’oggetto in sé possiede una sua forza magica, tipo monolite di Kubrick, bastone della scimmia digitante che è il cittadino globale. A navigare su eBay e a sfogliare Porta Portese sembra che non abbiamo desiderato e posseduto che smartphone e oggetti tecnologici. Eppure siamo stati un popolo dedito al culto oggetti diversi, utili e inutili, ci siamo scambiati piccoli patrimoni e buone cose di pessimo gusto usando le inserzioni sui giornali.
Lì, nella secca sintassi che sfiora l’haiku o il necrologio, sciorinata per pagine sottilissime, in un’oltranza nevrotica a metà tra l’enciclopedia e la demenza, sopravvive la microeconomia sommersa degli italiani, ormai quasi ingoiata dal Leviatano dell’e-commerce. C’è una storia collettiva, un’etnografia e persino un’epica, nel bric-à-brac dell’Italia passata attraverso penurie di guerra, boom, stasi, globalizzazione. Cosa volevamo, un tempo? Quali oggetti compravamo, e di quali ci disfiamo oggi, rimettendoli in circolo?
Nella rubrica delle inserzioni della Gazzetta Piemontese, antenata de La Stampa, il 9 settembre 1889 qualcuno vende balle di cotoni, mobili per salotto, elisir. Su La Stampa del 9 febbraio 1912 nei Piccoli avvisi d’indole commerciale qualcuno cerca botti vinicole e francobolli, uno vende “macchina da scrivere bicolore”, un altro “automobile Torpedo”. Il 31 agosto del ’35 gli annunci diventano “annunzi”: si compra-vendono poltrone, porte, tappezzerie, moto, furgoncini. La guerra rimescola l’economia domestica e corregge il fabbisogno familiare. Nel ’39 qualcuno cerca radioricevitori, altri vendono motocarri. Nel ’44 si compra nitrocellulosa, acetone, paste abrasive per verniciatura, e compaiono macchine da cucire Singer e Necchi. Chissà chi era che nel settembre ’45 su L’Unità “causa partenza” vendeva “gondola Larice”. Accanto, qualcuno cedeva “kg 13 lana materasso” e un signore di Torino comprava “violino e pianoforte”. Il 30 gennaio 1945 sullo stesso giornale si comprano argento, rottami; si vendono oggetti preziosi e lana. Nel ’47 un negoziante svende “fisarmonica, tritacarne, tritaghiaccio”. Poi c’è una lunga bonaccia di anni pieni di piccoli utensili per cucinare, stoffe, vestiti; qualche ex ricco vende mobili. Dal ’65 gli italiani già rivendono “lavatrici frigoriferi da lire 68.000 e mobili americani”. E inizia la teoria infinita degli oggetti elettronici: giochi, flipper, videotennis, Commodore 64, lettori VHS, lettori Cd.

9 FEBBRAIO 1912

Su La Stampa qualcuno cerca botti e francobolli, uno vende “macchina da scrivere bicolore”
Alcuni di questi oggetti sopravvivono non rottamati nel sottomondo di urgenze, liquidazioni, congedi che sono le inserzioni, in cui un popolo un po’ settario e taciturno si scambia la sua nostalgia del vecchio, o vintage (anch’esso a sua volta un furbo prodotto del marketing). Su Porta Portese da sei mesi qualcuno tenta di piazzare una “Lettera 22 modello verde chiaro esposto al Moma di New York” (nel romanzo Eccomi di Jonathan Safran Foer un nativo digitale chiede: “Cos’è una macchina da scrivere?”), tra le pagine infinite degli oggetti globali con libretto d’istruzioni in inglese-cinese, mobili Ikea, elettrodomestici. Qualche stranezza: “Clisteri monouso adulto vendo metà prezzo”. Cose felliniane: “Scaldino per diffondere un benefico calore”. Ma, poi, tutti oggetti inauditi: telefonini iper-performanti, iPad, Pc, amplificatori, auricolari (con filo e bluetooth), navigatori Tom Tom, sintoamplificatori, bracciali per fitness “activity tracker”, droni normali e/o fotografici; in materiali un tempo inimmaginabili, hanno fatto il loro ingresso nel mondo per soddisfare smanie inedite. Per centinaia di pagine, si squaderna il catalogo nudo e eloquente delle nostre fuggevoli ossessioni: caterve di “cornici digitali Canon nuove mai usate”, cellulari vestigiali Alcatel, Motorola, Siemens, Nokia, LG, e gli immancabili iPhone 4, 5 e 6 con relativi accessori.
Sotto il barocco diluvio di silicio, occhieggia il mondo analogico, nevrotico e totalitario del collezionismo: fumetti, monete, cimeli del ventennio fascista e della Germania del Reich: bronzi del Duce originali (50 euro) e made in Taiwan (15), timbri delle SS. Poi galeoni, fiches, Ferrari, pistole e pugnali, una cascata di bambole. Il magnetismo inesauribile della bambola, del suo sguardo perturbante, inanimato e torbido, reclama insieme ai trenini i diritti del mondo perduto dei giocattoli; poi è tutto Playstation, Nintendo, Xbox, Wii.

9 SETTEMBRE 1889

Nella rubrica delle inserzioni della Gazzetta Piemontese, vendono balle di cotoni mobili per salotto, elisir
Nel nostro compulsivo usare e farci usare dalle cose, ignoriamo che ogni oggetto è un turbolento buco nero di relazioni e accidenti. Non avvertiamo che ogni prodotto uscito dalla fabbrica ha una specie di cuore calcareo dato dal plus valore e dalla forza lavoro incorporati in esso. Con il passaggio dalla produzione alla seduzione, dall’utilità alla pubblicità, il senso di alienazione rispetto agli oggetti (il “feticismo della merce” di Marx) si è diffuso oltre la classe operaia che li costruiva nella catena di montaggio ed è diventato una pulsione trasversale ai ceti. Il nostro rapporto con le cose si gioca ormai tutto nella tensione tra desiderarle moltissimo e buttarle: il “sex appeal dell’inorganico”, quella forza invincibile che ci fa volere un iPad da sfiorare, inonda i nostri pensieri e le nostre case.
Se non siamo sommersi dai rifiuti elettronici, è perché qualcuno li ricompra e riusa. È il limite dell’economia dell’inutile: non tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. Dalle scorie elettroniche trattate con acido idrocianidrico (cianuro), tolta la polvere di ceramica che ne costituisce il supporto, si ricavano, per un valore di 800 mila euro ogni 50 chilogrammi, oro, porfirio, argento (ironicamente, i nomi primitivi della ricchezza).
Già le Esposizioni Universali del 1900 erano una specie di realtà aumentata in cui disponibilità, incanto, tempo libero e spreco si baciavano grazie al denaro. E però l’anima di un oggetto non è mai stata tanto svelata eppure così imprendibile come oggi: con qualche clic ci assicuriamo ogni prodotto pensabile, che dopo due-tre giorni ci appare davanti; ci viene incontro quasi volando, ancora caricato dell’aura magnetica del desiderio. Ma gli annunci testimoniano delle nostre brevi avventure con gli oggetti, dicono che viviamo nel bisogno mentre accumuliamo inutilità. Dentro l’oggetto iPhone è racchiusa la risposta alla domanda: ci ha resi schiavi o ci ha liberati? Nella riedizione del nostro feticismo, si afferma, aspra, “l’insospettabile ferocia delle cose” di Gadda, la verità ultima degli oggetti che emerge quando il commissario Ingravallo, davanti al cadavere dell’amata Liliana, cerca di indovinare su quale mobile o soprammobile del salotto si sia posato l’ultimo sguardo di lei. Nel vortice degli oggetti che vogliamo o che non vogliamo più, si realizza la profezia di Walter Benjamin: “Succederà che nelle nostre stanze ben provviste e fornite di tutte le comodità immaginabili non c’è posto per ciò che davvero è prezioso”.


Nessun commento:

Posta un commento