venerdì 27 gennaio 2017

Ricambi generazionali


Inammissibile questa scelta oggigiorno, basti pensare al Presidente della Cassazione Canzio che allunga di un anno il suo incarico. Eppure, sparigliando, Enzo Bianchi, Priore di Bose, ha appena rimesso il suo mandato. Spiegando il gesto in quest'intervista oggi su Repubblica.

“Lascio il priorato di Bose per noi anziani ritirarsi è una virtù”
PAOLO GRISERI
TORINO.
Bisogna saper lasciare: «Dopo cinquant’anni di priorato è giusto che questo compito venga preso da altri. La trasmissione dell’eredità tra generazioni è uno dei grandi problemi della nostra società». Così Enzo Bianchi, 73 anni, monaco, fondatore della comunità di Bose sulla Serra di Ivrea, punto di riferimento per il dialogo ecumenico, soprattutto con il mondo ortodosso. Ieri mattina Bianchi ha lasciato la guida della comunità che ha eletto il suo vice, il monaco Luciano Manicardi.
Come dovremo chiamarla ora? Priore emerito?
«Ci sono dei doveri che spettano al fondatore di una comunità anche quando smette di essere priore».

Ma non è regola che i fondatori rimangano ad libitum, fino alla morte?
«C’è questa consuetudine ma io ho deciso di non rispettarla. C’è un tempo per guidare la comunità e un tempo per lasciarsi guidare. C’è un passo di Agostino che ricorda la consuetudine dei cervi. Il capobranco cammina sempre davanti al gruppo. Poi, quando sente che è venuta l’ora, si mette in fondo e appoggia il capo sul dorso di chi lo precede per riposarsi».

Anche Benedetto XVI ha scelto di lasciare in anticipo. Giovanni Paolo II invece era rimasto ad libitum, a dispetto della sofferenza fisica. Perché lei ha seguito l’esempio di Benedetto?
«Ho scelto questa strada anche pensando a san Francesco che aveva lasciato la guida del suo ordine alcuni anni prima della morte. E pensare che all’epoca Francesco era molto più giovane di me, aveva 42 anni».

Non sono molti coloro che si dimettono. I giovani accusano gli anziani di farlo di rado...
«Il problema della trasmissione dell’eredità è una delle questioni di oggi. Gli anziani non si fidano di passare la mano perché spesso loro stessi non hanno un un indirizzo preciso da indicare ai successori. E così temono, forse a ragione, che i giovani finiscano per dissipare quell’eredità».

Anche lei ha avuto questo timore?
«Io volevo lasciare già due anni fa. Ma ho chiesto a due abati di visitare la nostra comunità e dare un giudizio sulla vita spirituale, unana ed economica. Al termine di un lungo esame molto positivo mi hanno consigliato di rimanere altri due anni per terminare la messa a punto del nostro statuto. Ho concluso questo lavoro, che ha avuto l’approvazione ecclesiastica. Ieri la comunità ha eletto un nuovo priore».

Lei è salito a Bose nel 1965.
Qual era stata la molla che lo aveva spinto a una scelta tanto radicale?
«In quel periodo ero un giovane che faceva politica. Avevo un futuro nella Dc. Mi avrebbero candidato anche alle elezioni politiche del 1968. Ma nel frattempo ero andato a Rouen a vivere tra i baraccati lungo la Senna insieme all’Abbé Pierre. È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Ho lasciato tutto, non solo la carriera politica, e sono salito a Bose, a vivere da solo in una cascina abbandonata».

Per quanto tempo è rimasto da solo?
«Per due anni. Poi, nel 1967, sono arrivati i miei primi fratelli e da allora ho cominciato a svolgere il servizio di priore. Abbiamo vissuto per 13 anni senza energia elettrica e senza acqua corrente, al freddo, facendo la fame e alla luce delle candele. È stato il nostro noviziato».

Poi siete diventati un punto di riferimento.
«Oggi siamo in 90 e arriviamo da diversi Paesi. Ogni anno vengono a visitarci tra le 18 e le 20mila persone. Sono passati qui in visita tutti i patriarchi ortodossi delle Chiese d’Oriente».

Qual è l’augurio al suo successore?
«Di essere sempre misericordioso verso i fratelli e le sorelle. Per fare il priore bisogna avere saldezza e discernimento. Ma senza misericordia sono virtù sterili e pericolose».

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