L’unica strategia Ue sono le armi e non esiste altro
DI GIANFRANCO VIESTI
In Italia si discute pochissimo della proposta di luglio della Commissione Ue per il bilancio del 2028-2034, su cui ora si tratta a Bruxelles. Una grave sottovalutazione. Perché il bilancio è cruciale: definisce le politiche che si faranno a livello europeo, e che hanno notevole influenza anche su quelle nazionali. E perché la proposta della Commissione è assai contestabile, per più motivi.
In primo luogo, la dimensione effettiva del bilancio rimane inalterata, minima (1% del Pil europeo) rispetto ai problemi da affrontare. I Paesi preferiscono usare ciascuno le proprie risorse, e non incrementare i contributi per azioni comuni. Non si propone alcuna forma di nuovo indebitamento europeo, come era stato fatto a seguito del Covid con il Next Generation Eu. Non si propone alcuna rilevante nuova “risorsa propria” (finanziamento diretto) dell’Unione, neanche collegata alle necessità di promuovere la transizione ecologica.
In secondo luogo, la frenesia bellicista che pervade le classi dirigenti europee e l’assurdo impegno preso in sede Nato di crescita esponenziale delle spese militari, si traducono in diffuse indicazioni di favore per queste ultime, all’interno delle grandi voci di bilancio. Sia all’interno delle politiche “di competitività” sia per quelle di coesione vi è una spinta a utilizzare le risorse europee per la difesa: cioè, a non utilizzarle per le fondamentali esigenze di rilancio tecnologico e di sostegno a tutti i territori. Solo con il tempo si potrà capire davvero quanto sarà destinato agli armamenti: ma sarà troppo tardi per intervenire.
Ancora, grandi risorse sono destinate all’Ucraina e ai futuri allargamenti. Tema assai spinoso. Dare per scontato un rilevante ampliamento a Est dell’Unione trascura problemi sostanziali: dall’effettiva connotazione democratica di quei Paesi (condizione giustamente imposta dai “criteri di Copenaghen” per l’ingresso nella Ue) al peso che essi eserciterebbero su tutte le spese dell’Unione. Dalle straordinarie difficoltà procedurali e decisionali già evidenti con 27 membri (che crescerebbero ancora, molto), alla questione dei Balcani, in fila da tempo per entrare.
Stesse risorse comunitarie, più spese per la difesa e per gli allargamenti. Chi paga? I tagli si scaricano sugli investimenti per la tenuta sociale e politica dell’Europa. Da un lato sulle politiche agricole; e soprattutto sulla dimensione dello sviluppo rurale. Tema di grande importanza, alla luce delle trasformazioni demografiche e del disagio e del risentimento che si manifestano nelle aree lontane dalle grandi città. E che si esprime sempre più chiaramente con il voto per formazioni di estrema destra. Dall’altro sulle politiche di coesione: la spina dorsale degli interventi comunitari, il principale canale di finanziamento degli investimenti pubblici e delle, pur modeste, politiche industriali; per impedire un ulteriore marginalizzazione delle regioni più deboli e sostenere l’evoluzione di quelle più forti. Anche a scala comunitaria le esigenze dell’“economia di guerra” vengono finanziate tagliando le risorse per la formazione e la ricerca, le infrastrutture economiche e sociali, gli interventi di creazione di nuova occupazione.
Per le politiche di coesione la proposta della Commissione fa però molto di più e molto di peggio. Scardina quell’insieme di indirizzi e di regole comuni a tutta l’Europa che sono maturate dagli anni Ottanta a oggi, dai criteri di allocazione territoriale (di più ai più deboli in Europa) al governo “multilivello” (Ue-Stato-Regioni) di questi programmi, alle priorità condivise. Indirizza i fondi comunitari a un unico contenitore, paese per paese, che ogni esecutivo nazionale potrà utilizzare come meglio crede, scegliendo politiche e territori. Segno dei tempi, potrebbe essere un politico italiano, il vicepresidente Fitto, a smantellare una politica che per 40 anni, pur con tutti i suoi difetti, ha sostenuto il nostro Paese e soprattutto il Sud.
C’è una salvaguardia finanziaria, in riduzione rispetto al passato, per le regioni più deboli, ma non per le altre. Non per il Piemonte, regione indebolita, “scesa di livello” nelle classificazioni comunitarie, che con le vecchie regole avrebbe avuto una riserva significativa; che non c’è più, e che dovrà elemosinare a Roma, sperando in un governo amico. Un “modello Pnrr”, condizionato dal rispetto dell’austerità macroeconomica, con politiche nazionali che difficilmente incontreranno le differenti esigenze territoriali; ridisegnabile nel tempo, con estrema flessibilità per soddisfare le preferenze contingenti della politica, come sta avvenendo per il vero Pnrr, ormai alla sesta, opaca, riprogrammazione sotto il ferreo controllo dell’esecutivo. Insomma, meno Europa (quella buona, del passato), più armi, più sovranismo: è il caso di discuterne.
Nessun commento:
Posta un commento